I racconti del Premio letterario Energheia

Rugiada_Angela Falconieri, Terlizzi(BA)

_Racconto finalista diciottesima edizione Premio Energheia 2012.

 

 

Li teneva chiusi. Riuscivo a vedere il ghiaccio dei suoi occhi oltre le sue palpebre serrate, riuscivo a vedere le lacrime che fremevano per uscire fuori. Riuscivo a vedere tutta quanta la sua rabbia.

Quanto era bella. Capelli rossi, mai in ordine. Portava quell’elastico bordeaux che le avevo già visto un’altra volta.

Doveva piacerle molto. Stava corrugando la fronte. Lucia mi aveva detto che quando era irritata, triste o arrabbiata lo faceva.

Si era affezionata facilmente a Lucia. Era una donna così buona. La osservavo.        Era ferma, sguardo basso, di fronte a me ed io mi sentivo, finalmente, sua madre. Lei mi aveva aspettata tutta la vita, come aspettava ogni anno il natale, come aspettava che il primo fiocco di neve ogni inverno si posasse sul suolo gelido, ma l’attesa del mio arrivo non era durata un anno, e neppure 2, o 3, era durata 15 lunghi anni. Adesso Giada odia il natale, odia la neve, odia me. Io l’aspetterò, se sarà necessario, ma la capirei se non volesse più vedermi. Ha così tante ferite da curare, ha così tante verità negate. Vive sommersa da bugie, da storie mai raccontate, da domande senza risposta.

Lucia l’ha sempre trattata come una bambina da proteggere, ha cercato di darle ciò che io le ho tolto, ma non ha potuto non dire, non ha potuto tacere tristi verità soltanto perché pensava che Giada non potesse sopportarle, non potesse reggerle.         Così le ha raccontato del suo abbandono, le ha raccontato una storia che io non conosco ma che non è vera. Per esserne certa mi basta guardare Lucia. A volte il suo sguardo è assente e, ogni volta che mi incontra, che le passo davanti o che accenno un imbarazzato saluto, precipita improvvisamente in un colpevole silenzio. Lei non è stata sincera. E’ evidente. Giada aveva cominciato a correre e aveva raggiunto un discount a pochi metri da me. Ci era entrata correndo all’impazzata. Io ero ferma lì fuori. Ci sono rimasta più di 2 ore, poi ho capito che dovevo darle tempo e sono andata via. Ogni giorno andavo fuori la sua scuola. Aspettavo che uscisse, nascosta dietro la grande quercia fuori da quell’istituto. Poi la accompagnavo a casa, ovviamente senza che lei si accorgesse della mia presenza.

Ormai ero in grado di descriverla nei particolari. Non era una ragazza perfetta, ma nella sua imperfezione aveva creato il suo equilibrio. Aveva paura che potessi sconvolgerle la vita, ecco perché mi odiava. Lucia non sembrava felice del fatto che fossi tornata da Roma, avrebbe preferito che fossi rimasta a Bari, e che Giada avesse continuato a non sapere. Invece ero tornata e, a suo modo, aveva dovuto raccontare, o lo avrei fatto io, prima o poi. Ma cosa avrei dovuto raccontarle? Una storia di violenza che le avrebbe fatto odiare per sempre gli uomini. Dovevo raccontarle una storia che preferirei tacere a me stessa, quella di una ragazza che al suo rientro a casa incontra un uomo, impermeabile fango, capelli brizzolati e sguardo fisso su di me. Poi urla, paura e lacrime. Questo Giada non lo sa e non è bello da dire ad una ragazzina che immagina il suo papà come un eroe, come l’uomo che un giorno tornerà a prenderla. Chissà cosa le hanno detto. Una volta ho sentito Lucia pronunciare queste parole: – Tornerà a prenderti, tranquilla.

Ma adesso hai una nuova famiglia.

Cosa credeva, che per me fosse facile? Dov’era finita la gioia del parto di cui mia madre mi aveva sempre parlato?

