I racconti del Premio letterario Energheia

Lo zerbino svedese_Massimo Franco Maso, Dolo(VE)

_Racconto finalista diciassettesima edizione Premio Energheia 2011.

 

Una bella giornata è una giornata che comincia col sole e finisce con le stelle. Certo che i vecchi di stronzate ne dicono!

Questo pensava Lisetta, mentre ripuliva il bordo del lavello con la spugnetta “bifase”, delicata da una parte e abrasiva dall’altra. A sentire la pubblicità, quella badilata di genialità color menta piperita avrebbe cambiato la vita della casalinga.

Una colf tuttofare a tempo pieno; quella sì avrebbe fatto la differenza, ma con gli stipendi “freddati” dalla crisi del settore calzaturiero, anche la spugnetta “bifase” era già una spesa superflua. Forse, una bella giornata comincia col sole e finisce con le stelle, come usava sentenziare solennemente quella sclerotica cotonata di sua suocera, ma la sua, di giornata, cominciava col sole e finiva col sole. Da quello stampato sul fustino del “Marsiglia lana e delicati”, a quello incollato sul flacone del “Sole piatti”. Neanche il tempo di sfilarsi i guanti in “lattice effetto seta”, che dal soggiorno giunse la voce impastata di caffè e fernet del consorte. Già, i guanti alla polvere di “aloe pura”, altro miracolo della scienza domestica, destinato a quella massaia che sotto il grembiule nasconde uno spacco inguinale e, dentro lo sgabuzzino, un ballerino di flamenco arrapato, pronto a saltare fuori per infiammare la serata. A quel punto Lisetta dovette necessariamente sospendere ogni attività domestica per consentire al suo apparato uditivo di distinguere i grugniti del marito, che usava i rutti al posto delle virgole, dagli sproloqui dell’Emilio nazionale e del suo ossequioso telegiornale a “novanta gradi”.

“Isaa!” (come se stesse esalando l’ultimo respiro)

“Ehh! Che c’è?” (come se parlasse ad un’epigrafe)

“Hai stirato la camicia a righine blu? Domani mi serve proprio quella”.

“Sì, ancora stamattina. Quella e tutte le altre a righine blu. Hai solo camice a righine blu”.

“Uhm. E le scarpe nere? Buttavano di traverso. Ci sarebbe da…”

“Già fatto. Sono nella scarpiera. Tacco e suola nuove. Dieci euro”.

“Dieci euro! Che ladro! Potevi lasciargliele”.

“Nuove costano ottanta. (poi, sottovoce) Ti tenevi la fabbrica e te le facevi”.

“Isaaa!” (sempre più prossimo a dipartire)

“Ehhh! Che c’è?” (come se parlasse all’epigrafe di uno sconosciuto)

“Ma la macchia sul bavero del vestito grigio… L’hai tolta?”

“Quale vestito grigio? Ne hai otto di vestiti. Tutti grigi”.

“Quello doppio petto. E’ una macchia di sugo”.

“Sono tutti doppio petto. E quella macchia si toglie solo a secco. Non è di sugo. E’ rossetto”.

“Rossetto? Ma dai! E come c’è finito del rossetto sul bavero della giacca?”

“Eh! Chissà? Fammelo sapere se lo scopri, così risolviamo anche gli altri misteri di Voyager”.

“Isaaaa! (bisognoso di oli santi, ma seccato) Ma di che misteri cianci?”

“Quelli del mago Silvan! (come se facesse i gargarismi coll’acido muriatico) Tipo quel perizoma leopardato che ha misteriosamente preso il posto del fazzoletto da taschino”.

“Ah… quello!” (in fase di riesumazione, steccando sulle vocali)

“Hè! Quello!” (scaraventando lontano il grembiule e alzando gli occhi al cielo per impedirsi di bestemmiare)

“Il solito scherzo da culo di quel pirla del Gigi. Dev’essere successo l’altra sera, da Ivano, in enoteca”.

“In enoteca?” (con tono ironico)

“Hè! In enoteca! Per il compleanno di Gigi. Ha buttato giù tanto di quel grignolino che…”

“Ma se Gigi è ad acqua di canna e maalox da due mesi, per via di quel panettone rinsecchito che si ritrova al posto del fegato!”

“E chi l’ha messa in giro ‘sta fesseria?” (con tono saccente, quasi del tutto resuscitato)

“Sua moglie”.

“Ihhh… chiacchiere, sciacqui di bocca fra donnette che non hanno un cazzo da fare. E chi è la troietta che te l’ha riferito”.

“La troietta? Sua moglie. L’ha detto a me. Ieri. Non ti ricordi che mi viene a fare i capelli in casa? E tu mi dici che ha bevuto, eh!”

“Eppure!” (con tono sommesso e fatalistico)

“Vabbè, va’! Esco a prendere aria”. (tirandosi giù le maniche)

“A quest’ora?”

“Siamo in appartamento. Non abbiamo giardino condominiale e abbiamo un cane stressato, che non usa la lettiera e sta in casa da solo, per dieci ore il giorno. Sta scoppiando. O lo facciamo pisciare o domani lo stacchi dai muri con la paletta. Ciao! (poi, sottovoce) Stronzo puttaniere!”

“Eh? Cos’hai detto? Non ho capito”.

“Nulla! Dicevo di Fede. Un pezzo di luminare… (ancora più sottovoce, sbattendo la porta) Ma vaffan…!”

Per Lisetta la notte era un foglio di cartacarbone fra due pagine dattiloscritte. Un sottile velo nero, che imprigionava il silenzio lasciato dalle parole. Un pezzo di tempo vissuto al contrario, come il negativo di una fotografia. Bastava immergerlo nell’alito umido e impastato dei sogni altrui, per recuperare il verso buono del mondo, quello che stava dall’altra parte dello specchio. E’ così che Lisetta viveva la sua notte, attraversandola come si attraversa la propria ombra. Per molti, avere un cane poteva essere impegnativo, per lei era la scusa buona per evitare il primo sonno, quello graffiato dal russare alcolico di Cesare, e per allontanarsi dalla banalità di un sogno in bianco e nero. Una scusa per uscire in strada a respirare la magia di vite vissute diversamente. Vite invisibili, come quella di Arso, che dormiva raggomitolato sotto un cartone, tenendo stretta la bottiglia. Almeno lui non russava. Vite sciupate, come quella di Agnese, che si tingeva le labbra di amaranto ogni volta che un cliente la scaricava.

Vite rabbiose, come quella di “Skizzo”, che combatteva la sua rivoluzione a colpi di bomboletta spray, col cuore in gola e il cappuccio tirato sugli occhi. E poi vite bruciate, trafitte da un ago che inseguivano un paradiso sintetico, vite confuse dietro i vetri appannati di un auto e amori delusi dentro un kleenex appallottolato. Negli anni aveva imparato ad apprezzare particolarmente le notti di fine inverno, soprattutto quelle di marzo perché i tigli profumavano i marciapiedi di resina nuova. A incontrala per strada si aveva l’impressione che fosse il cane a portare a spasso lei e non viceversa. In effetti, Febo decideva la direzione da prendere e stabiliva quale fosse il cespuglio o l’albero più adatto a soddisfare i suoi bisogni. Lisetta, che non aveva interesse a preferire una strada piuttosto che un’altra, si lasciava tirare, pigramente, concedendo al cane tutto il tempo che questo esigeva. E Febo, che come tutti cani i sapeva ascoltare la pelle, la ricambiava facendo di tutto per tirare a fare tardi. Quella sera, però, la sua padrona gli pareva un po’ più avvilita e distratta del solito. Col pensiero era altrove e camminava con gli occhi incollati al culo del cane. Febo capì che la sua amica non voleva saperne di rientrare e così prese il vicolo che conduceva al giardinetto della Fontanella, una macchia di verde attrezzata con i giochi, chiusa per tre lati da villette a schiera e per il quarto dall’austera mole della storica scuola elementare della Fontanella. Tutti gli edifici davano il retro al giardino e il suo accesso era ostacolato da due pesanti paracarri, così che solo le biciclette condotte a mano vi potevano transitare. Quel polmone verde era custodito e curato amorevolmente dai proprietari delle villette che, ormai lo consideravano parte integrante e comune della loro proprietà. Ciò bastava a renderlo sicuro per le mamme che lasciavano sfogare i figli all’uscita della scuola e di notte, sotto lo sguardo vigile di qualche tenda tirata, erano tollerate solo poche presenze certificate e qualche innocente amore adolescenziale. Lisetta era una di quelle presenze certificate.

La tenda della villetta di testa si richiuse e Lisetta sciolse il cane. Lo seguì con lo sguardo per un po’, poi occupò l’unica panchina illuminata, sistemandosi nel bel mezzo, con i gomiti sulle ginocchia. Guardò l’orologio. Mezzanotte e trenta.

“E’ già domani”, sussurrò.

In quel mentre, Febo gli venne incontro scodinzolando e abbaiando di gioia. Non era solo.

“Hai trovato compagnia, eh? E chi è questa bella barboncina?”

“Sissi”, rispose l’ombra elegante che si stagliava controluce, qualche metro più in là.

“Eh! Dice a me?” Chiese Lisetta strizzando gli occhi e portandosi la mano alla fronte per isolare la figura.

“Dicevo che la cagnetta si chiama Sissi”.

Ripeté la voce guadagnando due passi, così da sottrarsi al fastidio della luce.

“Permette?”

“Eh? Cos… oh, sì, mi scusi. Credevo di essere sola”.

Borbottò Lisetta scivolando di fianco, verso il bordo della panchina, per dare spazio. La figura si accomodò accavallando subito le gambe. Era una giovane donna, chiusa dentro un lungo cappotto nero che ne esaltava il profilo asciutto. La donna inarcò appena la schiena e tirò fuori della tasca un pacchetto di Camel senza filtro. Ne accese una incavando violentemente le guance per poi gonfiarle e soffiare via una virgola di fumo bianco. Per un breve istante la brace viva illuminò un volto privo di trucco, pulito e candido come quello dei bambini, incorniciato da una civettuola frangetta corvina. Le labbra sottili, appena unte di rossetto, si staccarono dalla sigaretta e subito una linguetta nervosa le liberò da un frammento di tabacco.

“Schifose senza filtro… Uhm! Maleducata che sono. Fuma?” –, Chiese porgendo il pacchetto a Lisetta.

“Oh, no-no. Grazie. Non fumo. Ma non si preoccupi. Non mi spiace l’odore del tabacco”.

“Grazie. E’ suo quel setter?”

“S-ssì”, balbettò Lisetta, inebetita dall’inaspettata e luminosa bellezza della donna.

“Si chiama Febo”.

“Un regalo?”

Insistette la sconosciuta, portandosi nuovamente la sigaretta alle labbra.

“Come fa a saperlo?” (stupita)

“Per come vi prendete cura uno dell’altra. Anche il mio è un regalo”.

Aggiunse la ragazza, facendo fessura con gli occhi per via del fumo.

“E’ così evidente?”

“Uhm-uhm!” Annuì la donna, serrando le labbra sulla sigaretta, “Febo fa di tutto per farsi meritare e lei… beh, lei riserva al cane un affetto più dovuto che cercato, forse non destinato a lui. Vi fidate e vi consolate a vicenda. Per il cane basta e avanza. Per lei non so!”

“E’ una psicologa?” Chiese Lisetta, incuriosita da tanta perspicacia.

