I racconti del Premio letterario Energheia

Luxury tour_Barbara Giambartolomei, Roma

_Menzione Giuria tredicesima edizione Premio Energheia 2007.

 

Mogadiscio estate 2005

 

Il suo urlo esaspera la mia vecchia rabbia.

Il coltello che incide la pelle e la carne amplificano questa necessità disperata di giustizia.

Ho portato all’esasperazione questo bisogno giustificato di purezza.

Alì mi accompagna in questo giro turistico. In una città assediata sghignazzo io, ma Alì, nero e lungo come un’ombra etrusca, come una scultura di Giacometti, non ride.

“Non l’abbiamo voluta noi questa guerra, Yusuf”.

“Ma quello, quello lo volete voi”.

Per terra a pochi metri di distanza dai nostri passi, non c’è rimasta che una macchia di sangue.

“E’ troppo per la tua sensibilità occidentale?”

E’ umano, mi grida qualcosa in testa. Sangue Umano. Intanto mi investe una puzza di urina, di seme, di sudore. Il gruppo di uomini di poco fa è sparito. Anche il ladro è sparito.

“Non riesci ad accettarlo”.

“No”.

“Riesci ad accettare le tragiche fatalità del crociato Bush?”

“Neanche”. Scuoto la testa. L’odore mi dà la nausea. Ma Alì rimane fermo in mezzo alla strada e senza di lui io non continuo.

“Lui sa che rubare è contro il volere di Dio, sia benedetto il Suo Santo Nome”.

Faccio un gesto, come per allontanare delle mosche, ma Alì mi guarda sottecchi.

“Sa a cosa va incontro. Nel tuo Paese non c’è certezza della pena. Solo per noi, c’è”.

“E’ vero”.

“Tu sei qui, Yusuf. C’è una ragione, Dio, sia benedetto il Suo Santo Nome, ha voluto che tu venissi qui, a vedere”.

Ha mani lunghe e dita snelle di fanciulla, Alì. Un paio d’occhi azzurro profondo che sfuma nel turchese intenso di questo cielo. Mi domando se piacerebbe alle ragazze se vivesse in Italia. Ha una sagoma disegnata con meticolosità, piccole orecchie, lineamenti delicati, gli abiti immacolati. Mi chiedo come faccia a mantenerli così candidi in mezzo ad una città che è un ventre aperto, violentato.

Quando torno in albergo, mi sembra che i miei abiti – bianchi di lino, come i suoi – siano imbrattati non solo di fumo, di cenere, di sangue, ma di tutto ciò che ho visto e continuo a ritenere, come una vescica piena che non può liberarsi.

Anche quando li sfilo e li metto nel cesto della biancheria, e mi faccio in fretta una doccia – l’acqua è un filo sottile, il sapone non fa schiuma ma ha un profumo antico – me lo sento addosso. So che sono dietro i miei occhi.

Ho bisogno di telefonare ad Elena. Alì, dietro ordine di Hassan mi ha lasciato un satellitare, l’unico tipo di comunicazioni funzionanti. Mi sdraio sul letto, osservo l’apparecchio per un po’, senza percepire il fatto di essere nudo. Devo essere ben ridicolo. L’Occidente è un uomo, neanche tanto più giovane, appesantito dalla vita sedentaria con, in mano, un oggetto di tecnologia, sofisticata. Compongo il numero con una leggerezza che non mi posso permettere e che devo imparare.

“Dove diavolo sei, Giorgio?”. E’ strano, dopo tanti giorni sentire quel nome.

“Non te lo posso dire, Elena. Ascolta, volevo solo sentirti. Ti spiego tutto quando ritorno”.

Gli occhi turchesi di Alì dietro di me, la voce di Elena che arriva attraverso un mare elettrico, distorta fino a diventare irriconoscibile, l’eco della mia voce che mi stupisce. Riattacco.

Guardo fuori la notte nera di velluto che cala insieme al coprifuoco su questa città.

 

Milano, inverno 2007

Sono le piccole cose che non vanno, altre che non riesco più a metabolizzare. Spegnere la televisione con un tremito feroce nelle mani, con la stessa rabbia che da ragazzo mi ha spinto a rotolare infelice, per il resto del mondo, alla ricerca della più piccola miccia da innescare per distruggere il mio. I recinti dove gli Indiani d’America vengono tenuti prigionieri come cani rognosi, gli slums dove vecchi e bambinetti di pochi anni rovistano insieme ai cani randagi, in mezzo a montagne di immondezza. Niente è cambiato: il petto devastato delle madri, palestinesi che piangono figli, mariti e fratelli, è il petto devastato delle madri irachene che piangono le vittime di un errore umano.