Dov’erano gli abbracci affettuosi e le carezze delicate che una madre regala, dolcemente, al proprio figlio? Erano andati via, lontano da me, e con essi tutti i ricordi della mia infanzia trascorsa sul grembo della mia mamma, mentre lei, ogni sera, assonnata, mi raccontava con un sorriso trasognato storie d’amore, di cavalli bianchi e principi azzurri. L’impermeabile fango non era previsto. Giada non lo sa, purtroppo. Tre secondi dopo il parto ho chiamato Lucia. Provavo una strana repulsione nei confronti della mia bambina. L’ho respinta, allontanata da me, gli anni che ho trascorso a Bari non sono stati certo facili, tra un lavoro part-time e l’altro. Badante, donna delle pulizie, baby sitter. Sì anche baby sitter e giuro che ogni giorno nei sorrisi, nei primi passi di Sara, nelle sue prime paroline, nel suo “mamma” pronunciato a stento, con ritrosia, quando Anna era arrabbiata e con una gioia immensa che le si imprimeva indelebilmente negli occhi quando la sua mamma tornava da lavoro, io sentivo l’eco delle parole di Giada. Ammiravo la forza con cui, ogni giorno, Anna rientrava a casa, legava furtivamente i suoi capelli, lasciando sempre qualche ciuffo fuori posto, si toglieva le scarpe, indossava un vecchio vestitino rosso e poi correva dalla sua bambina posando dolcemente le labbra sulla sua fronte. La prendeva in braccio, tirandola fuori con un respiro di sollievo da quel box verde acqua, logorato dai segni del tempo e mi diceva: – Puoi andare, ci vediamo domani, grazie.

Si metteva frettolosamente ai fornelli, cercando di nascondere a Sara la stanchezza di una giornata lavorativa. E così ogni mattina mi lasciava sua figlia, dolente. Le sue braccia protestavano per tenerla ancora stretta sul petto, con le gambe a penzoloni e la testa poggiata sulla spalla sinistra, sempre la stessa. I suoi occhi comunicavano invece uno strano senso di colpa, infondato direi, o forse no. Poi le diceva avvertendo una stretta al cuore: – ci vediamo stasera amore mio. “Ci vediamo stasera”, diceva così e quelle dodici ore lavorative le sembravano un’eternità. Sara alle sette in punto era davanti alla porta. Contava dieci volte fino a dieci. Così le aveva detto la sua mamma. Era troppo piccola per poter contare fino a cento. Alle sette e un minuto eccola lì che prendeva un respiro profondo e poi “uno, due, tre, quattro, cinque… nove e dieci”.

Una pausa, un altro respiro e cominciava nuovamente da uno.

Quanto avrei voluto essere Anna quelle sere in cui provavo a stringere tra le mie braccia la mia bambina e avvertivo il vuoto assoluto accanto a me e dentro di me. “Se vuole può abortire. Ha superato la maggiore età, la scelta è tutta sua, non deve chiedere consensi a nessuno. Faccia presto a prendere una decisione. Buonasera. “Come se mi stesse chiedendo di rinunciare ad un paio di caramelle, che le butti via così.

Con quel suo tono distaccato non mi aveva neppure guardata in faccia per scorgere in me i segni ancora evidenti della violenza, delle percosse subite. Io, gettata via all’angolo di una strada col viso rigato da lacrime interminabili, io, corpo senza forza. Cosa ne poteva sapere lui. Mi sono seduta su quel lettino ospedaliero e ho riflettuto a lungo. Accanto a me una donna sulla trentina, alta, bellissima, carnagione scura, forse brasiliana, si toccava la pancia mentre avvertiva i calci di quella piccola vita che scalpitava dentro di lei. Sorrideva, nonostante il dolore. Era una prostituta, una di quelle che si trovano nei pressi delle complanari e che arrivano qui in Italia su un gommone, trasportato dalle onde, con una valigia di cartone mezza vuota, mille sogni e speranze e il giorno dopo si trovano su una strada ad accontentare uomini che le usano per pochi soldi, come se fossero merce da bancone. La bellissima donna vicino a me avrebbe dato il suo bambino subito dopo il parto, ed è quello che decisi di fare anch’io. “Lo tengo “. Poi mi alzai e me ne andai. Ho avuto mille problemi economici dopo. Non riuscivo a sostenere le spese della casa che avevo affittato, soldi su soldi. “Signora le stacchiamo la corrente! “. Senza luce. “Signora le togliamo il gas! “. Via anche il gas. “Signorina, le tolgo la casa”. Ultimo step, via la casa. Anna si era trasferita a Milano ed ero una disoccupata.

Nessuno avrebbe assunto una donna in pieno stato di gravidanza.

Con qualche esitazione ho cominciato a frequentare una casa d’accoglienza per i senza tetto nei pressi del centro storico. Lì sono stati tutti molto buoni con me, sempre gentili.

Al termine del nono mese sono andata in ospedale e ho messo al mondo Giada.       Il nome l’ho scelto io. Sin da bambina mi faceva pensare alla rugiada che,appena sveglia, correvo ad osservare sulle piante del mio giardino. Era quasi invisibile, fugace. Restava ferma per un po’, luccicava,poi scompariva e anche Giada sarebbe scomparsa. Non ho voluto prenderla in braccio alla nascita. Non la consideravo mia figlia. L’ho data a Lucia e le ho detto “Ecco tua figlia”. Poi ho firmato e ho lasciato l’ospedale.