“Oh, no. Affatto. Le sto semplicemente appiccicando addosso delle sensazioni che, in buona parte, mi appartengono”.

La donna si volse a cercare la cagnetta e Lisetta ne approfittò per scivolarle addosso con gli occhi. Da sotto la falda del cappotto sbucavano delle brache di flanella bianca, stampata a fiorellini, come quelli dei pigiami, così abbondanti da coprire buona parte della calzatura, una scarpa da ginnastica high-tech, di marca. No, sicuramente non era una lucciola. Quelle non osavano mettere piede lì. E poi non si vestono così. Abbandonò quel particolare e si trovò ad abbracciare lo sguardo di lei. Due occhi fluidi che rubavano la luce. Sorrideva. Forse perché immaginava cosa stesse passando per la testa di Lisetta.

“Capita ogni sera. La stronzetta (indicando la bestia con uno scarto del capo) aspetta che m’infili nel pigiama e poi comincia a guaire col guinzaglio fra i denti. Vivo in appartamento. Non posso dare fastidio ai vicini e allora… questo è un posto sicuro. Nessuno ti disturba. Mi chiamo Shila”.

Così dicendo, schizzò via il mozzicone con un pizzico di dita, allungò la mano sullo schienale della panchina e si mise di traverso, così da raccogliere una gamba sotto l’altra.

“Uhm… Elisa, piacere. Shila!”

“Sì, Shila. Lo so, non è un nome comune. Comunque non sono una di “quelle”. Sono single, ma non sono a caccia di situazioni equivoche. Sono un tantino più giovane di lei ed esco di notte solo per soddisfare i bisogni di Sissi”.

Lisetta arrossì, imbarazzata.

“Non… non vorrei che lei avesse pensato che… io sono sposata e…”

“Tranquilla! Lei mi pare una persona per bene. Siamo donne. E’ notte e siamo sole. Ho anticipato qualche sgradevole domanda e ho detto quel che serve per consentire una civile condivisione di questo inusuale spazio notturno”.

“E se ci diamo del tu? A questo punto… fra donne!” Esordì coraggiosamente Lisetta, affascinata da tanta impertinente sincerità.

“Perché no! OK. Uhm, s’è fatto tardi. Domani devo essere in ufficio presto. Allora… arrivederci Elisa. Elisa o…”

“Meglio Lisetta. Mi chiamano tutti così. Arrivederci, Shila. A domani sera?”

“Uhm. Visto l’interesse che il suo Febo nutre per la mia Sissi… può essere!” Disse Shila, con tono scanzonato indicando i due animali freneticamente impegnati a coprirsi.

“Eh? Oh, buon Dio! Vieni qua, Febo. E staccati, maiale!”

“E’ primavera, mia cara”. Commentò Shila battendo le mani per richiamare la cagnetta. Le donne si salutarono nuovamente all’uscita del giardino e ognuna prese la sua strada. Lisetta rincasò in punta di piedi, non tanto per timore di svegliare Cesare, ma per guadagnare furtivamente la stanza da letto, evitando le solite scuse insulse. La precauzione si dimostrò inutile. Il soggiorno era buio, la televisione era spenta e il divano era vuoto. Sul tavolino dell’ingresso trovò un appunto suo.

“Ha telefonato Fulvio. Un’improvvisata. Siamo al Vesuvio per una partitina di briscola”.

“Ohh, come no! (appallottolando il post-it con rabbia) Al Vesuvio, di lunedì. Ma se è chiuso il lunedì! Ok… (sconsolata) Un’altra macchia rossa che fingerò di non vedere. Tanto! Sono stupida, no! Ma se te la trovo fra le gambe spero sia sangue. Potessi, la pagherei io la schifosa, perché te lo strappasse a morsi quel pezzo di orgoglio molliccio”.

Aprì il frigo e bevve una lunga sorsata di latte, direttamente dal cartone. Immaginò di esser scoperta da Cesare, come spesso succedeva, e tirando la bocca a smorfia lo scimmiottò.

“Lisaaa! ‘zzo fai? Non puoi prendere un bicchiere?… Stronzo! E tu, allora? Quando incolli le caccole sotto il bracciolo del divano? Perché non te le ficchi dove dico io, che mi risparmi di pulire la tua schifezza, eh?”

Stava per rimettere il cartone in frigo quando, scuotendolo, si accorse che era quasi vuoto e scimmiottò nuovamente il consorte.

“Lisaaa! Non c’è più latte. Questo lo finisco io, così non sporchiamo bicchieri. E giù che vai di garganella!”

Svitò il tappo e ci sputò dentro.

“Tiè! Grazie per il bicchiere che mi risparmierai”.

Poco prima di lasciarsi prendere dal sonno, ripensò all’incontro nel parco. Lo trovò curioso ed ebbe la gradevole sensazione che fosse destinato a segnare il principio o la fine di qualcosa. Qualcosa che poteva riguardare lei, proprio lei.

Certo non si sarebbe mai immaginata capace di concedere tanta confidenza ad una sconosciuta. Di notte poi! Eppure, a pelle, sentiva di potersi fidare. Lisetta: quarantadue anni portati così-così, prostrati da un matrimonio avvilente, avvizziti dal disinteresse e dalla consolidata banalità del quotidiano.

Shila, ad occhio e croce prossima ai trenta, indossati con la sfrontata incoscienza di chi, specchiandosi, non ha ancora colto la traccia di una ruga. Cosa mai poteva accomunare quelle due anime opposte e contrarie? E Cesare, allora, come ci era capitato nella sua vita? Quale capricciosa e beffarda congiunzione astrale aveva spinto l’una fra le braccia dell’altro?

Elisa si addormentò recuperando la memoria di cose ormai molto lontane, dal cuore e dalla pelle. Cose che risalivano all’ottantaquattro, ai tempi del liceo.

Per i ragazzi della terza B, del Liceo Statale Galilei di Borghetto, il primo giorno di scuola iniziò il 2 ottobre con una specie di formula scritta a “gesso pieno” sulla lavagna. 3 (perfezione) x 3 (trinità) = 9 (divino) + 6 (“anticristo”) = 15 (“potere”).

“Nove maschi e sei femmine. Come ben si evince, il quindici è il numero perfetto per arrivare alla maturità. Cabalistico. Esoterico. Il sacrificio di altri è valso a voi. Da qui in poi non uno di meno”.

Con questa cinica constatazione il Guglielmi, inquietante e squinternato docente di matematica e fisica, sottolineò i benefici dell’epurazione biennale che aveva dimezzato la classe, ma aveva tirato le somme troppo presto. E, proprio il “15” ottobre, il suo castello pitagorico crollò allorché l’atletica silhouette di Cesare varcò la soglia della III B per raggiungere, con passo deciso, il banco a lui destinato. D’un botto, l’usuale brusio cessò e dodici occhi si tuffarono sullo scultoreo fondo schiena dello sconosciuto come un solo, sfacciato sguardo. Sei bracchette in calore, con malcelata indifferenza, lo puntarono come una quaglia da sugo. Cesare aveva tutto! Tutto quello che un adolescente, in piena tempesta ormonale, poteva ostentare.

Asciutto e muscoloso. Sicuro, disinibito, strafottente nei modi, sorriso scanzonato e sguardo cupo, capello spettinato e leccato da bello e dannato. Levi’s, Lacoste, Timberland, Ray-Ban… I soldi non erano certo un problema. In quel metro e ottantuno di ragazzone viziato, erano palesati i quattro elementi alchemici del successo. Alto, bello, ricco, misterioso. Cesare Costanzo proveniva dal “Parini”, il rinomato liceo di Padova frequentato, di generazione in generazione, dalle famiglie “piene de schei” della provincia. Il padre – titolare di un noto marchio calzaturiero – aveva rilevato una porzione di capannone a Borghetto ed ivi aveva traslocato con tutta la famiglia. Iscriverlo in quella classe fu come liberare un furetto in un pollaio. Con i suoi atteggiamenti da attore consumato, scivolando spesso e volentieri nell’ambiguità, spazzò via ogni possibile concorrenza e determinò una decisa scissione della classe. Il furbo Cesare, isolata ed emarginata la compagine maschile, seppe accattivarsi l’interesse e i favori di tutte le ragazze. E questo ci poteva anche stare. Quello che non ci stava, invece, era l’attenzione che egli riservò ad Elisa di lì ad un paio di mesi. Elisa, delle sei, era la più introversa e sfuggente. A modo suo era graziosa, ma non particolarmente appariscente.

Curava poco il suo aspetto, non vestiva firme, non possedeva una villa per dare feste, non aveva soldi e indossava sempre dei grandi maglioni per celare la scarsità di certe misure. Era talmente rassegnata alla sua mediocrità, che brillava nell’unica cosa che non la costringeva a dover competere per forza: lo studio. Che ne poteva mai cavare da una tizia così anonima, un gatto come lui? A conti fatti, una relazione fra i due era quanto di più improbabile e improponibile si potesse immaginare.

Eppure! L’occasione arrivò con la pagella del primo quadrimestre. Quel cinque in latino mandò su tutte le furie il padre di Cesare, che decise per una punizione esemplare. Per tre mesi niente uscite serali, niente discoteca, niente moto.

Solo libri. Ma Cesare tanto sapeva stare bene in sella alla sua SWM 125, quanto sapeva stare male sui libri. Resisteva poco più di quindici minuti e poi si dava a scarabocchiare gli angoli delle pagine. La maggior parte dei ragazzi, in latino, navigava sopra il sette, ma chi di loro non avrebbe trovato una buona scusa per eludere la sua richiesta di aiuto e punire, così, la volpe che aveva razziato nel loro pollaio? L’aiuto delle ragazze, invece, era scontato. E difatti le offerte si sprecarono, ma Cesare isolò subito Elisa che, in virtù della sua mediocrità, non rappresentava fonte di distrazione. Consapevole della sua potenzialità seduttiva l’avvicinò.

“Elisa, scusa… non è che mi potresti aiutare col latino? Non lo reggo da solo. Facciamo domani, a casa mia, alle quattro?”

Lei, incredula e lusingata, fu sul punto di ritrarsi, ma poi accettò e per molte settimane la stanza di Cesare si trasformò in un’isola. Ma l’isola è una trappola dei sensi, che crea immagini fasulle e induce a rivalutare le misure e a farsi bastare quello ci trovi. Allo stesso modo Cesare ed Elisa, tagliati fuori dal resto del mondo, senza più parametri di confronto, s’illusero di potersi bastare a vicenda. Un pomeriggio piovoso, una versione facile, presa alla leggera, e qualche confidenza confessata fra un sorso di coca e un tiro di “fumo buono”. Tanto bastò. I libri si chiusero e quel soffio di fumo proibito divenne bacio.

Un bacio rosso, caldo e travolgente. Ecco com’era cominciata con Cesare. Fanculo il latino.

Quel ricordo fu l’argomento principale che impegnò il successivo incontro di Elisa e Shila. Giunsero alla panchina della Fontanella quasi contemporaneamente, con mezz’ora buona di anticipo, trafelate e ansimanti, come i loro cani.

Lì per lì si stupirono di quella misteriosa premura, e più ancora, si stupirono di aver rispettato con tale puntualità un appuntamento fissato con leggera vaghezza. Una sottile magia le aveva spinte a districarsi dai rispettivi impegni per raggiungere in tutta fretta la panchina della Fontanella. Che l’appuntamento non fosse casuale risultò ovvio ad entrambe; per l’occasione Shila aveva indossato i jeans e Lisetta si era pettinata e truccata. Sciolsero gli animali e presero a raccontarsi come due vecchie amiche sotto il casco del parrucchiere. Lisetta aveva bisogno di parlare e Shila sapeva ascoltare. Di più, era curiosa.