Elena si rigira come un piccolo animale sazio addosso al mio petto. La camicia di bisso zuppa di sudore le aderisce al corpo. Le zone oscure delle ascelle, del grembo, la peluria sulla nuca bianca. Ha mandato in malora la sua vita, ma la sua vita, ancora non lo sa, mi ha sussurrato dopo che abbiamo fatto l’amore, prima di crollare addormentata. Ha fatto mille domande. A volte è difficile non risponderle. “Tutti si aspettano qualcosa da me…”, ha mormorato e si è stretta addosso a me.

Lo squillo del telefono non la sveglia. Neanche io che esco dal letto, vado in un’altra stanza per rispondere.

Il cuore batte sempre forte in questi. Mi aspetto la voce di Alì, ma è un altro timbro, con un forte accento inglese. Devo abituarmi a tutto questo.

Quando la comunicazione finisce, distruggo la SIM e il cellulare. Dietro di me Elena, sulla porta del bagno che mi osserva stupita, ancora un pò addormentata.

“Che fai, Giorgio?”

Le sue sono domande intercalate dal mio nome. Segnano quella frontiera dove mi divido. Anche lei lo sa, non gliel’ho nascosto, l’ha saputo fin dal primo momento quando, nel biglietto che le ho inviato insieme al primo regalo, le ho lasciato un verso di Adonis. Non c’ero, ma ho immaginato le sue mani tremare leggermente, un sorriso tenue, impaurito, illuminarla. E poi, mettere via il biglietto, farlo scivolare nelle tasche del tailleur elegante.

Elena è il ponte. Elena è il passaggio stretto, la porta che qualcuno ha aperto e qualcuno, forse io, devo richiudere.

“Riesci ancora ad indignarti?”, mi chiede dopo che ho terminato la preghiera serale. A volte ha delle intuizioni spaventose, altre, sembra incapace anche di capire chi sono.

Sento due stanze più in là, nel piccolo soggiorno che uso come studio il vocio imparziale di un TG.

“Pensi che abbia distrutto quel cellulare per rabbia?”. Lei nega con un gesto del capo. Affonda le dita nel cibo e lentamente lo porta alle labbra. Ho voluto che indossasse un abito bianco lungo, a tunica, dalle ampie maniche arabescate. Fa contrasto con i capelli e gli occhi scuri. Se non sapessi che è di qui, potrebbe incarnare la bellezza della Sulamita. La bellezza non deve andare perduta. Questa guerra non l’abbiamo voluta noi, continuo a ripetermi, mentre osservo il suo gesto di leccarsi lentamente le dita.

 

Firenze inverno 2006

Il vento è freddo, raggela. I turisti si muovono per la piazza come stracci. Ho fatto un lungo giro con una guida in mano, prima, per confondermi. Mi sono addentrato nei chiassi, ho contemplato l’ulivo lasciato a ricordo della strage di via dei Georgofili. Che senso ha abbarbicarsi a queste forme d’idolatria, se non c’è rispetto per gli uomini, per la loro fede, la stessa che ha creato questi e Chiese, questi palazzi, queste statue, questi dipinti? Mi sono sempre chiesto se questo voler a tutti costi salvare un passato inerte, di pietra, non significa indifferenza per l’uomo e per Dio. Non ha senso mantenere tutto ciò quando manchi rispetto per Dio, sia benedetto il Suo Santo Nome. Quando tutto ciò sia strumento di oppressione e di guerra dell’Occidente.

Hassan lo conosco. Mi presenta il suo compagno, un viso nuovo. Ho imparato a non farmi domande, non serve. A reprimere la curiosità, anche più normale, non serve neanche questa. A controllare ogni gesto, a guardarmi intorno senza essere visto. Continuo a tenere la guida in mano. Ho imparato anche a non giudicare. Quando il nuovo mi consegna le istruzioni, aspetto la sua domanda di rito se devo dire qualcosa. Ma ho capito. Non fare domande è buon segno. Hassan me l’ha ripetuto diverse volte. Il gruppo si scioglie in silenzio, improvvisamente, agli occhi di qualcuno che forse ci sta guardando.

I turisti sono troppo presi a contemplare i loro idoli. La gente, la propria vita. Una folata di vento più freddo e incattivito s’incunea nella piazza e fa pulizia. Non c’è più nessuno, né Hassan, né l’altro. Apro la guida come se non conoscessi una ad una queste pietre. Ora ho la dolorosa certezza che se qualcosa deve sopravvivere non sarà certo tutto questo, finché ci sarà ingiustizia, oppressione e guerra, ma solo la bellezza di Dio, sia benedetto il Suo Santo Nome.

Mi volto, in un angolo di Via de’ Tornabuoni qualcuno mi chiama, è un ragazzo somalo, che cerca di vendermi dei calzini. Sorride ma è stanco morto. La macchina della polizia municipale è in un balzo accanto a noi. Il ragazzo molla la merce a terra, ai miei piedi e scappa via, come un fulmine.

