I racconti del Premio letterario Energheia

La staffetta_Roberta Pieraccioli, Massa Marittima(GR)

_Racconto finalista diciannovesima edizione Premio Energheia 2013.

 

– Anita, corri a vedere!

La voce di Giuseppe arrivava dal fondo delle scale. La ragazzina si affacciò al pianerottolo:

– Vieni, presto! -, suo fratello tutto eccitato le faceva cenno con le mani.

Scese, velocissima, le scale e uscì dal portone: Giuseppe teneva per il manubrio una vecchia bicicletta.

– Bellissima! – Esclamò ammirata. – Dove l’hai presa?

– L’ho comprata! Sono mesi che risparmio sulla paga e faccio la corte a Nedo, uno dell’avanzamento alla miniera di Capanne. È in pensione, la bicicletta non gli serve più per andare al lavoro. Ma non me la voleva vendere. L’ha comprata di seconda mano, con tanti sacrifici nel ‘34, esattamente dieci anni fa. Alla fine l’ho convinto. Mi ascolti?

Anita era rimasta assorta e accarezzava il manubrio, il sellino scucito, il fanale arrugginito. Alzò gli occhi e li fissò su quelli del fratello: – Mi insegni?

– Stai scherzando? Prima di tutto questa è una bicicletta da uomo. Secondo, le donne per bene in bicicletta ci vanno sedute in canna, con i mariti. E per finire, io ci vado al lavoro, in miniera con questa bicicletta, non a fare le giratine. Quindi, stacci lontana!

Lei mise su una faccia imbronciata e fece l’atto di andarsene. Giuseppe la prese per un braccio: – Dai, sorellina, ti porterò io a fare qualche giro.

Poi inforcò la bicicletta e imboccò, a rotta di collo, la strada che dal podere scendeva verso il piccolo borgo di Valpiana. Andava via così veloce, che sembrava ci fosse nato, su quelle due ruote. Anita lo seguì con lo sguardo, finché non scomparve dietro la prima curva. Provava una certa invidia: ai maschi era permesso tutto, andavano dove volevano e facevano quello che volevano; alle ragazze, invece non era permesso nulla, guai se facevano questo, guai se facevano quest’altro, per qualunque cosa c’era sempre la minaccia che poi, nessuno, se le sposava. Sua madre glielo ricordava continuamente. Che noia! Sarebbe stato meglio nascere maschio.

“Prima o poi, un giro su quella bicicletta lo faccio!” pensò, scrollando le spalle. “Che m’importa se non mi sposa nessuno? Vorrà dire che baderò solo a me stessa!”

Risalì le scale e tornò alle sue faccende. Tra poco sarebbe stata ora di pranzo e tutta la famiglia sarebbe tornata dai campi: a lei era toccata l’incombenza di occuparsi della casa e di preparare da mangiare per tutti, ma in questo modo si era scansata la fatica di lavorare la terra o di parare le pecore. Il mestiere di contadina proprio non le piaceva, preferiva stare ai fornelli e sembrava proprio che ci fosse portata: da quando cucinava lei, gli uomini a giornata non si lamentavano più.      Forse, anche, perché era piacevole vedersi intorno questa ragazzina che, di giorno in giorno, dall’essere tutta pelle e ossa, si riempiva di curve e diventava sempre più carina.

L’occasione, per mettere le mani sulla bicicletta, arrivò presto. Quando faceva il turno di notte in miniera, Giuseppe tornava all’alba, proprio mentre gli altri si alzavano per andare nei campi. S’infilava subito a letto e dormiva come un sasso, fino a pranzo. Aveva un sacco di tempo! Così una mattina prese coraggio e appena tutti furono partiti per i campi, si accertò che Giuseppe dormisse e andò nella rimessa. La bicicletta era lì, bella, lucida dopo il gran lavoro di restauro.         La portò sull’aia e provò a salire: era più difficile di quello che aveva pensato vedendo Giuseppe montare al volo e partire come un razzo. Ma Anita era caparbia. Prova e riprova, alla fine della mattinata riuscì a compiere alcuni giri dell’aia, rimanendo in sella. Era felicissima! Rimise il velocipede esattamente come l’aveva trovato e andò a preparare il pranzo.        Da allora, ogni volta che suo fratello tornava dal turno di notte, prendeva di nascosto la bicicletta e girava intorno casa, acquistando sempre più padronanza.

Una mattina, finalmente, si sentì pronta per affrontare la strada che scendeva dal podere verso Valpiana. Davanti agli occhi aveva l’immagine di Giuseppe che pedalava veloce, per la discesa, col vento che gli scompigliava i capelli: una sensazione di libertà che voleva assolutamente provare. Prese la bicicletta e fece qualche giro per scaldarsi. Poi si affacciò alla discesa e dopo un attimo di esitazione si lanciò per il pendio, col cuore che batteva all’impazzata. Arrivò in fondo senza incidenti e proseguì, ormai sicura di sé, pedalando a lungo, veloce, per sentieri secondari, tenendosi ben alla larga dal paese e dai campi, dove i suoi lavoravano. Respirava a pieni polmoni gli odori intensi che provenivano dal bosco e dai campi di quell’inizio di giugno. Con rammarico, a un certo punto, dovette tornare a casa per preparare il pranzo e svegliare suo fratello.