“E poi?”

“Beh, ci siamo diplomati. Col sessanta io e col trentasei tirato lui. Già da lì dovevo capire con che razza di carciofo mi andavo a incasinare. Volevo fare l’insegnante e mi iscrissi a Pedagogia. Per Cesare avevano già deciso i suoi: Economia e Commercio. Ovvio. Avevano un’attività che rendeva e Cesare non aveva bisogno di cercare lavoro. Doveva solo imparare a condurla. Ma ti rendi conto?”

“Conto di che?” Ripeté Shila, che non voleva perdere un solo tassello della storia.

“Economia e Commercio. Lui, che non aveva mai superato un compito di matematica senza copiare. Mi chiese di aiutarlo col primo esame. Se solo avessi detto di no allora. Lo aiutai e passò col ventotto. La stessa cosa successe col secondo, poi col terzo, col quarto… Suo padre aveva fretta di saperlo alla direzione dell’azienda. Studiavo con lui e per lui, ma non studiavo per me. Tre anni dopo stavo sistemando la sua tesi, mentre il mio libretto era ancora fermo al secondo esame, peraltro bollato con un poco lusinghiero ventiquattro”.

“E il tuo amor proprio? Non hai mai pensato di mollare?”

“Hai voglia! Non sai quante volte sono stata sul punto di farlo. Ci sono arrivata vicino il giorno della sua laurea”.

“Ma non l’hai fatto. Dico bene?”

“Vedi… è facile ricattare chi si porta nel cuore un debito”.

“Un… debito!”

“Sì, un debito. E il mio pesava come un rimorso. Tu sei bella, snella… e ti porti addosso quel che ti permette di non dover chiedere. Mai”.

“Sarà! Ma così sembro la pubblicità di un dopobarba”.

“Scusa. Voglio dire che quelle come te sono “tacchinate”, pedinate, spiate. Io sono sempre scivolata fra l’indifferenza di tutti, inosservata come il culo di una pantegana. Lui, fra le tante “belle”, disposte ad aprirgli le gambe con un semplice schiocco di dita, aveva scelto me, la “bruttarella” con una retromarcia al posto del reggipetto. Capisci? Ci pensò sua madre a farmelo notare. Quel giorno mi prese da parte e, fra un pasticcino e un brindisi, mi convinse della scontata mediocrità delle mie capacità, dell’insensatezza delle mie scelte, dell’inutilità dei miei sogni e si propose di garantirmi un domani felice, sereno e senza problemi economici a patto di…”

“A patto di…” Ripeté Shila per spingerla a liberarsi di quel mattone.

“Beh, ho rinunciato a molto. A tutto”.

“Ma con che coraggio…”

“No. Non è stata la sua sfacciataggine impellicciata, ma la mia paura. Cedetti al timore di ritrovarmi sola, messa da parte, nuovamente invisibile a tutti. E poi ero ancora illusa. Illusa di volergli bene – se non di amarlo – e di essere ricambiata. E poi… E poi c’era sempre quella faccenda del debito, quel velo scuro che mi impediva di vedere oltre la misura della riconoscenza. Mi arresi. Lo sposai. Hai mai visto i matrimoni dei calzaturieri? Gli “scarpari”, come si dice da noi. Cominciano con la Rolls-Royce e finiscono con una torta nuziale che pare la torre di Babele in avorio. In mezzo, un’Amazzonia di fiori, l’orchestra dei clacson, otto nanetti dispettosi che ti sorreggono il velo, la mazurca di Casadei reinterpretata da “Ivano e i discepoli padani” e una brigata di asini tirati a festa che pascolano sulla pista da ballo. Tutto è sfarzoso, di cattivo gusto, pomposo, pacchiano, debordante… faraonico! Fasullo e luccicante, come la bomboniera che lo ricorderà. Ma che ti ridi?”

“E fortuna che doveva essere il più bel giorno della tua vita!”

“Fu il peggiore”. Sentenziò Lisetta poggiando i gomiti sulle ginocchia e cacciando il mento fra le mani, a nicchia. “Vedessi la mia bomboniera. Un bauletto dei pirati, in vetro satinato con i brillantini. Stava male dappertutto, ma mia suocera pretendeva di vederla esposta. L’ho messa in bagno. Ci tengo gli assorbenti. La bomboniera in bagno, Cesare stravaccato sul divano e io a raccattare le sue mutande per casa. Eccolo il mio Day after”.

“E la tua laurea?” Insistette Shila, accendendo col mozzicone una seconda sigaretta.

“Ci arrivai. Con fatica, quasi di nascosto. Ma che ti serve una laurea in Pedagogia se ti devi occupare di bolle, resi e contabilità in nero? Eh sì, perché poi le cose si sono messe male. Il mercato della scarpa entrò in crisi, ma Cesare non ne voleva sapere di rinunciare ad un certo tenore di vita. A serrande chiuse, con gli operai in cassa integrazione, faceva entrare i lavoranti albanesi di soppiatto. Sei ore di lavoro, dalle undici di sera alle cinque del mattino, per trentamila lire la notte. E questo per consentirgli di girare con la Porche. E vota pure Lega, sto’ stronzo! In quegli anni ho fatto e visto cose da galera”.

“E’ servito a qualcosa buttarsi via così?”

“Se vuoi sapere che ne è stato dell’attività… beh, non c’è più. Sei anni fa se la sono mangiata le banche e i creditori. Io la vissi come una liberazione, lui come una catastrofe biblica”.

“E che ha fatto?”

“Che ha fatto? Ha svenduto il nostro benessere e si è ridotto a fare il rappresentante di pellame per Luciano, il tizio che l’ha condotto al fallimento e che ha rilevato l’attività. Gira con la pubblicità della ditta incollata alla portiera della Porche”.

“E tu?”

“Io? Costavo troppo. Il buon Luciano, sapendo che avrei rifiutato, mi propose dieci ore di ufficio in più, per cinquecento euro in meno al mese. Mi sostituì con Irina, una squinzetta sgonnellata venuta dall’Est: alta, bionda e incapace di mettere assieme cinque righe di italiano corretto. Tu non sai quanto siano pericolose quelle sgallettate. Ma hanno una fabbrica laggiù, che le fanno tutte fighe uguali? Adesso faccio la casalinga, rassetto settanta metri quadrati di appartamento e porto a pisciare quel botolo”.

“E… quel senso di riconoscenza freudiana? Quel debito, come lo chiami tu?”

“Evaporato. Dissolto. Svanito assieme a tutte le altre illusioni. Amore compreso. Troppo tardi però. C’è un tempo per tutto e quel tempo è già passato”.

“Non è rimasto proprio nulla? Nemmeno…”

“E che può mai rimanere di quello che, in verità, non era mai esistito? Se non era per quel maledetto latino non saremmo diventati nemmeno amici. E se intendevi… (e mima un gesto osceno) Nooo. Blackout totale. Oh, beh! Ogni tanto ci prova, per dovere coniugale. Putacaso quando ho le mie cose, per dirla con le sue parole, così da avere la scusa giusta per evitarmi. Tanto, se non è per quello è per il mal di testa, come dice lui”.

“Beh, non c’è solo…”

“Se ti riferisci ai giochini, sprechi fiato. Sul mio decolté un pisello potrebbe solo farci del surf e in quanto a certi servizietti… è troppo pretendere, almeno, un bidet? E vedi che la colpa è sempre mia?”

“E non gli manca?”

“Scherzi! Con la Valchiria coscia-lunga che sculetta per l’ufficio! Parla e scrive come Bigazzi quand’è ubriaco, ma… certi pompini!”

“Mi stai dicendo che ti tradisce?” Sibilò Shila, per indurla ad abbassare la voce.

“Capirai! Irina è solo l’ultima”. Minimizzò Lisetta, con la noncuranza che si destina ad una notiziuncola da cronaca locale. “Qualche tempo fa ha comprato la moto. Io non ero d’accordo. Dovevamo girare il mondo e ritrovarci. Solo scuse. Ci sono salita solo una volta. Diceva che non ci sapevo stare, che lo facevo sbandare. Adesso, su quel sellino ci porta Irina, l’apprendista di turno, l’addetta alle spedizioni. E non ci siamo più ritrovati. Ma la storia della moto è una delle tante”.

“C’è dell’altro?”

“Ohh! Sono anni che non metto piede in un cinema o in un ristorante, perché lui è sempre impegnato in cene di lavoro, meeting, pianificazioni aziendali, stage promozionali e conferenze. Conferenze, capisci? Luciano vende scarti di pelle e produce ciabatte e sandali. Di cosa mai dovranno dibattere? Della rivoluzione culturale dell’infradito cingalese? Se così è, allora ho sposato un manager con la genialità di Tremonti e lo stipendio di un fattorino. Per non parlare delle rimpatriate al circolo delle bocce, a quello del tennis, del calcetto a cinque… mediamente una al mese. E in mezzo c’è sempre quel paraculo di Gigi. Gigi qui, Gigi là. Chiedi a Gigi se non è vero… e che gli vado a chiedere? Se Irina gli sta lisciando l’asta da biliardo? Bah! Lascia perdere. Cos’è quell’aria stranita?”

“Sono… sono basita. Non sarei mai capace di affrontare queste cose con tanta scarnificante ironia”. Commentò Shila, con occhi ammirati. “Ma perché l’ironia, piuttosto che la sacrosanta rabbia?”

“Ufff… perché ti dona un istante di consapevole superiorità. E’ un atto di forza cerebrale che l’intelligenza genitale del maschio non può reggere. Il tempo di una battuta pungente che lo disarma, lo disorienta, lo denuda, lo priva di ogni appiglio. Ti fa stare in alto e ti ricorda che sei viva. E’ così che resti a galla. E poi sono stanca. Non ho più l’energia fisica per sputargli in faccia la mia rabbia, fare la valigia e andarmene. Che senso avrebbe farlo adesso? Ti sembrerà assurdo, ma ci si può abituare a tutto, anche al tradimento, soprattutto se questo diventa la sola certezza quotidiana. Forse, inconsciamente, gliel’ho permesso io, così da esaurire il mio debito, con tanto di interessi”.

“Se dico figli!” Osò Shila, con un filo di voce.

“Non mi ferisci. Non ci sono e forse è un bene. Figurati! Troppo tempo da rubare ai suoi impegni. Non l’ho evitata la maternità: ci ha pensato madre natura. Detto in parole povere, ce l’ho acida come la citronella e uccido gli spermatozoi come fossero zanzare tigre. Ho una tomba fra le gambe. E non azzardarti a chiedere se ci è rimasto male. Quando l’ha saputo, ha fatto spallucce e a titolo di consolazione mi ha regalato quel botolo che si sta facendo la tua Sissi (rivolta al cane) e staccati maiale!”

“Che stronzo!”

“Nooo. La colpa è mia. Mia e di sua madre. Nostra. Perché loro sono quello che noi gli abbiamo consentito di crescere e diventare. Come madri, come sorelle, come amiche, mogli e… amanti. Stupida io che gli ho concesso di usarmi e calpestarmi, come uno zerbino svedese”.

“Come cosa?”