Uno dei vigili scende di corsa mentre l’altro lo segue restando in auto. Le ruote mordono quel basto abbandonato lasciando l’impronta sulle povere stoffe. Rimango impietrito. La rabbia è quella antica, solo più sottile.

La sera Hassan mi chiama sul cellulare. Mi dice di non preoccuparmi, troveranno un altro contatto un po’ più sveglio. Gli chiedo che fine ha fatto il somalo, ma lui non risponde. “Sai, è stata una scena che non speravo di vedere”. Lui non risponde e riattacca. Non sono comunicazioni da fare per telefono.

“Ne parliamo quando c’incontriamo”. Mi ha assicurato. La solitudine di quest’improvviso silenzio serale mi circonda. I pensieri rimbombano. Torno al tempo in cui io e i miei amici volevamo la rivoluzione, volevamo cambiare il mondo. Mi chiedo, incessantemente, cos’è che, realmente, volevamo e cosa vogliamo ora. Quel foglio infilato nella mia agenda di persona insospettabile, anche, vagamente, rispettabile. Ecco cosa voglio, non io Giorgio – Yusuf, ma migliaia, milioni di altri. Chiudo gli occhi, perché la stanza ed il mondo smetta di girare vorticosamente intorno a me. Tiro un respiro profondo, dal diaframma fino alla testa, rilascia i muscoli, fa entrare ossigeno, schiarisce le idee. Mi basta guardare la sfumatura del cielo, il colore per conoscere l’ora e l’esatta posizione. Ho bisogno di raccogliermi, di pregare, che tutto vada bene.

Ho sognato una notte sul campanile del Duomo il canto dolce del muezin, come l’ho udito a Gerusalemme, a Damasco, al Cairo. Mi sono svegliato con il ricordo di uno struggimento, che si è librato e rarefatto fino ad incontrare la luce che entrava a lamine attraverso le tapparelle appena abbassate,

“Puoi rivestirti”. Mi ha detto Achille, il mio medico.

“Allora?”.

“Eh, allora… tu come ti senti?”

“Bene, te l’ho detto. Perché, c’è qualcosa che non va?”

Ha scosso la testa. “Per adesso fai queste analisi, poi ci rivediamo. Appena le hai pronte, fatti rivedere, Giorgio”.

“Non credo che mi fermerò molto a Firenze”.

“Dov’è che te ne vai in giro? Non mi ricordavo che fossi così nomade!”

“Ho sempre viaggiato molto con il mio lavoro”.

“Ma ultimamente mi pare che sei diventato davvero un giramondo, o forse ti sei messo appresso al lavoro di Elena?”

“Non potrebbe essere lo stress da troppi spostamenti, invece?”

“Non credo nello stress, è diventata la parolina magica per spiegare tutto”. Si è messo a scrivere, mi ha dato una carta intestata con una lunga lista di sigle. “Le devo fare tutte?”

“Vedi che puoi fare. E riportamele, appena puoi”.

E’ sul comodino. Ieri sera quando sono tornato dopo cena, ho sentito la fitta della solitudine più e più volte, mentre tentavo di telefonare ad Elena e continuavo a fissare quella lista.

Era un modo per allontanare altri pensieri. Una fitta che m’è diventata cara, mentre cercavo disperatamente di mettermi in contatto con lei, accompagnatrice di tour per ricchi in qualche remota località turistica d’Italia.

 

Roma, inverno 2006-2007

Elena è al telefono con un’amica. Sorprendo quel suo parlare come milioni di donne “liberate”, sboccato, lieve, inutile.

Capisco dalle risposte che dà che sta parlando della nostra intimità. Lo sa che per me non è così, che non va bene. Dal mio studio la vedo, lei però non mi vede. E’ seduta a terra con le gambe ripiegate e gioca con il computer, mentre parla.

“Sì, ancora, certo. Ehi, ma Giorgio mica è vecchio, che ti credi? Tuo marito sarà vecchio!”

Ride.

La sua risata è aperta, fragorosa, uno squarcio aperto sul mondo. Forse le potrei perdonare anche certi discorsi, poco perbene. Quando c’è lei in casa, che si aggira come l’anima di quattro pareti, so che la bellezza non muore. Ma Elena è la porta che richiudo, il sangue che verrà versato. Ma dopo l’incontro di Firenze tutto è più certo e tutto più mobile.

“Allora, Giorgio, che facciamo? Usciamo o no stasera? No, perché io sono un po’ stanca”. Incorniciata dallo specchio della porta, le lunghe gambe nude, addosso ha solo una mia camicia vecchia di lino e nient’altro. I capelli scuri sciolti sulle spalle.