Adesso Giada mi manca. Sono tornata a Roma perché la rivoglio con me. Lavoro in un call-center, ho uno stipendio fisso. So di aver sbagliato e capisco anche Lucia che ormai è troppo legata a lei ma Giada è mia figlia. Continuo a frequentare i posti che lei frequenta, vado a prenderla tutti i giorni da scuola e discretamente l’accompagno a casa. Non corruga più la fronte quando si accorge della mia presenza. La scopro spesso seduta sulle scale d’emergenza a scopiazzare qualche espressione di matematica prima del suono della campana.

Poi la vedo chiudere frettolosamente i quaderni, riporli nella sua cartella di un rosso sbiadito, che dà sul rosa, e dire “Sei un angelo Fio’, grazie “. Sempre la stessa frase, sempre la stessa scena alla terza ora del mercoledì e alla seconda del venerdì.         Penso che le scale d’emergenza sappiano del suo arrivo. Subito si defila sperando di non essere interrogata e mentre corre sistema i capelli e cerca di sembrare disinvolta.

Entra in classe. “Boom” chiude la porta ed io vado al lavoro.

Alle tre stacco e ricomincio a cercarla. Conosco i luoghi che frequenta. Sono ogni giorno gli stessi e sempre alla stessa ora.

Deve essere una ragazza metodica.

La scorgo spesso nascosta dietro il sipario rosso dei suoi capelli mentre legge un libro o ascolta un po’di musica con un paio di auricolari neri. Qualche giorno fa ha distolto per un attimo lo sguardo dal libro verde che leggeva, ha sollevato la testa, mi ha vista. Poi, con la testa bassa ha detto:- Devi gridare! Quando parli, quando leggi, anche quando ti muovi devi gridare. Devi gridare con la voce, con il corpo, con i gesti, con gli occhi. Deve gridare persino il centimetro più remoto della tua pelle. Se non grida, se resti in silenzio, nessuno si accorgerà della tua presenza. Continuerai ogni giorno a passeggiare per strada, a calpestare l’asfalto che ormai conosce il rumore dei tuoi passi, ma la gente non riconoscerà mai il tuo odore e non leggerà mai i tuoi occhi. Se vuoi dirmi qualcosa io sono qui, ma devi gridare e il tuo urlo deve irrompere nel silenzio in cui vivo. Nel mio silenzio, nel silenzio di Lucia che non vuole raccontare. La tua voce deve fare baccano e deve zittire tutto il resto. Deve zittire tutto il mondo, Deve zittire Lucia e devi riuscire a zittire anche la mia rabbia. Grida! – Ha chiuso il libro, l’ha gettato nella cartella ed è scappata via. Io sono rimasta ferma per qualche minuto e riuscivo a sentire i battiti del mio cuore amplificati. Non c’era nessun altro suono, nient’altro. Non esisteva nessun altro, soltanto mia figlia. Ho cominciato a camminare lungo il viale alberato dietro il “Bar dello studente” mentre la pioggia cadeva giù a catinelle e le mie scarpe si staccavano a stento dall’asfalto ricoperto da foglie secche, umide e arancioni. L’autunno non era mai stata la mia stagione preferita, ma sentivo che lo sarebbe diventata presto. Sono tornata a casa, ho asciugato i capelli e ho sfilato i jeans completamente fradici. Mi sono preparata, ero perfetta.

Sembrava dovessi andare ad una festa, una di quelle feste che si organizzano per la gente di un certo spessore. Invece avevo semplicemente deciso di andare a parlare con Giada.