“Non sai cos’è uno zerbino svedese? E’ quella spessa spugna di resina, porosa e abrasiva, quasi sempre rossa, che si incassa in una bussola di ottone o legno. La mettono sull’uscio degli Hotel. E’ fatta per essere maltrattata. Quando è sporca da far schifo si estrae la spugna, si aspira la polvere e si risistema il tutto. Ecco cosa sono. Uno zerbino svedese”.

“Uhm. Posso capire”.

“Grazie per la gradita manifestazione di solidarietà, ma non credo. No, non puoi capire. Non sei sposata e sei troppo giovane per…”

“Ti dico che posso capire benissimo”.

“Scusami, ma insisto. No. Per capire dovresti almeno aver…”

Ma Shila non le permise di finire la frase.

“Ho detto che ti capisco! Perché io sono un’amante”.

A quell’affermazione, esplosa come una schioppettata, seguì un lungo, imbarazzante silenzio che Shila si sentì in obbligo di spezzare.

“Hai capito bene, sono un’amante. Potrei benissimo essere quella che sale sul sellino della moto di tuo marito. O quella che lo strappa al divano con uno squillo di cellulare, fingendosi… Gigi. E perché no! Quella che glielo succhia di traverso al sedile dell’auto. Io sono tutto questo. Anche se non vengo dall’Est”.

Lisetta non sapeva più dove guardare. Si alzò e gli dette la schiena.

“Ma allora… allora cosa ci facciamo qui? Non vedo cosa ci possa accomunare. Cosa possiamo condividere”.

Shila si alzò, a sua volta, e si piazzò al suo fianco, guardando dalla parte opposta.

“Credo… credo che ci accomunino loro (indicando i cani).

Ti ho già detto che Sissi è un regalo, no! E poi credo che questo incontro sia frutto del destino. Forse non abbiamo nulla da condividere, ma molto da offrirci a vicenda”.

“E cioè?”

“Io credo che tornerò utile a te e tu tornerai utile a me”.

Seguì un altro lungo silenzio e tornarono ad occupare la panchina. Lisetta allentò la tensione con un lungo sospiro.

“Sei un’amante, hai detto”.

“Uhm-uhm. Di un noto commercialista”.

“Mi sono sempre chiesta com’è stare dall’altra parte?”

“Lo stesso stronzo vissuto dalla parte opposta della barricata. Tutto qui. Con la differenza che il mio, di stronzo, ha pure un figlio. Sono la sua segretaria da sette anni, la sua amante da cinque. Ti sconto buona parte della storia. Perciò lascio da parte la famiglia difficile, la scuola sbagliata, la fuga da un padre padrone e da una madre depressa. Ti evito le vicissitudini di una diciottenne squattrinata, lontana da casa, con gli studi lasciati per strada e un affitto da pagare, convinta che portarsi appresso un bel culo facesse la differenza. Ti dico semplicemente che quel lavoro mi serviva, che ero stanca di tirare avanti facendomi bastare le svendite e i saldi di fine stagione, che gli piacevo. Adesso? Lavoro poco, guadagno molto, abito un appartamento di lusso del quale non pago l’affitto e passo ore e ore dall’estetista per garantirmi tutto questo. Mettiamola così. Io riempio quel buco di tempo e di spazio che è rubato a te. Sono la ragazza che accetta l’invito a cena dello stronzo in questione. Che si caccia dentro ad una minigonna da puttana e si arrampica su quindici centimetri di tacchi a spillo per soddisfare la sua vanità fallica. Quella che accetta di sciropparsi una cammellata di chilometri per infilarsi in un buco di trattoria equivoca e frequentata da altre coppie fasulle. Sono quella che tenta di parlare a quello stronzo che, per tutto il tempo, si guarda attorno col timore di essere riconosciuto. Quel tizio che non ti ascolta, che vorrebbe già essere arrivato al caffè per poterti portare in camera e scopare. Io sono quella che deve trattenere il fiato sotto al lenzuolo, che non deve produrre rumori di sorta e far finta di non sentire tutte le balle che – lo stronzo – rifila per telefono alla consorte preoccupata della nebbia che c’è fuori. Io sono quell’impiccio da riaccompagnare e scaricare in fretta e furia, prima che la signora lo richiami preoccupata del ritardo. Io sono quella buona per i cinema di periferia, per le passeggiate in riva al mare, ma solo d’inverno. Quella buona per le bettole e le pizzerie sconosciute, ma che fanno una pizza da Dio. Quella che deve essere sempre tirata a lucido, che non può indossare jeans comodi e scarpe da ginnastica. Che deve battere i denti dentro un velo di tulle, con un filo interdentale al posto delle mutande, perché il pigiama è per le babbione frigide come sua moglie. Quella che in caso di “avvistamento pericoloso” deve staccarsi dal braccio, allontanarsi furtivamente, fingersi interessata davanti a una vetrina di sanitari e pagarsi un taxi per tornare. O pigliare l’ultimo autobus, perché il bastardo, per la gran fretta di eclissarsi, si è dimenticato di lasciarti i soldi. E poco gl’importa se quell’autobus, a mezzanotte, è zeppo di magrebini che ti scopano con gli occhi, per via che dovevi andarci a teatro con quel vestito fatto di nero e di niente. E non basta ancora. Perché sono anche quella che sul lavoro, all’occorrenza, deve mostrarsi cortese con l’ispettore del lavoro, che deve dimenticarsi aperto il bottone della camicetta se c’è quel particolare cliente buono. E sono… sono… sono quella che passa il Natale da sola, perché non è riuscito a trovare una scusa decente per liberarsi. Beh, ecco. Io sono questo. Scusa lo sfogo”.

Shila si tirò appena in disparte e accese ancora una sigaretta, per spegnere il convulso rabbioso che la stava aggredendo. Lisetta si sentì in colpa.

“Anch’io passo il Natale da sola. Lui la scusa giusta la trova sempre. E se non ha scuse, si addormenta davanti alla televisione, coi piedi allungati sul tavolino. Mi… mi dispiace. Non avevo mai considerato la cosa da questo punto di vista”.

“E perché avresti dovuto? Sono io che rubo l’uva, mica tu”.

“Ora sono io che te lo chiedo. E’ servito a qualcosa buttarsi via così, a vent’anni?”

“L’hai detto. Avevo vent’anni. A quell’età sei una spugna e la misura della vita esce dallo schermo del televisore. Gli ho creduto. Mi disse che fra loro stava finendo, che era questione di tempo. Che dovevo portare pazienza, che le carte erano già sul tavolo dell’avvocato, che mancava solo la firma e la separazione era cosa fatta. E bla-bla-bla. La storia delle storie, insomma. Bisogna essere cretine per cascarci. Io ci sono cascata. Una volpe, no?”

“Ma… il cane?”

“Sissi? Un surrogato. Cinque anni sono tanti. Me l’ha messo fra le braccia quando l’ho sfidato. Gli ho chiesto di decidere, di tirare le somme, di chiudere la faccenda. Gli ho detto che ero stanca di nascondermi nell’ombra, che volevo viverlo alla luce del sole. Viverlo alla luce del sole… parole magiche! Mi disse che aveva bisogno di un pausa per riflettere, per respirare, quantificare, qualificare. Che doveva per forza allontanarsi da tutto e da tutti. E cioè da me. E’ scappato come un coniglio. Ora ci frequentiamo meno e non si rende reperibile al cellulare: è sempre in stand-by. Il giorno del mio compleanno, al posto dei fiori, mi recapitano lei, con un bigliettino attaccato al collarino che diceva: sarò sempre con te, coccolami. Quel vespasiano ambulante, con i coglioni al posto delle tonsille non si era nemmeno accorto che era una femmina”.

“Sconcertante! E che hai fatto?”

“E che dovevo fare? Ho buttato il biglietto, tenuto la cagnetta e messo in quarantena la passera. Perché a sentire lui, se non la diamo, è segno che stiamo male, eh! Si è fatto sostituire dal cane e questo mi suona strano”.

“Temi per il tuo lavoro?”

“Beh, qualche mese fa, con la scusa di alleggerirmi dello straordinario, mi ha affiancato una novellina fresca di diploma serale. E’ cubana. E come la tua Irina scrive quadro con la “C”, ma come balla la lambada lei! Tu che dici? Devo preoccuparmi?”

Lisetta non rispose. Si limitò a additare il pacchetto di sigarette che Shila tratteneva fra le dita.

“Posso?”

“Eh? Ah, le sigarette. Prego, serviti. Ma allora fumi!”

“N-no. (tossendo) Ma stasera ne ho bisogno. Credi… (e tossì nuovamente) credi davvero che potremmo esserci utili a vicenda?”

“Sì!”

“In che modo?”

“E’ già accaduto”. Affermò Shila, che nel frattempo si era calmata e aveva già un’altra sigaretta fra le labbra. “Non te ne sei resa conto?”

“Dici davvero?”

“Dico. Ci siamo sgravate l’animo. Avevi mai detto ad altri quello che hai raccontato a me?”

“N-no. Adesso che mi ci fai pensare, no davvero”.

“Nemmeno a lui?”

“Figurati!”

“Appunto. Pensaci. Sai quello che ti combina, eppure ti sei sempre tenuta dentro tutto. Hai subito ogni tipo di umiliazione,  senza mai reagire, ricacciando in fondo allo stomaco la tua dignità. Sei implosa come una trapunta messa sotto vuoto per trovare posto in armadio. Sei arrivata a tanto e lui non sa che tu fingi di non sapere. Ti pare normale? Immagina di pigliarlo per il bavero. Immagina di dirglielo”.

“Sarebbe la fine”.

“La fine di che? Di quello che non c’è mai stato? E guarda che l’hai detto tu, eh!”

“Uhm, vero. Davvero basta così poco? Dovrei solo aprire la porta di casa, pigliarlo per il colletto e dirgli in faccia che so tutto. E… e basta?”

“Hè! E basta. Non è difficile. Devi solo scrollarti di dosso quel torpore, quella “stanchezza” come la chiami tu, e dire solo quelle due parole magiche: IO SO. Il resto verrà da sè, inclusi gli insulti doverosi. Certo, qualche spiacevole effetto collaterale ci sarà, ma è inevitabile. Dovrai perdere o rinunciare a qualcosa, ma ritroverai la tua dignità e ti aprirai la strada della liberazione. E se lo farai prima del 25 aprile avrai un motivo vero per festeggiare. Battute a parte, fallo!”

Le parole, se pronunciate per come sono e per quel che valgono, nude e vere, sono una scudisciata sulla pelle e hanno un potere alchemico. La “stanchezza” di Lisetta svanì all’istante, come se, d’improvviso, la pesante coltre di cenere che la ricopriva fosse stata spazzata via da una violenta folata di vento. La stanchezza lasciò il posto ad una energia nuova e sconosciuta. Sorrise e le si illuminò il volto, folgorata dalla verità.

“Mbeh! Hai scoperto dove si trova il punto “G”?”

Ironizzò Shila, che non si aspettava una reazione così vistosa.

“Di più. In verità non ho nulla da perdere. Nulla, capisci? Quando la rinomata “Costanzo calzature” era sul punto di fallire, mia suocera simulò una compra-vendita, così da intestare a me l’appartamento e salvare il culo al figlio. La casa è mia! Nel caso, non sono io che devo fare le valige, ma lui!”

“E che dire. Ottimo! Hai di che mantenerti?”

“Hè, bella domanda. Ho una laurea in Lettere. Potrei dare ripetizioni di latino e… qualcosa mi inventerò”.