“Vorrei farmi un bel bagno rilassante e mettermi a nanna se non ti spiace”.

Scuote la mano davanti al mio naso.

“Ehi, Giorgio, sveglia! Non sono davvero così bella da doverti ipnotizzare a quel modo. Anzi, sono un disastro!”

Si tira giù la camicia che ora aderisce al seno.

“Davvero! Smettila di guardarmi così!”

E ride. E’ bella la risata di una bocca larga e carnosa come due petali maturi di rosa, sono belle le minuscole rughe che le si formano ai lati delle labbra, come arriccia il naso. Non riesco a smettere di pensare alle istruzioni di Hassan.

“La tua donna fa l’accompagnatrice turistica. A maggio sarà in Toscana ad accompagnare un gruppo di turisti americani facoltosi in un tour enogastronomico e di benessere. Il 15 maggio sarà a Siena, etc. etc.”.

“Giorgio, lo sai che mi hanno riconfermato per il Luxury Tour?”

Passeggia avanti e indietro fra la mia stanza e il bagno.

Mi arrivano folate di rosmarino, rosa e quant’altro. Torna di nuovo.

“Ti piace? L’ho comprato a Praga, si chiama Romantic Bath. Ma perché non vieni?”

“Dove?” Mi riprendo ancora in tempo. “A fare il bagno!”

“Pensavo a Praga”.

“Oh, certo anche a Praga, se non la smetti di andartene nei giorni in cui riesco a stare in Italia”.

Ho sentito una botta forte al cuore, un dolore in mezzo al petto quando Elena ha parlato del Luxury Tour.

“Sei sicura?”, le chiedo mentre se ne va di nuovo.

“Sicura di che, amore?”

“Che ti hanno riconfermata”.

Sento la mia voce che va placandosi in una calma asettica, quasi non sembra la mia. Elena torna con la testa avvolta in un asciugamano e nient’altro. Le ascelle sono due zone d’ombra. Sento il profumo del suo sudore.

“Amore, lo sai che mi sarei venduta l’anima per avere quel tour. Gli americani pagano bene, anche se sono tutti psicotici, specie i vecchi. Insomma, una gran noia ma un sacco di soldini”.

“E i soldini ti piacciono”.

“Piacciono a tutti. E poi dici sempre che devo smettere di andarmene in giro… se mollo questo lavoro, ho bisogno di avere qualcosa da parte”.

“Non hai bisogno di lasciarlo, non per ora, almeno”.

“Davvero? Non ti secca se accompagno quegli americani? Guarda che sto via almeno quindici giorni, se non di più”.

Scuoto la testa, ripasso mentalmente le istruzioni di Hassan.

“No, Elena, non mi secca. E’ giusto che fai un lavoro che ti piace e che ti fa guadagnare bene”.

Sento un’altra fitta al petto. Non so che cos’è, perché non sono più passato per Firenze e Achille sta ancora aspettando i risultati delle analisi che mi ha prescritto. Forse gliele invierò per fax.

Quello che mi piace di Elena è che è capace di fare ciò che dice. Questa sera non aveva voglia di uscire ma solo di dormire, dopo che aveva girato per tre giorni tutta l’Italia insieme ad un gruppo di sudcoreani, e l’ha fatto. Abbiamo mangiato qualcosa mandato su dal ristorante sotto casa ma non abbiamo acceso né stereo né televisione. Elena s’è accoccolata sul divano stringendo un libro fra le mani. Un romanzo che non le avevo mai visto, del genere memoirs: “Mai senza mia figlia!”

Mi ha guardato e non sapevo se stava ridendo o era seria.

“Ma tu saresti capace di fare queste cose ad una donna?”

“Cosa?”

“Queste cose orribili. Mutilazioni genitali, maltrattamenti, botte, alla fine le toglie anche la bambina…”

“E’ tutta propaganda contraria. Roba voluta dall’amministrazione Bush per mettere in cattiva luce tutto ciò che non è Occidentale. Come i libri di quella demente”.

“L’Oriana? Si, ma che c’entra? Tu saresti capace di fare queste cose a tua moglie e a tua figlia?”

Non ho risposto. Elena mi guardava e aspettava una parola.

Ha detto “Boh?”. Come lo dice lei quando si butta alle spalle tutte le cose che non le vanno o che non capisce.

“Non credo: sei italiano in fondo”.

Ha detto rimettendosi a leggere.

Se fossi stato più presente a me stesso le avrei strappato quel libercolo e gliel’avrei gettato nel fuoco del caminetto. Come i libri dell’Oriana che legge soltanto perché va di moda. Ma non l’ho fatto. All’improvviso non riesco più a toccarla, neanche quando butta via il libro, si stiracchia come una gatta e mi chiede muta carezze e coccole. Io prendo il paltò, le chiavi di casa ed esco. Ho il cuore che va troppo svelto e sembra perdere un colpo ogni tanto.