Voleva che gridassi. Era stufa della mia discrezione, dei miei inseguimenti silenziosi. Voleva che mi facessi notare. Sono rimasta fino alle nove e venti davanti allo specchio, seduta sul letto, a rosicchiarmi le unghie, a battere il piede per terra e a guardare l’orologio che con un odioso ticchettio mi ricordava ogni minuto che passava mentre io ero lì seduta invece di essere da mia figlia. Poi mi sono alzata, ho infilato un paio di vecchie converse e ho cominciato a correre. Non c’era tempo per scegliere altre scarpe. Quando sono arrivata sotto casa sua ho gridato più forte che potevo “Scendi! Sono mamma!”. Non avevo più fiato. Lei si è affacciata alla finestra senza spostare la tenda, ma io riuscivo a vederla lo stesso. E’ rimasta immobile per trentacinque minuti,poi l’ho sentita sbattere violentemente la porta e precipitarsi di fretta giù per le scale. Varcata la soglia del portone mi ha guardata, ha visto il mio vestito di seta blu e le mie scarpe, decisamente inadatte, e con gli occhi lucidi ha accennato un sorriso. Poi mi ha abbracciata forte, sembrava non volesse lasciarmi andare, mi teneva stretta come se non avesse mai abbracciato nessuno. Singhiozzava, non riusciva a parlare. Siamo rimaste abbracciate per molto tempo, non so dire esattamente quanto ma è stato il momento più bello della mia vita. Si è staccata da me dopo tanto, ma non ci siamo dette nulla.Si è asciugata le lacrime con il maglione e ha detto:- Lucia non lo deve sapere. Ha chiuso il portone ed è corsa su.

Ho ripensato all’abbraccio di Giada e ai suoi occhi che imploravano complicità, affetto. Ci ho pensato tutti questi giorni e non ho il coraggio di tornare da lei. Che codarda che sono.

Ho paura di ferirla, di non essere in grado, di non poter essere la madre che Lucia è. Eppure in quel suo abbraccio sentivo un legame particolare, sentivo qualcosa di magico, sentivo che il cordone ombelicale che ci legava, in fondo, non era mai stato tagliato definitivamente.

Che cosa siamo capaci di fare a volte. Siamo capaci di abbandonare, di fuggire, di fingerci altre persone. Siamo capaci di dimenticare, o forse semplicemente crediamo di aver dimenticato, di poter andare avanti. E invece eccomi di nuovo qui, terza ora del mercoledì.

“Giada ma ti muovi! Dai Giada andiamo o ci becchiamo l’assenza “”Aspetta Fio’”. Giada è li ferma, sulle scale d’emergenza e non si muove di un centimetro, non fa un passo né in avanti né indietro. Ha gli occhi fissi su di me e si morde le labbra. Deve aver sentito la mia mancanza questi quattro giorni.

Forse si aspettava che tornassi da lei. Ma io avevo paura, come tutti noi. Abbiamo tutti paura di qualcosa, forse temiamo soltanto che qualcuno sia migliore di noi, che qualcuno prenda il nostro posto. “Giada vieni dai! “Giada discosta i capelli dalla fronte e continua a fissarmi. “Perché non sei tornata? Ci hai ripensato? Vieni e vai quando vuoi mentre io cerco di crescere, di diventare qualcuno di costruirmi un futuro. Ma tu non ci sei”. Viene verso di me e mi dice “Hai intenzione di restare?”

Le mie intenzioni sono chiarissime. Io e Giada ci stringiamo in un abbraccio eterno, un abbraccio che non si dissolverà mai e cominciamo a correre. “Se ti chiede perché non entro avvisa la prof che sono con mamma”. Che strano sentirglielo dire, sentir dire mamma. Penso a Sara, a tutte le volte che a fatica ha emesso quelle quattro letterine alla vista della sua mamma e penso a quel vuoto che mi sono portata dentro per quindici interminabili anni. Infine guardo Giada che mi tende la mano e mi dice di seguirla, dove voglia andare non lo so, ma la seguo. Mi copre gli occhi e mi chiede di stendermi e di rotolarmi assieme a lei fino a valle. Mi chiede di pensare di essere sempre stata con lei, mi chiede di immaginare come sarebbe stata la mia vita se quel giorno, su quel lettino ospedaliero, non avessi chiamato Lucia, se le avessi insegnato io a parlare, a muovere i primi passi, a rialzarsi quando cadeva a terra, ad andare in bicicletta, a leggere, a contare. Rotoliamo e mentre precipitiamo a valle restiamo mano nella mano.

Giada ride, ride tutto quanto il suo corpo. Ed eccoci, distese in un campo di papaveri rossi che si confondono con i suoi capelli. Osservo il biancore della sua pelle, i suoi capelli rossi, il suo volto pieno di lentiggini, i suoi occhi ghiaccio e il suo nasino all’Insù. Quando ride mi ricorda me alla sua età. Sui papaveri nel frattempo luccicano tante piccole goccioline di rugiada. Abbraccio la mia bambina. Adesso siamo unite, è parte di me, lo è sempre stata. Il sole splende alto su di noi e io giuro che non la lascerò mai più. Sono ritornata nella sua vita strisciando ma lei voleva che gridassi, non ama in silenzio.

Mentre le accarezzo i capelli un impermeabile fango vola via, trasportato dalla leggera brezza autunnale.