Elisa, colta dall’euforia della rivelazione, abbracciò la ragazza e se la strinse forte. Poi, stimando eccessiva l’esternazione, sciolse l’abbraccio e si scusò.

“Ehm… volevo solo… beh, grazie”.

Shila, invece, la trattenne appena per i gomiti e la baciò sulla bocca.

“E di che?” Aggiunse poi. In verità le sfiorò appena le labbra, ma quel tocco leggero lasciò interdetta Lisetta, che proprio non se l’aspettava. Si fissarono a vicenda per qualche istante cercando, ognuna per la propria parte, di comprendere il senso di quel gesto e valutarne gli esiti. Shila sciolse quell’attesa con un sorriso.

“Siamo donne. La complicità ci appartiene”.

La precisazione non rasserenò del tutto Elisa che però, dal canto suo, non si riteneva all’altezza di comprendere fino in fondo gli atteggiamenti dei giovani. Del resto vedeva spesso per strada ragazze che si tenevano per mano. E’ la moda.

Perciò si scrollò di dosso quell’ombra e prese a fare progetti a voce alta.

“Allora. Tanto per cominciare stasera mi sistemo sul divano e… no-no. Sul divano di solito c’è lui. Allora, vediamo… Ecco, sì. Sbatto la porta, così lo sveglio, e prima che si riprenda gli grido in faccia: porco fedifrago! So tutto. Di te e di quella troia russa che…”

“Calma, calma. Cos’è ‘sta “merolata” partenopea?” Intervenne Shila, temendo di aver scoperchiato un vulcano sopito.

“Non puoi. Non così”.

“Ah no? E come dovrei allora?” Chiese Lisetta, portandosi le mani ai fianchi.

“Ehi! Chi di noi è la sciupa-famiglie? E allora fidati. Se lo affronti così, presa per come ti vedo io adesso, non sapresti reggere i suoi occhi. Basterebbe un tentennamento da parte tua e un po’ di scena da parte sua per buttare in vacca tutto. Non devi lasciargli margini di reazione. Devi costringerlo subito alle corde, ma per far questo devi avere la grinta necessaria. E per avere artigli, devi entrare nella pelle della tigre. Non puoi presentarti a lui così, con questo aspetto dimesso. Non saresti credibile. Devi arrivare a lui in tutto il tuo ritrovato splendore. Mentre gli urli la tua rabbia, devi farglielo drizzare. Anche per un solo istante, dovrà desiderarti e ravvedersi del fatto che aveva a portata di uccello una strafiga e non lo sapeva. Credimi, per un uomo non c’è nulla di peggio che scoprirsi snobbato sotto la cinta. Scusa se…”

“Sì, lo so. In questi ultimi tempi mi sono lasciata andare. Lui invece…”

“Si è mantenuto gnocco e palestrato, ovvio. Sennò come si liscia la zarina? Sono esigenti, quelle”.

“E allora? Che faccio?” Chiese Lisetta, avvilita.

“Farai quello che devi, ma appena ti avrò… restaurata a dovere”.

“Grazie! Sono così giù di carrozzeria? Sentiamo, quanti anni mi dai?”

“Non intendevo sminuirti”. Si scusò la ragazza, prendendola per un braccio.

“OK. Ma quanti me ne dai? Su, forza. Quanti?”

“Ma, guarda… se mi dicessi quarantaquattro non ti crederei”.

Disse Shila, certa di aver sottostimato a sufficienza l’età dell’amica.

“Hè. Fai bene. Ne ho quarantadue”. Sottolineò Lisetta, mestamente. Shila impallidì e corse ai ripari.

“Beh, sai. Col buio è difficile… Comunque fidati di me. Chi ti fa i capelli?”

“La moglie del Gigi. Viene in casa. Gli mostro quel che mi piace, sfogliando una rivista e…”

“Mi pigli per i fondelli? Qui c’è da partire con l’abbecedario. OK! Conosci il Salone Mauro?”

“Quello con l’entrata che dà in Via Mazzini? Sì, certo. E’ il parrucchiere più caro di Borghetto”.

“Ma è anche il mio parrucchiere. Non so se è caro; non pago mai. Lascio sul conto. Indovina di chi? Bene. Ti aspetto lì davanti, domani, alle nove in punto. Ci sarai?”

“OK. Va bene. Ma con Cesare?”

“Tutto rinviato. Tu pensa a mantenere in pressione la pentola, al resto ci penso io. Madre! Sono le due passate! Se non dormo almeno sei ore sono un cencio. A domani, allora. Oh, Lisetta!”

“Che c’è?”

“Secondo te che cosa viene fuori incrociando un setter con un barboncino?” Chiese Shila, accennando con gli occhi i due animali.

“Eh? Oh Santa Barbara… E staccati, maiale!”

Quella notte Lisetta non chiuse occhio. Lei, che usualmente si coricava di fianco, se ne restò con la pancia all’insù a fissare il soffitto. Ogni tanto, quando Cesare cominciava a russare, gli allungava un calcio di traverso. E lo faceva di gusto, perché aveva scoperto di odiarlo. Grazie a Shila, aveva superato l’indifferenza ed era tornata a provare un sentimento. Perché l’odio è, comunque, un sentimento. I suoi occhi andavano dal soffitto al buio oltre la finestra, al quadrante luminoso della sveglia. Le cinque. Pensò a tutte le parole sciupate poche ore prima. Pensò a come si sentiva, a quella sete di vita nuova che bruciava nelle vene e che la percorreva tutta come fuoco, dalla testa ai piedi. Molecola dopo molecola, stava rimettendo insieme la donna che avrebbe dovuto essere e che non aveva avuto l’opportunità di diventare.

Pensò al tempo fin lì buttato, a quella mezza vita regalata all’oblio, vissuta all’ombra di Cesare. Poi, una scheggia nel buio. Il turbamento di un istante. Le labbra di Shila sulle sue.

Le parve di sentire ancora il sapore del rossetto e si scoprì a sorridere. Aveva gli occhi di lei davanti. Quante cose erano cambiate in meno di due giorni, e quante ne dovevano cambiare.

Quella ragazza, seppure diversa in tutto e per tutto da lei, era capace di cavare acqua dai sassi, come usava dire suo padre, intendendo con questo che certe persone erano, naturalmente, dotate dell’innata capacità di aprire breccia anche nel cuore più segreto e inaccessibile.

L’indomani mattina una Lisetta timida e impacciata si ritrovò incollata alla poltrona “vip” del Mauro, quella usualmente riservata ai clienti importanti, imballata dentro un poncho di raso fucsia. Allo specchio parevano il trittico di un maestro fiammingo. Al centro la beata martire, stretta fra le allegoriche rappresentazioni della lussuria e della vanità. In questo caso Shila e Mauro. Lei alla sua destra, con le braccia conserte, lui a sinistra con una mano alla vita e l’altra a torturarsi il pizzetto con occhio accigliato.

“La vedi così dura?” Bisbigliò Shila, per non farsi sentire.

“Uhm. E’ una bella sfida. Quello che mi proponi è un miracolo”. Sussurrò Mauro, di rimando.

“Ma i miracoli sono il tuo pane, no? Ti ho visto fare cose inenarrabili”.

“Non mi adulare. Sai che se decido è perché mi voglio mettere alla prova”.

“Diciamo… Quattro orette e tutto quello che la chimica moderna ti mette a disposizione?”

“Paga lei?”

“Con le tue tariffe? Dovrebbe vendersi la casa o dartela gratis per un anno”.

“Mhmm. Quanto sei spiritosa!”

Commentò lui, tradendo una smorfia femminea.

“Metti sul conto del pollo, no? Allora?”

“Vediamo un po’. Taglio, tinta, piega. Vapore, maquillage… Visagista e unghie?”

“Soprattutto!”

“Ceretta?”

“Eccessiva. Non è presa da giardiniere. Meglio la schiuma a tempo”.

“Essia tesoro! Salto il pranzo e la vieni a ritirare per le sette”.

“Scherzi! Per quell’ora dev’essere già bella che infiorata per la processione. Mi serve affrescata per le tredici. Massimo le quindici. Eddai!”

“Uhm. E vabbbbene. Ma giusto perché sei tu”.

“S-scusate”. Intervenne timidamente Lisetta, che fino a quel momento aveva palleggiato con la testa da un lato all’altro dello specchio… “Ma state parlando di me o del recupero della Cappella Sistina?”

I due si zittirono. Mauro si schiarì la voce e schioccò le dita per chiamare a raccolta le forze necessarie. Shila, invece, guadagnò l’uscita con una scusa. Quando ritornò all’atelier, poco prima dell’ora pattuita, aveva con se una grande sporta e puntò dritta verso il grande specchio.

“Allora, a che punto siam… Oh cielo!”

Esclamò sgranando gli occhi e lasciando cadere la sporta. Lisetta era in piedi, due passi davanti a lei, incantata a guardarsi, con gli occhi strabiliati di una bambina.

“Oh, Shila. N-non ci crederai ma… quella sono io. Cioè, non sono più io”.

Balbettò Lisetta, vedendo lo stupore dell’amica riflesso di fianco.

“Hai detto bene. Giuro. Non ti avrei riconosciuta”. Aggiunse Shila, posando le mani sulle sue spalle. “Quella è davvero un’altra donna. Il rosso Tiziano, poi, è stato un lampo di pura genialità”.

“Sarà. Ma tu non sai cos’ho patito. Mi hanno sfoltito le sopracciglia, tirato le ciglia, falciato le ascelle, piallato calli e duroni, stuccato rughe e cicatrici. E poi smaltata dalla unghie dei piedi a quelle delle mani e… Rosolata sotto una lampada UV. I punti neri erano così terrorizzati, che se ne sono scappati via da soli”.

“Beh, è come dal dentista. Se ci vai spesso è una passeggiata, ma se ci vai ogni dieci anni! Chi apparire vuole, soffrire deve. Ebbravo Mauro! Sei un mago”.

“Ecccerto, tesoro. Ma mai più. Per carità divina, mai più. Spero che la causa valga tanto dispendio e sacrificio”. Rantolò lui, stravolto e spalmato come un cencio, sulla poltrona da shampoo.

“Certo che li vale. OK, lo so. Ti devo un grosso favore. Grazie”.

“No. Mi devi il numero di telefono di quel biondino che ti porta la spesa a casa. Non ha prezzo quello che ho fatto”.

Shila strappò Lisetta alla sua immagine riflessa e la trascinò nella saletta dei massaggi. Chiuse la porta e tirò fuori dalla sporta un completo di fresco-lana color antracite. Gonna appena sopra il ginocchio, aperta su un lato, e giacchino alla coreana, con sotto un corsetto di seta bianca.

“Adesso che finalmente abbiamo un guerriero, vediamo di vestirlo per la crociata. Su, forza! Indossa questo. Ti piace?”

Lisetta spiegò il corsetto e le capitò fra le dita il cartellino del prezzo. Impallidì.

“Eheee! Santa Barbara! E certo che mi piace, ma come farò a…”

“Shss! E che mai ti sei votata a Santa Barbara!” Sibilò Shila premendole il palmo della mano contro la bocca “Tranquilla. Va tutto sul suo conto. Dovrò pure fargliela pagare in qualche modo, no? Dai, forza, provati sta roba”.