“Adesso dove vai?”

“Tu mettiti a dormire, torno subito, ho solo bisogno di prendere un po’ d’aria”.

E’ un inverno mite, quasi mediorientale. I mandorli e le mimose hanno anticipato le loro fioriture, quasi sovrapponendosi.

Mi addentro nei vicoli di Panico, in mezzo a folle festanti di giovani e meno giovani, sfioro gruppi di ragazze giovanissime, pantaloni a vita bassa, pancette ondeggianti, gambe corte e trucco volgare. I ragazzi sono separati in gruppo, fra loro, come amebe si avvicinano, si toccano, si allontanano, vociano e spariscono nel buio. Donne eleganti, belle e slanciate come Elena, sostano fuori di locali strapieni di fumo, di chiacchiere, di musica assordante. Altrove la bellezza. Faccio fatica a trovare un vicolo solitario, silenzioso, dove le botteghe non sono diventate pub, birrerie, wine-bar e ristoranti. L’unico che trovo vicino a Piazza Navona racchiude un uomo tutto lungo per terra che si lamenta debolmente. Ha un fondo di bottiglia ficcato nel braccio destro e gli stracci puzzolenti dell’ubriacone inveterato.

 

Firenze inverno 2006-07

“E’ una forma maligna, ma è appena all’inizio, possiamo fare tutto, ancora, per fortuna”.

“Non è il cuore?”

“Il tuo cuore sta benissimo, per la tua età, sicuramente meglio dell’ultima volta. Così potrai affrontare, serenamente, un’operazione”.

“Eventuale?”

“No, è meglio operare e poi pensare ad una terapia, una volta avuti i risultati della bioscopia. Non c’è niente di certo a questo stadio”.

Una primavera troppo precoce, il caldo già notevole che spossa, stanca. Esco stringendo il foglio di Achille, con sopra la richiesta di ricovero. Non è una pausa, non sto fermo un giro, questo è certo.

Dopo la visita dal medico devo rincontrarmi con Hassan, in zona Novoli, per non dare troppo nell’occhio. Il centro è preso d’assalto dalle scolaresche, i bar sono pieni di americani e inglesi. Ho la nausea. Chiuderei gli occhi per vedere sparire tutto. Tranne che non riuscirei a giustificare anche la sparizione di Elena.

Hassan mi consegna altre istruzioni. La faccia nuova è con lui. Sanno che Elena è stata riconfermata per il tour nella Val d’Orcia. Non mi sto a chiedere nulla, quando vedo il viso di pietra, solcato da mille rughe di Hassan. So la sua storia. So che ha perso quasi tutta la famiglia in un bombardamento amico.

Gli rimane Fatma ancora adolescente, mutilata orribilmente. Anche lui come Alì continua a ripetere che questa guerra non l’abbiamo voluta noi, ma vale la pena combatterla e cadere se necessario. E’ che c’è un punto in cui le cose s’ingorgano. Non so che pensare. Hassan, e forse più l’altro, leggono l’esitazione nel gesto della mia mano, mentre ricevo la busta. Sento che i loro occhi sono puntati, freddi, verso di me. Ho deciso di non dire nulla del cancro, dell’operazione e del resto. Magari già lo sanno. Hassan mi scruta, proprio come quand’ero ragazzo.

L’ho conosciuto tempo fa, l’ho perso di vista e l’ho ritrovato esule in Italia, venuto a curare la figlia. L’hanno curata. Forse non morirà e magari vivrà un po’ meglio. Mi chiedo se capirebbe se gli confidassi tutto. Ma non lo faccio uguale. Quando l’altro se ne va, gli chiedo di sua figlia. “Fatma è morta”, mi dice senza battere ciglio.

 

Roma inverno primavera 2007

Elena abbassa la testa. Ha gli occhi lucidi, una lacrima le solca le guance, disegna una linea più chiara sul trucco. E’ tornata a lavorare, è appena tornata da un tour per Roma e le ho dato subito la notizia.

“Mi dispiace. Io…”

“E’ questo che capita quando si sceglie un compagno troppo vecchio”.

“Tu non sei vecchio, Giorgio. E poi sono malattie che vengono a chiunque. Ho amiche mie, coetanee, che sono anni che combattono con il tumore”.

“Lo so”.

Si asciuga con il dorso della mano le lacrime e sporca un po’ anche la divisa blu. Le sta bene, è così bella con quella giacca non proprio perfetta, e quella gonna aderente sui fianchi. Le alzo il viso, voglio guardarla in faccia. Non è per me, è per lei.

“Stasera resto qui, dormiamo insieme”.

“Puoi?”