“Uhm. E’ corta. Mi segna dietro. Hiii, la coscia! Non si potrebbe dare un punto allo spacco? Mi sento con le mutande di fuori. Uff… Il giacchino mi tira qui sotto. Ma il corsetto non ha le bretelle? Me lo sento scivolare e…”

“Alt! Oh! Bella! Vediamo di chiarirci un po’. Con che cavolo vorresti sconvolgerlo il carciofo? Con un saio francescano e i mutandoni di nonna Pina? Zitta e soffri; che questa è solo la prima tappa. A proposito, come ci stai sui tacchi?”

“Eh?”

“Devo farti un disegnino? I tacchi! Dieci, dodici… Che altezza reggi?”

“Piano terra o poco più. Facciamo mezza spanna se non devo camminare tanto”.

“Tze-tze (alla sicula, facendo di non col capo) Scordatelo! Ti concedo una petit-condè con lo spillo da dieci e cinquecento metri per abituatici”.

“Perché cinquecento metri?”

“E’ la distanza che separa il negozio di Handy’s dalla corsetteria di Largo Cairoli. Te lo ripeto, siamo solo alla prima tappa. Il viaggio è lungo. Le calze giuste, la borsetta, gli accessori e… Cos’è quella faccia? Non ti fidi?”

“No-no. Tutto bello, tutto perfetto ma… queste?” Disse portandosi le mani sotto il seno “Le farcisco con la cascatella di nonno Nanni o ci fermiamo dal gommista?”

“Non serve. Per questo andiamo in corsetteria. Oggi conoscerai i progressi della tecnica in fatto di volumetrie gemellari”.

E difatti Lisetta uscì dalla corsetteria ostentando una quasi terza che, seppur modesta, le conferiva un apprezzabilissimo profilo. Alle ventuno, quando si decisero di prendere fiato concedendosi una cioccolata calda e qualche biscotto, la metamorfosi di Lisetta era compiuta. La donna continuava a specchiarsi con la coda dell’occhio su tutto ciò che poteva riflettere questo o quel dettaglio.

“Eh sì. Abbiamo tirato fuori il meglio?” Disse Shila fiera del suo lavoro.

“Già. Mi chiedo come ci sei riuscita?”

“Non è stato difficile. E’ nella nostra natura tirare fuori il meglio, no? E poi tu, lì dentro, c’eri già per come ti vedi adesso. Ti eri solo… dimenticata”.

“Potrò mai sdebitarmi?”

“Lo stai già facendo, ma di questo ne riparleremo. OK. Allora ci ritroviamo alla Fontanella, fra tre giorni. Prima, no. Per come la vedo io, ti serviranno tutti”.

Detto ciò scostarono le sedie per lasciare il tavolo. Fu allora che Shila, approfittando della distrazione di un istante, accarezzò delicatamente la guancia dell’amica col rovescio della mano, e accompagnò quel gesto con un sorriso degli occhi. Lisetta fu colta da un fremito e provò nuovamente quel sottile, indefinibile turbamento. Preferì fingersi indifferente e accettò di farsi accompagnare fin sotto casa.

I tre giorni trascorsero e Shila si precipitò all’appuntamento.

In quel breve lasso di tempo, le erano successe cose importanti e aveva una grossa novità per l’amica. Lisetta era già lì, seduta sotto il lampione.

“Uhm, il nero ti dona. Tono su tono. Complimenti. Non ti facevo così audace”.

Esordì Shila sganciando il collare della cagnetta. Si accomodò e solo allora colse l’espressione dell’amica.

“Oh, madre! Cos’è quell’aria mesta? Gesù! Dimmi che è filato liscio tutto. Per carità dimmelo!”

“Sì-sì. E’ andato tutto per il verso giusto”.

Rispose Lisetta catatonica. “Un vero trionfo, ma…”

“Ma?” Ripeté Shila per strapparle di bocca il resto.

“Sono… sono vedova. Da quasi tre giorni sono vedova”.

Biascicò Lisetta senza emozione, con lo sguardo assente, buttato oltre il buio. Shila si sentì venire meno. Si tirò su col busto e accese subito una sigaretta.

“Come sarebbe a dire… vedova? Che è morto?”

“Già. Morto. Defunto all’istante”.

“All’istante! Un infarto? Oh Madonna! Ho creato un mostro. Ma che gli hai fatto?”

Insistette Shila, incapace di portare la sigaretta alle labbra per quanto tremava.

“Nulla. Non mi sono spostata di un centimetro. Non l’ho nemmeno sfiorato. Ha fatto tutto da solo. Si è rotto l’osso del collo. E’ caduto, ruzzolato giù per sei rampe di scale. Dall’appartamento, giù-giù-giù fino all’ androne”.

Precisò Lisetta, mimando con l’indice una spirale.

“Ah, un incidente allora?”

Insistette Shila riprendendo colore.

“S-sì. No. Cioè, non saprei”.

“Ma mi dici come è andata?”

Lisetta respirò profondamente e, scrollandosi via il torpore che la inebetiva, prese a raccontare con dovizia di particolari.

Aveva atteso per ben quattro ore, prima di trovarsi davanti Cesare che rincasava di soppiatto. Ovviamente il consorte si sorprese nel vederla tirata a quel modo. E chi non si sarebbe sorpreso davanti a tanta grazia ritrovata. Era così disorientato e frastornato dalla sua bellezza, che non riuscì a mettere insieme quattro vocali di fila. Quando i suoi occhi risalirono lo spacco della gonna si colorò in viso e, come aveva previsto Shila, si lanciò verso di lei, tentando un approccio maldestro. Prima un ceffone, poi uno spintone per allontanarlo e infine il fatidico

“Fermo lì, porco. So tutto di te e di quella baldracca. La valigia è già pronta. Pigliala e dileguati” sparato tutto d’un fiato, con le mani ai fianchi e le gambe appena divaricate, per mantenere l’equilibrio compromesso dalla violenta emozione che le stava sconquassando le viscere. Poi, tutto come da copione. Il silenzio da panico, le accuse e le scuse arrabattate, l’implorazione pietosa, la rivendicazione, i botta e risposta in crescendo, fino all’altrettanto fatidico “E dillo che hai un altro, troia! Non ti sei mai combinata così per me. A chi la dai?” E a quel punto la naturale degenerazione dell’alterco, peraltro fulmineo, straziato da insulti ed epiteti, e consumato per buona parte sul pianerottolo. Infine il drammatico epilogo. Lui, rabbioso e umiliato che urla “E non finisce qui. Sono io che me ne vado, non tu che mi cacci”, che agguanta la valigia e si dirige verso le scale. Cammina all’indietro, trascinando il bagaglio, così da inveire ancora contro l’apparente indifferenza di Lisetta che sta svogliatamente appoggiata allo stipite della porta”.

“E… e poi?” Stuzzicò Shila, per superare l’improvvisa pausa.

“Andando a ritroso non si avvide di essere già col tallone oltre il margine del gradino. Gli è mancata la terra sotto i piedi. Si è aggrappato inutilmente alla valigia e… ho chiuso gli occhi. Li ho riaperti e non c’erano più. Né lui, né la valigia”.

“Avresti potuto far qualcosa?”

“Sì. Quando l’ho visto troppo vicino alla scala ci ho pensato. Gli ho anche fatto segno di fermarsi, con la mano. L’ha preso per un vaffanculo e mi ha risposto col gesto dell’ombrello”.

“Di più, no, eh!”

“Forse. Ma… troppa tensione. In quel momento mi sentivo fiacca, snervata, svuotata, e tutto mi costava fatica. Secondo te l’ho ammazzato?” Chiese Lisetta, che sembrava stesse parlando del tempo che farà.

“Nooo, perché? Ha fatto tutto da solo. E tu, giustamente, non ti sei messa in mezzo”. Rispose Shila, stranita da quella paradossale conversazione.

“Fhuu, grazie. Questo mi solleva. Se è così anche l’incidente di Marina non è colpa mia”.

“E… e chi è Marina?” Chiese Shila, deglutendo.

“Mia suocera. Non ti ho mai detto di lei?”

“S-sì, certo, ma… non mi hai detto cosa le è successo. Tu non c’entri, vero?”

“Non saprei”. Rispose Lisetta, facendo spallucce e con una smorfia di indifferenza stampata in faccia. “Me la sono ritrovata fra i piedi, mezz’ora dopo che i sanitari avevano caricato in ambulanza il povero Cesare. Mi ha chiesto che cosa ci facevo dentro a quel vestito da poco di buono e poi ha cominciato ad insultarmi. Mi ha detto di tutto. Che ero cattiva, crudele, insensibile, lasciva, falsa, bugiarda, fedifraga… Non era mai accaduto che Cesare si servisse delle scale. Lui usava sempre e solo l’ascensore. Perciò era convinta che l’avessi buttato di sotto io, con una scusa. E poi che per forza doveva esserci un altro di mezzo. Sennò che ci facevo così bardata? Ma… (rivolta all’amica) ero davvero così figa l’altra sera? Vabbè! Stavo dicendo… mi ha minacciato. Ha promesso di citarmi in tribunale, di portarmi via la casa, di lasciarmi in mutande. Mai vista così incazzata. Era paonazza e la giugulare le pulsava violentemente. E’ uscita sbattendo la porta”.

“Beh, sai. A vederla coi suoi occhi, le avevi suicidato il figlio. Che ti aspettavi? Un abbraccio?”

Ormai il tenore surreale del dialogo le aveva fatte scivolare inesorabilmente nell’apatia più totale, sradicandole da ogni contesto emotivo. Parlavano, sedute a guardare il buio davanti a loro, con le braccia conserte e le gambe accavallate. Shila, dopo una beve pausa, riprese il filo del discorso.

“E dopo, che è successo?”

“L’ho rincorsa”.

“Per dirle cosa?”

“Di prendere le scale”.

“Dopo quello che era successo al figlio? Ma ti è dato di volta?”

“No. L’ascensore era guasto dalla mattina. Per questo Cesare voleva servirsi delle scale. Sennò, hai voglia! Ha preso ad insultarmi camminando all’indietro, verso l’ascensore. Dev’essere una tara di famiglia quella di camminare come i gamberi”.

“Ma non hai provato a fermarla?”

“Oh, come no. Continuavo ad indicarle il cartello col divieto appeso alla porta scorrevole, ma lei non ne voleva sapere di girarsi. Continuava a ripetere che ero una criminale e che con lei il giochino delle scale non funzionava. Ha premuto il pulsante e lo scorrevole si è aperto. Ha selezionato il piano terra e… è stato come lasciare un sasso nel vuoto. Madonna che botto!”

“Nooo! Non è stata colpa tua. Solo una serie di fatali eventi”.

Si limitò a confermare Shila, con fare rassegnato.

“Secondo te si piacciono davvero o è solo la stagione?”

Chiese Lisetta, volgendosi a cercare il suo Febo.

“La stagione? Oh, Madre!… Sissi! E smettila di farti trombare come una troia!”

“Lascia. Tanto è castrato. E’ stato un dispetto”.

“Uhm, capisco. Che farai adesso?”

“Non lo so. Dimmelo tu. Ho una casa, ma non ho un lavoro per mantenerla. Potevo rifarmi con l’assegno di mantenimento, ma il fedifrago si è dato al parapendio condominiale e mi ha lasciata vedova. E’ pur vero che potevo perdere la casa, ma fortunatamente la madre ha deciso di seguirlo. Ciò nonostante, i due compianti hanno trovato il modo di raggirarmi ancora”.

“Cioè?”

“Il padre di Cesare era stato cremato e loro, di conseguenza, avevano già deciso in tal senso con tanto di documento autografo, depositato presso il loro avvocato”.

“Non vedo dove sta il problema. Anzi, ne vedo due di meno”.

“Il problema è che mi hanno nuovamente snobbata. Già mi vedevo a piantare fichi d’india e cardi spinosi sulla tomba di Cesare, sputare sulla sua foto con la scusa di pulirla e… E tante altre piccole bastardate. Minutaglie, certo, ma falle oggi, falle domani, qualche beneficio ne sarebbe derivato. E invece! Ha evitato tutto ciò. (alzando la voce) IO HO BISOGNO DI SUBLIMARE IL BUCO NERO CHE PER VENTI ANNI MI HA PROSCIUGATA DENTRO. Capisci?”

“Allora è questo che ti prostra e alimenta il tuo sarcasmo. E io che cercavo il modo più consono per esprimerti le condoglianze”.

“Tempo perso. Non sono affranta, sono solo arrabbiata col cielo. Vedi… ha lasciato una faccenda in sospeso”. Aggiunse, staccandosi dalla panchina. “Però è certo che non sono più quella Lisetta spenta e remissiva. Sono ben altro, ora, e ti garantisco che troverò il modo di riscuotere quel credito”.

Shila, in verità, non comprese fino in fondo lo sconforto che impediva a Lisetta di piangere e di sfogarsi, ma ebbe la misura delle sofferenze da lei patite in quegli anni appena trascorsi. Capì che quello era il momento della rabbia e che il tempo dello sfogo era ancora lontano da venire, così preferì sottrarsi ad ogni forma di conforto.

“Ci vediamo domani sera?”, chiese abbandonando a sua volta la panchina.

“No. Domani restituiscono le ceneri e devo presenziare la loro tumulazione. Per stasera… scusami. Non c’ero per te. Mi dispiace”.

“Fa nulla. Rimedieremo”.

“Sicuramente. Anzi, facciamo così. Sai dove abito, no? Ti aspetto sabato sera, per cena. OK? In fin dei conti ho guadagnato una vita nuova e vale comunque la pena di festeggiare”.

“Andata. Ho anch’io una novità, ma non so se è il caso di festeggiarla. Comunque il vino lo porto io”.

E si congedarono con una vigorosa e poco femminile stretta di mano.

Il secondo trillo di campanello non si era ancora esaurito, che Lisetta era già con la bocca incollata al citofono.

“Shila?”

“Sì, sono io”.

“Puntualissima. Sali, dai. Interno sette. Ah… l’ascensore funziona, ma non fidarti”.

Le scale dei palazzi storici contano diciassette centimetri e mezzo di balzo. Cioè scartano in eccesso di appena un centimetro sulle attuali misure. Eppure, se non si è abituati, è quanto basta a tagliare le gambe. Anche quelle di un fisico asciutto e atletico come quello di Shila. Lisetta se la trovò alla porta col petto che pulsava e il fiato lungo.

“Falciano, vero? Adesso sai perché tutti preferiscono l’ascensore in questo palazzo. Entra, su. Ma prima… pulisciti bene le scarpe. Con forza, mi raccomando. Strisciale proprio”.

“S-sì, d’accordo. Come… come vuoi”. Balbettò Shila, interdetta e stupita da quella richiesta poco cortese. Poi pensò a quello che l’amica aveva passato e lasciò correre. Quando furono in casa Lisetta recuperò l’usuale cortesia.

“Mi chiedo come fai a stare su quei tacchi senza provare vertigine. Dammi il cappotto e… Uhauu! Fatti vedere… stai da Dio dentro quel tubino. Con quelle gambe, poi! E’ un bel punto di blu. Seta immagino”.

“Sembra. E’ un materiale nuovo, tecnico”. Disse Shila, piroettando scherzosamente sulle punte. “Al tatto pare seta, ma tiene caldo come la lana. Sono felice di piacerti”.

“Tu stai bene con tutto. Però… mi metti a disagio. E’ solo una cena a freddo. Non ho fatto grandi cose”.

“E con ciò?” Obiettò Shila, porgendole una bottiglia di champagne.

“Beh, tanta eleganza è sprecata. Potevi metterti più comoda. Siamo solo noi due”.

“Appunto. Ti pare un buon motivo per non offrirci al meglio di quel che siamo? Mi sono fatta bella per te”.

Su Lisetta quelle parole ebbero l’effetto di una doccia ghiacciata.

E quando Shila la baciò delicatamente sulle labbra, il sangue ricominciò a scorrere così violento che avvampò come una lampada cinese e dovette scapparsene in camera con una scusa. Shila la raggiunse e la tranquillizzò.

“Ehi. Calma. Era solo un bacio. Ti fa paura l’affetto?”

“Quello che non conosco. Voglio dire… Non avermene, ti prego, ma io non sono…”

“Lesbica? Nemmeno io”.

“E… e non ho mai…”

“Amato una donna? Nemmeno io”.

“Ah, ecco. Bene. Ma allora…”

A quel punto Shila si lasciò scappare una breve risata.

“Oh, mia cara Lisetta, sapessi quanto sei buffa quando cerchi di capire dove poggi i piedi. Ma non ti è bastato? Non sei ancora stanca di barriere, fossati… muri? Capisco l’abitudine, ma perché impedirti ancora di spaziare oltre i confini?

Dai, su. Andiamo a mangiare. Ho sentito un profumino di là!”

“Ma… forse dovrei cambiarmi. Io sono ancora in tuta”.

Sussurrò confusa, Lisetta.

“Beh, allora fallo. L’apprezzerei”.

“OK! Allora mi cambio. Se intanto vuoi gradire un antipastino…”

Shila si accomodò e cominciò ad assaggiare. Era tutto buonissimo. Lisetta ritornò in cucina indossando una morbida camicetta bianca, stretta in figura da una vezzosa gonnellina di panno grigio, plissettata. Si fermò un istante a raccogliere l’approvazione dell’amica e poi prese posto a tavola.

“Complimenti!” Esordì Shila per rompere il ghiaccio. “Te la cavi bene con i fornelli. Questa mousse di tonno è favolosa”.

“Grazie. Allora, che cosa dovevi dirmi l’altra sera?”

“No. Prima tu. Fatto tutto?”

“Ah, ti riferisci alla tumulazione dell’urna cineraria. Sì. Fatto. Finito tutto”.

“Lo… lo dici con una certa soddisfazione”. Appuntò Shila, smettendo di masticare.

“Uhm-uhm! Sì, sono proprio contenta. L’ho collocato bene”.

“E dove l’hanno sistemato? In quei lucernai esterni o nelle cellette…”

“Nella celletta cineraria il canopo. Lui là fuori”.

Precisò Lisetta, indicando la porta e senza smettere di manovrare la forchetta. A Shila andò di traverso il boccone.

“C-come sarebbe, là fuori?”

Grugnì dopo aver buttato giù un sorso d’acqua.

“Ma non hai notato nulla prima, entrando?”

Chiese Lisetta, forbendosi la bocca.

“E cosa avrei dovuto notare?”

“Vieni. Ti faccio vedere”.

Lisetta prese per mano l’amica e la trascinò fuori dell’appartamento, sul pianerottolo. La sistemò giusto davanti alla porta e indicò per terra.

“Che te ne pare?”

“Di cosa? Di quello? E’ uno zerbino. Uno zerbino rosso”.

Disse Shila, cominciando a temere per la sanità mentale della donna.

“Sbagliato. E’ uno zerbino svedese. Vedi? Questo si può togliere dall’incasso di ottone e si può aspirare sotto. E poi si rimette apposto. Così”.

“Ah! Bello. Ma che c’entra lo zerbino svedese con Cesare?”

Chiese Shila sgranando due occhi da barbagianni.

“Lui è lì sotto!”

Shila svenne. Quando si riebbe era stesa sul divano, con un cuscino sotto i piedi e una pezza bagnata sulla fronte.

“Va meglio? Non ti facevo così sensibile”.

“Com’è finito là sotto?” Chiese Shila, premendosi la pezza contro la fronte.

“Per capire devi sapere. L’illuminazione l’ho avuta nel retrobottega delle onoranze “La Riviera”, quando mi hanno lasciata sola al cospetto del canopo, per un momento di raccoglimento. Ho pensato: lì dentro c’è solo un mucchietto di cenere. Ricordai di avere un sacchetto di nylon in borsetta. Sai, di quelli che si usano per la spesa. E anche una confezione di sali da bagno. Li avevo appena comprati. Ero sola. Presi fiato, svitai il tappo dell’urna e riversai nel sacchetto le ceneri di Cesare. Le sostituii con i sali e richiusi il tutto. Facile, no?”

Esclamò Lisetta, con un sorriso da orecchio a orecchio.

“Oh Madonna santa…” Rantolò Shila, mettendo giù i piedi.

“Ferma là, non si sa mai. Sei ancora pallida. Allora… Tornando a casa mi fermai da Tito, un pensionato che sbarca il lunario con lavoretti di poco conto, e lo incaricai di costruirmi una bussola da zerbino svedese. Con urgenza. Mi soddisfò. Spaccò e asportò due marmittoni del pianerottolo e predispose la gettata di malta grassa. E’ a quel punto che, dopo averlo distratto con un bicchiere di grignolino, ho mescolato le ceneri alla malta. E’ stato un gioco da ragazzi. E ora… Ora ho la soddisfazione e il piacere di calpestarlo ogni giorno. E’ sotto i miei piedi, ogni volta che ne ho voglia. Ora è lui il mio zerbino svedese. Te l’avevo detto che avrei trovato il modo di saldare quel credito, no?”

“E’… è diabolico!” Farfugliò Shila incredula, con le gambe rannicchiate sotto al culo. Sedute, una accanto all’altra, si fissarono negli occhi, senza dire altro, lasciando che il tempo stemperasse le emozioni e le facesse depositare. Così come si usa dopo aver scaraffato una bottiglia di vino buono.

Piano-piano la tensione si sciolse, i volti si addolcirono e un lieve sorriso fece capolino sulle loro labbra. Il riso scoppiò improvviso, incontrollato, fragoroso e liberatorio. Risero a lungo, tanto da farsi venire le lacrime agli occhi.

“Ah, buon Dio. Tu sei matta da legare! Posso usare il bagno?”

Chiese Shila, portandosi le mani ai capelli per raccoglierli.

“Come no! Vicino all’entrata, a destra”.

“Anche qui! Ma la tua è una mania!”

Esclamò Shila, afferrando la maniglia della porta.

“Che cosa?”

“Uno zerbino svedese sulla soglia del bagno. Onestamente mi pare eccessivo!”

“Ahh, quello. E’ mia suocera”.

Shila svenne di nuovo. Quando si riprese, Lisetta si premurò di rassicurarla. In casa, di zerbini svedesi, non ce n’erano altri.

Tornarono alla loro cena e la serata proseguì piacevolmente.

Al momento del dolce, Shila stappò lo champagne e propose un brindisi.

“A che cosa?” Chiese Lisetta alzando il calice.

“Alla tua nuova vita, ovvio. Sei rinata!”

“Alla mia, allora. Ma anche alla tua. Sbaglio o dovevi dirmi qualcosa? Parlavi di una sorpresa”.

“Oh, sì. Veramente non so se lo è. OK! Facciamola breve.

La moglie del pollo ha scoperto la tresca”.

“Nespole! Com’è successo?”

“Un classico. Una busta gialla piena di scontrini e un paio di foto. Un anonimo delatore le ha recapitato il resoconto delle ultime spese sostenute. Quelle del parrucchiere, del negozio di scarpe, dell’Handy’s store e così via. E’ risalita a me con una certa facilità e me la sono ritrovata davanti alla porta, prove alla mano”.