“Non sono obbligata a risiedere all’Exxedra. E poi tutto quello sfarzo, mi dà fastidio”.

“Si, dormiamo insieme. Va bene”.

“Neanche tu vuoi restare solo”.

Si stringe a me, sento il suo tepore, il seno soffice che spinge contro il mio cuore. L’abbraccio. Sento il rumore della busta che mi ha lasciato Hassan dentro la tasca della giacca.

Ancora non l’ho letta.

“Voglio essere come te, mi dice, dopo che abbiamo fatto l’amore. Voglio convertirmi, così mi puoi sposare”.

“Posso farlo ugualmente. Agli uomini è permesso”.

“Non importa. Se poi magari non mi permettono di curarti e tutte queste cose…”

“Hai cambiato idea perché sto male?”

Mi guarda, ha di nuovo gli occhi lucidi.

“No, erano un pò di giorni che ci pensavo. Mi sono resa conto che avevo tanti preconcetti sulla tua religione, prima di conoscerti. E poi voglio smettere di girare come una trottola, correre qua e là, dire di sì a gente insopportabile, fare sorrisi a vecchi porci che solo perché pagano si sentono in diritto di metterti le mani sul culo… Voglio stare qui e prendermi cura di te”.

La lascio parlare, è giusto che dica tutto. Non riesco ad immaginare Elena chiusa in casa, anche in una bella casa come questa, al centro di Roma, fornita di tutto. Non riesco ad immaginarla che non parli e sorrida, non spieghi e sorrida, non se ne vada in giro con le amiche e sorrida. L’ho conosciuta nella hall di un albergo, aveva la divisa blu e appoggiata al suo trolley, aspettava che il gruppo scendesse. Parlava con l’autista, un tipo tozzo e rosso e sorrideva. Mi ha colpito subito la bellezza calda, sensuale, i gesti che faceva mentre spiegava ai suoi turisti il giro del giorno. La sera l’ho incontrata di nuovo nella hall, ma senza divisa blu, con un paio di jeans e una camicetta bianca. L’ho salutata con un accenno della testa, come se la conoscessi da una vita. Lei ha sorriso. Ero incerto se avvicinarmi ed attaccare subito bottone. Ho chiesto alla reception in quale stanza alloggiava, e le ho mandato parole. Non sono la persona che manda fiori. Preferisco le parole e poi ero certo che dietro quel sorriso magnifico c’era il dono della comprensione. Mi ha atteso di nuovo nella hall con l’aria appena adombrata di tristezza. Ripartiva per Firenze, ma ci siamo dati appuntamento nello stesso posto, una settimana dopo.

Elena è sposata. Un matrimonio silenzioso, devoto. Niente figli. Non venivano. Lei si è buttata nel lavoro completamente, pur di non pensare al tempo che passa sul suo corpo di donna e diminuisce le possibilità di essere madre. Abbiamo passeggiato per i viali alberati di Roma, ci siamo dati appuntamento in giro per l’Italia: Torino, Firenze, Genova, Napoli, soprattutto Milano. Le mandavo altre parole, per posta elettronica, per lettera, sul cellulare. Era quel sentimento silenzioso, devoto nei miei confronti ora, che contrastava così amabilmente, con il suo essere, aperta e solare, che mi piaceva.

Hassan mi ha contattato, più o meno in quel periodo: mi ha detto che andava bene così, che era lei la “colomba”. Sapevo che voleva dire quella parola.

Ho meditato a lungo su ciò che stavo facendo. Su ciò che faccio adesso. A volte sono scisso. Non ci sono più certezze, questa è la verità. Non c’è più la verità che mi ha accompagnato, illuminato fino ad ora. Ho cominciato a penetrare altre sfumature che contrastano con quel monolite, e mi sono reso conto di quanto sia un residuato di tempi preistorici della mia vita. Tagliare netto, dividere il mondo in bianco e nero.

Ero appena un ragazzo, fresco di laurea in lettere, quando ho deciso questa vita. Sono uscito indenne dagli anni di piombo, tranne qualche indagine. Ma ci volevano la malattia ed Elena a spostare il mio centro di gravità permanente. A farmi accorgere di quanto il mondo sia più complesso.

“Non dici nulla”. La sua voce sussurrata mi risveglia.

“C’è poco da dire. E’ la tua decisione e la rispetto”.

“Solo questo?”

“Che altro?”

“Dimmi che era quello che volevi sentirti dire”.

“Non è esatto”.

“Non ricominciare con le tue tirate”.

Sorride. “Non c’è logica in ciò che sto facendo, Yusuf”.

Elena si alza, con il suo fare pigro, sensuale, si stira un po’.

“Allora?”

“Resta qui un momento”, le dico. Vado a prendere una scatola chiusa da mesi nel cassetto del mio comò. Lei segue le mie mosse con lo sguardo di una bambina curiosa.

“Un regalo?”

All’inizio del nostro rapporto, le avevo inviato un anello d’oro con uno zaffi ro prezioso, antico. Lei l’aveva rifiutato, era incerta se mettere fine al suo matrimonio e convinta di amare ancora suo marito. Una mattina d’inverno, mi aveva voluto vedere per restituirmelo. Uno dei generi di Hassan, che allora lavorava come addetto alla reception, l’aveva fatta salire in casa. Mi aveva sussurrato che questa mossa da parte di Elena non era prevista e che dovevo fare qualcosa. Mi aspettava seduta impettita sul divano, con la borsetta accanto, facendo finta di sfogliare una rivista in arabo. Ma appena mi ha visto ha cambiato espressione, anche se l’ha nascosta quasi subito.

Sapevo che non riusciva a nascondere molto di quel suo sentire repentino, luminoso. Mi ha teso la scatola dicendo che non poteva. L’ho presa e l’ho poggiata sul tavolo e ho abbracciato Elena. La prima volta che abbiamo fatto l’amore. La prima crepa in questo muro di certezze. Le prime domande su di me, sul mio ruolo, sul ruolo dei nostri corpi in questa storia. Mera materia, eppure tutto sembrava così spirituale, così alto, così immateriale. Corpi che s’ingannano per distruggere altri corpi, corpi che in nome della purezza dello spirito fanno qualcosa di molto simile al meretricio e all’adulterio.

Le parole ti capitano sottomano quando ce n’è bisogno.

Davvero puoi dire che Dio, sia benedetto il Suo Santo Nome, te le manda quand’è necessario. Le parole del più importante poeta di lingua araba vivente mi erano arrivate come una illuminazione. Il libro di poesie d’amore me l’aveva donato Elena, incerta se l’avessi già o no.

Continuo a giocare questo gioco, ripetendomi che la guerra non l’abbiamo voluta noi, che la morte di Fatma e di tutti i figli di Hassan, dei suoi generi, dei suoi nipoti ancora bambini e neonati non l’abbiamo né voluta, né pensata. Che la bellezza prevarrà. Ma quale bellezza? Che bellezza può derivare dal commercio di corpi senz’anima e di anime senza corpo?

C’è qualcos’altro, d’improvviso di fronte al rifulgere dell’oro antico sulla pelle olivastra di Elena, sull’incavo dei suoi seni, so che c’è qualcos’altro.

“Voglio che la porti quando partirai”.

Lei la guarda, la prende in mano, la passa tra le dita. Non c’è ombra di avidità in lei, come in tutte le altre donne che aspettano il pezzo d’oro per amarti. Lei no. S’è data comunque, convinta di ciò che faceva, di ciò che sentiva. Dal suo volto vedo che la delusione è del troppo, non del poco. “Dev’essere antico, ce n’erano di simili al museo di Istanbul”, mi dice poi.

Allarga un po’ le nari, come se non respirasse bene. So che è il segno di un emozione forte, violenta, appena repressa.

“Non rifiutarlo. La mano di Fatma è un segno di benedizione per noi”.

“Lo so”.

“E’ solo per augurarti un buon ultimo viaggio”.

Le parole scivolano, sono traditrici, sono troppo veloci per noi.

“Devo andare secondo te?”.

“Certo. Hai detto che volevi avere quel posto a tutti i costi, mi pare”.

Annuisce, una ciocca le scende sul viso. Sorride appena e comincia a rivestirsi con la mia camicia. “Vado a farmi una doccia, torno subito”.

Dice, e lascia cadere l’amuleto tra le mie mani.

 

Autostrada A1, Roma-Firenze, primavera 2007

Nel sonno le ho detto: “Sai cos’è una colomba?”

Elena mi ha risposto mormorando qualcosa come: “Sì, ma sto’ dormendo, Giorgio”.

In altri momenti i discorsi fatti nel dormiveglia sono dolci.

Ho sentito sotto le mie dita lo sbattere veloce delle sue lunghe ciglia.

L’improvviso impennarsi del suo respiro. S’è svegliata, s’è messa seduta e mi ha guardato.

“Che vuol dire? Che domande sono?”

Non ho saputo rispondere. Le ho detto solo di fare i bagagli e di scendere in garage. Mancavano ancora parecchie ore all’appuntamento a Siena con il suo gruppo.

“Non capisco, Giorgio. Che succede?”

Le ho ordinato di non prendere il suo solito trolley nero, ma un borsone che era nel mio armadio. “Non c’entra tutta la roba che mi devo portare fuori, c’è anche l’abito da sera!”

“Lascia perdere l’abito da sera, e metti dentro il minimo necessario”.