“Oh mamma! Che putiferio è scoppiato?”

“Nessun putiferio. Devo ammetterlo, lo stronzo ha sposato una gran donna. Fulvia, così si chiama, non mi ha aggredito. Si è presentata dicendomi che l’appartamento che occupavo era suo. Ciò premesso ha preso una sedia e mi ha chiesto un caffè. Ha preteso di sapere tutto e poi ha pianificato la sua vendetta, con invidiabile freddezza. Credo sospettasse già da tempo. Ovvio che non è stata una passeggiata, ma l’importante è che ho mantenuto il posto. Ti chiederai perché. Certamente perché non lo ama più e ormai, io, dopo l’arrivo della caraibica, non rappresento più una minaccia. Non le andava di rovinarmi. Forse perché, nonostante tutto, so fare bene il mio lavoro. Perché ci siamo riconosciute entrambe tradite da lui. Ma principalmente, per vendicarsi del porco in un modo che io non sarei mai arrivata a concepire. E forse nemmeno tu. Pensa! Cosa c’è di peggio per un fetente smascherato che trovarsi di fronte, ogni benedetto giorno, la causa delle sue disgrazie e doverla pure stipendiare? Sarò il suo incubo. Con la ballerina di lambada, per quanto ne so, non è stata così comprensiva. E’ già in viaggio per Cuba con gli occhiali da sole. Ha un occhio nero”.

“E cos’ha preteso in cambio?”

“L’appartamento, ovvio. Mi ha concesso il tempo necessario per trovare una nuova sistemazione. A conti fatti mi pare il minimo”.

“Non sei curiosa di conoscere il nome del delatore?”

“Se frughi nella mia borsetta ci trovi la sua carta d’identità. Per me era venuto il tempo di crescere e di mettere fine a quella pagliacciata. Vedi che mi hai portato bene! Alla fine ho ottenuto anch’io la mia piccola soddisfazione, non credi?”

Concluse Shila offrendo il bicchiere per rinnovare il brindisi.

“Lo sai che avevi ragione. Mi riferisco al nostro primo incontro. Forse abbiamo poco da condividere, ma molto da offrirci”.

“Che intendi?”

Chiese Shila riempiendo i bicchieri.

“Dico solo che tu hai un lavoro e io ho una casa. Per il momento potremmo unire le nostre forze. Pensavo… Pensavo che potrei ospitarti. Se non hai già altre proposte, ovvio”.

“Veramente ci speravo. Se non ti reco disturbo”.

“Ci mancherebbe. Ora come ora non saprei in che altro modo ringraziarti per tutto quello che hai fatto per me. Ci facciamo un caffè?”

Shila annuì e si propose di sparecchiare. Il caffè lo sorbirono sedute sul sofà, una di fronte all’altra, con le gambe raccolte di traverso e il vassoio fra loro. Forse l’ora tarda, forse la serenità di quel momento condiviso o forse l’aroma del caffè. Certo è che l’aria circostante si fece densa del loro fresco profumo di donne, pregna di sensazioni nuove che inducevano a lasciare da parte le parole, per dare voce agli sguardi. Quell’attesa spaventò Lisetta che, dopo un momento di smarrimento, si alzò in piedi.

“Lo fai solo per riconoscenza?” Chiese Shila trattenendola per la mano.

“N-no. Che dici! Mi fa piacere saperti qui con me, per casa”. (scappando con gli occhi)

“E dove… dove dormirò?” (alzandosi a sua volta)

Lisetta, imbarazzata e perplessa, non seppe rispondere. In verità non volle rispondere. Shila la tirò a se, e a quel punto spazio e tempo si fusero in una sorta di bolla sorda e ovattata, dove ognuna di loro percepiva distintamente il respiro dell’altra. La fragranza fruttata del rossetto alitato accelerò il battito dei cuori e avvicinò le loro labbra. Fu un bacio dolce. In principio appena trattenuto, poi schiuso alla voluttà delle lingue. Questa volta Lisetta non si sottrasse e le mani si sciolsero, per tornare a stringersi in un tenerissimo abbraccio.

Riaprì gli occhi frastornata.

“Che cos’è questo?”

Chiese con un filo di voce.

“Quel che deve essere. Che non puoi impedirti di vivere. Che non si può trattenere oltre”.

Rispose Shila, sfiorandole il volto con il palmo della mano.

“E dove… dove ci condurrà questa follia?”

“Ha importanza saperlo? E’ un viaggio, non una meta.

In quanto alla follia… E’ la follia che scuote il mondo. Ed è femmina”.

“Sì, ma… che forma prenderà?”

“Quella che dovrà avere! Perché vuoi per forza dare peso al cuore e misura al respiro? Abbandonati e godila quest’avventura nuova. E’ la vita che si regala a te in una veste diversa”.

“Voglio solo sapere cos’è?”

“E’ solo quello di cui abbiamo bisogno ora. Ti spaventa?”

“Sì. Non l’ho cercato”.

“E infatti non l’abbiamo cercato. E’ capitato. E questo basta a dargli un senso”.

“Non so. E’ tutto così… alla mia età una decisione sbagliata è…”

“Non esistono decisioni giuste o sbagliate, ma solo decisioni o non decisioni. E tu sai di aver già scelto”.

“E se finisce?”

“E se anche fosse? Per adesso, è solo la nostra pelle che esige carezze nuove e diverse”.

“Ma…”

“Shsss. Adesso basta”. Disse Shila, facendole scivolare la camicetta sulle spalle. L’amore saffico è fatto di fruscii, di scarpe scalzate, di respiri spezzati e sommesse pulsioni. Non ha voce l’amore delle donne. Non ha occhi. E’ solo acqua e pelle nel buio. Magico, alchemico, complice.

La notte più bella è quella che si coglie nella dolce nudità di un abbraccio e che si dissipa piano-piano nell’aroma forte del caffè. Shila, con gli occhi ancora chiusi, lo respirò a fondo e sorrise. Allungò le mani sul letto e cercò il calore dell’amante.

Non lo trovò. A quel punto, scivolò fuori dalle lenzuola e raggiunse la cucina, incurante della sua conturbante nudità. Lisetta era già seduta, avvolta in un candido accappatoio di spugna.

La stava aspettando con la tazza di caffè bollente fra le mani.

“Sono appena le otto ed è domenica. Che ci fai già alzata?”

Chiese Shila, versandosi il caffè.

“Il fatto è che non ho proprio dormito. E come avrei potuto? Fino a ieri avevo solo una vaga idea di dove fosse il punto G, figurati se immaginavo dov’erano imboscati tutti gli altri! Per non dire di quel massaggio dietro le ginocchia, poi!… In bagno c’è un accappatoio per te”.

“Uhm, grazie. Magari dopo la doccia. Adoro girare nuda per casa. E adoro la tua ironia, ma… Perché non hai chiuso occhio? Veramente”.

Insistette, scostando la sedia per accomodarsi.

“E’ da quando ti conosco che non dormo più. Stanotte ti ho guardata. Lo sai? Quando sogni sorridi. Ma non ti da fastidio star seduta sulla paglia a chiappe nude?”

“Un po’. Cosa sono quei fogli?”

“Sono qui dalle sei. Desideravo accarezzarti, ma temevo di svegliarti. Così sono venuta in cucina e ho scritto. Una volta, lo facevo spesso. Quando ero felice. Mi divertivo a mettere insieme le parole per come mi venivano. Sono trascorsi più di venti anni dall’ultima volta”.

“Allora devo dedurre che sei felice?”

“In un modo che non sospettavo. Diverso. Comunque sì. Sono felice”.

“E’ diverso e nuovo anche per me. Posso?”

Chiese Shila, indicando il foglio.

“E’ per te”.

Rispose Lisetta, porgendoglielo.

La risacca del sonno

ruba agli occhi

i contorni indefiniti di un sogno vivo

e riempie di cera gli spazi del dolore.

Eppure mi sono svegliata

amando la vita

con l’odore del muschio

e dell’erba selvatica sulla pelle.

Ho allungato le braccia

sul bianco prato della notte

a cercare

il calore di un amore capitato

il delicato respiro dell’amore asperso.

Oggi.

Oggi è forse

Oggi è una bugia.

E intanto i fiordalisi occhieggiano

gocce di cielo.

Macchiano la pelle,

tingono di blu quel che resta della paura,

dell’evanescente traccia della nostra acqua sul candido lino.

“Minimo dovrò smettere di fumare. Grazie”.

Shila seppe dire solo questo, ma aveva gli occhi lucidi.

Poggiò la fronte contro quella dell’amica, come fanno i gatti quando cercano le coccole, e la giornata cominciò.

Qualche tempo dopo Shila e Lisetta, tirandosi appresso i cani, ritornarono al parco della Fontanella. Giunte all’ingresso, provarono una certa emozione. Per loro, quel posto, era il principio di tutto. Occuparono la panchina illuminata, liberarono i cani e parlarono del loro futuro. La più preoccupata era Lisetta. Ripetizioni di greco e traduzioni di latino potevano andare bene per arrotondare, ma non garantivano molto di più.

Anche se Shila insisteva nel dire che il suo stipendio bastava per tirare a avanti in due, Lisetta si ostinava a voler trovare per forza un’occupazione che le restituisse sicurezza e autostima.

Stavano per lasciare il parco quando si accorsero che i cani erano diventati tre.

“E di chi è questa bella volpina?”

Chiese Shila, guardandosi attorno.

“E’ mia. Si chiama Molly”.

Rispose una voce avvilita e rotta dal pianto che se stava in disparte, con la schiena appoggiata al lampione. Era una donna giovanissima, eppure stanca, avvizzita, umiliata, visibilmente affranta, che nell’oscurità della notte cercava un po’ di sollievo alle sue sofferenze. Sicuramente c’era di mezzo un uomo. Shila e Lisetta si scambiarono un’occhiata d’intesa. La fecero accomodare sulla panchina e, fatte le debite presentazioni, la convinsero a liberarsi della pena che l’affliggeva. Un film già visto. Una vita già patita.

Lei, lui, l’altra, il nulla in mezzo.

“Dio, se lo odio! Quel bastardo mi ha messo sotto naftalina, come un pullover passato di moda. E per chi? Per un manico di scopa con le tette sintetiche, due pneumatici al posto delle labbra, una tastiera di denti immacolati e una valle dell’eco fra le orecchie. Un’aliena perennemente abbronzata e priva di cellulite, concepita in palestra. Come posso competere con quella cyclette del sesso? Ma non è con lei che ce l’ho. Fa la sola cosa che il suo cervello primordiale le consente. E’ col turista della gnocca dopata che ce l’ho! Trovassi qualcuno che me ne liberi… lo pagherei! Sul serio. Lo pagherei”.

Su quell’ultima affermazione Lisetta tirò le orecchie.

“Non per farmi gli affari tuoi, ma… avete una casa o vivete in appartamento?”

“Una casa? Magari. Il megalomane ha preteso l’attico. Tu non sai cosa vuol dire portare la spesa su, al quarto piano, quando l’ascensore è occupato o momentaneamente guasto”.

“Quarto piano… ascensore guasto… è fatta!” Disse Lisetta, illuminandosi.

“Fatta, cosa?”

Chiesero le altre due all’unisono.

“Shila. Forse ho un lavoro. E tu… (rivolta alla donna) Hai mai pensato di farti uno zerbino svedese?”