Ha continuato a gridare che non capiva, non riusciva a capire che avevo in testa.

Adesso siamo in silenzio. Guardo attraverso lo specchietto retrovisore se i due fanali che ci seguono sono sempre gli stessi. Ho spento il cellulare, anche se so che siamo ugualmente reperibili. Elena è silenziosa. Passo lo svincolo per Chiusi-Chianciano Terme. Lei non dice nulla, volta lentamente lo sguardo verso di me. Le parole cominciano ad uscirmi quasi in automatico, dilagano dentro l’abitacolo, hanno strane risonanze.

Elena si sfrega una guancia mentre racconto. Stringe le labbra. Non sorride più, e il sonno interrotto disegna strane ombre sotto gli occhi. E’ pallida, stanca e spaventata.

“Dove andiamo ora? In qualsiasi posto, ci troveranno”.

Getto il cellulare fuori dal finestrino.

“Butta via anche il tuo”.

E’ abituata ad obbiettare, ma stavolta fruga nel suo borsone e tira fuori l’apparecchio. Lo getta via. Capisco che mi ha creduto. Anche se mi chiede: “Ti stai inventando tutto, vero? Stiamo solo giocando alle spie, vero?”

Non ci sono risposte, le sue domande esigono un conforto e una sicurezza che ormai non le posso dare. Mi sento appena meglio, come se anima e corpo ora fossero tornati insieme.

Questa notte l’ho amata sinceramente, non solo per farla capitolare. “Dimmi la verità, Giorgio…”

Sento la sua frase ripetersi ad intervalli irregolari, come un respiro che stenti a calmarsi. Mi risuona nelle orecchie e vorrei chiederle “Sai cos’é la felicità?”. Ma la mia voce mi arriverebbe troppo falsa e impostata per essere credibile.

“Dove stiamo andando, adesso? Dov’è un posto che questa gente non conosce? Non possiamo andare all’estero… non possiamo andare da nessuna parte…”

Io proseguo. La felicità ti appare all’improvviso come quel raggio di sole che ogni primavera, all’approssimarsi dell’equinozio, trapassa le finestre della cupola che sovrastava il mio ufficio e penetrava attraverso il loggione, dentro la mia stanza di lavoro. Sembra che l’inverno non finisca, sembra che non arrivi mai, e poi c’è, all’improvviso, dopo i giorni delle piogge e del vento. La felicità, lo so, è venuta dopo la notizia che ho un tumore forse maligno, dopo che Fatma che amavo tanto, ha chiuso gli occhi per sempre, dopo che Elena è diventata una donna e non più un mezzo, una cosa da sacrificare.

Questa guerra non l’abbiamo voluta noi. Non l’ho voluta io.

Combatterla non serve a niente se sai che non poterà che altra infelicità e distruzione.

Accelero, sorpasso, supero i limiti di velocità. E’ che quei due fanali c’inseguono da un po’. Sono come un eroe di Jean Giono che corre chiedendosi se questa è la pazza felicità. Forse è soltanto paura. Elena si è rannicchiata nel sedile. Fidati di me, Elena, la bellezza non muore, non morirà.

Fidati, so benissimo che gioco sto giocando. Non lo sapevo fino a ieri, non lo sapevo finché ho aperto quella lettera e ho letto che spettava a te portare, dentro il pullman di americani ricchi e ignari, una valigia piena di morte. Adesso lo so. Trascorrono gli svincoli. Lastra a Signa, Firenze Galluzzo, Firenze Nord.

“Dove stiamo andando?”, mi chiede ancora.

C’era un posto fra Firenze e Imola, un posto sperduto, dove andavamo da bambini. Una casa persa in mezzo all’Appennino tosco-emiliano. Se riesco ad arrivare lì, dove ho lasciato pezzi di giovinezza, libri, abiti, disegni, pensieri, se riesco ad arrivare lì, tutta questa storia avrà un termine, no forse solo una pausa.

Hai ragione, Elena, che non c’è un posto dove potranno lasciarci stare, dove potremo nasconderci. Non c’è neanche qui sull’autostrada quando mi accorgo che i due fanali si fanno più grandi e si avvicinano.

E’ l’alba, e tutto si confonde. Passata Firenze, passata l’uscita di Prato le montagne incombono, ti saltano addosso oscure, paurose. Giorgio bambino che non voleva mai arrivare qui, che voleva fermarsi prima, dove c’erano le pianure.

“Guarda, sta’ attento”. Mi dice piano.

E’ una berlina nera, lucida anche nella luce incerta dell’aurora.

Vedo appena il muso che si avvicina alla coda della nostra auto e sterza violentemente.

Vedo che qualcuno getta un trolley nero, uguale a quello di Elena, addosso al guard-rail.

Non vedo più niente.