Quel primo assaggio di libertà proibita la fece sentire grande. Da allora, quando era sicura di non essere vista, prendeva la bici, scendeva dalla collina del podere e prendeva ogni volta un sentiero diverso, eccitata e felice di quelle ore di libertà che spezzavano la monotonia di giorni sempre uguali.

 

Una mattina, però, fu scoperta. Aveva appena inforcato la bicicletta e stava volando, velocissima, verso Valpiana, gonna e capelli al vento. Concentrata com’era, non si accorse che, in fondo alla discesa, c’era un uomo che saliva, lentamente, verso il podere. L’avesse visto un attimo prima, avrebbe svoltato in un sentiero che infilava nel bosco, ma era troppo tardi. Mentre gli passava davanti, sfrecciando come una saetta, Anita si rese conto che quell’uomo era suo padre. Lui rimase letteralmente impietrito, vedendo sua figlia a cavallo di quel destriero di metallo.

“Ormai, il danno è fatto”, pensò la ragazzina. “Tanto vale che mi goda ancora una mezz’ora di libertà, prima di affrontare le conseguenze”.

Che ci sarebbero state, di questo era più che certa. E a quel punto, convinta che quella sarebbe stata la sua ultima uscita in bicicletta, decise di attraversare, per la prima volta, il paesino, assumendo l’aria disinvolta di una signora in calesse. Chi la vedeva passare, restava interdetto. Superò la piazzetta della chiesa e passò davanti ai lavatoi, dove le donne che lavavano i panni chiacchierando, s’interruppero al suo passaggio: – Ma quella non è la figlia di Fosco? – disse una, riconoscendola.

– Da quando va in giro in bicicletta?

– Suo padre non lo sa di certo!

– Anita, dove vai? -, chiamò un’altra.

Lei ignorò il richiamo e accelerò. Pedalava veloce, decisa ad arrivare fino al lago dell’Accesa, a qualche chilometro da lì.       Per tornare a casa, decise di fare una scorciatoia che passava dentro un bosco, folto di lecci, sughere e querce secolari, in mezzo al quale si aprivano numerose carbonaie. In inverno, di solito, era tutto un brulicare di gente al lavoro e di fumo nero, ma ora, in giugno, non c’era nessuno. La vegetazione era così fitta, che il sole non riusciva a filtrare e tutto quel buio le faceva un po’ paura. Aumentò l’andatura e si mise a cantare, per farsi coraggio. Aveva una bella voce: il prete la voleva sempre nel coro, nelle occasioni importanti, e aveva anche insistito parecchio, con suo padre, perché la mandasse a imparare canto dal maestro di Massa Marittima, ma figurarsi, lui aveva detto subito di no e non c’era stato verso di fargli cambiare idea. Tollerava a malapena che Anita andasse a cantare in chiesa, repubblicano mangiapreti com’era. Non era un caso, se lei si chiamava Anita e suo fratello Giuseppe, proprio come i due Garibaldi, moglie e marito!

Mentre pedalava veloce, canticchiando, in mezzo alla strada, le si parò, davanti, all’improvviso un gruppetto di quattro uomini armati. Sobbalzò per lo spavento e quasi cadde dalla bici.

– Guarda, guarda -, fece uno di loro avvicinandosi e ridendo. – Una ragazzina! Ci hai fatto prendere una paura!

– Voi a me, semmai! -, replicò lei riprendendosi.

– Che ci fai nel bosco, da sola?

– I fatti miei -, ribatté facendo la sfrontata, per non mostrarsi impaurita. – Chi siete? Non vi ho mai visto da queste parti.

– Come no? -, replicò uno di loro. – Sono Omero, prima della guerra venivo a ballare alla fattoria. Sei Anita, di Fosco. Sei cresciuta! -, concluse con tono compiaciuto. – Mi sa che ora hai l’età per ballare anche te…

– Non ti riconosco -, sentenziò lei, dopo averlo squadrato da capo a piedi.

– È passato un po’ di tempo. Sono partito militare nel ‘42, c’era già la guerra. E a settembre dell’anno scorso, dopo l’armistizio, sono scappato.

– Siamo tutti scappati -, intervenne un altro. – Io sono alla macchia perché non voglio andare con i repubblichini. Se i tedeschi mi prendono, finisco in un campo di concentramento. O al muro!

– Senti un po’, bimba -, interruppe un altro. – Visto che vai in giro in bicicletta, faresti qualche cosa per noi?

– Io? Qualcosa per voi?

– Ascolta, noi si sta nascosti laggiù -, e indicò, vagamente, verso la sua destra. – Qualche contadino ci aiuta, ma non possiamo pressarli troppo. Finisce che qualcuno ci denuncia.

– E poi soprattutto -, continuò un altro, – chi ci aiuta rischia: i tedeschi non ci pensano due volte a fucilare la gente. Hai sentito cos’è successo, qualche giorno fa, alla miniera di Niccioleta?

– Sì, l’ha raccontato mio fratello, lui lavora a Capanne. Hanno portato via tanti minatori e li hanno ammazzati tutti!

– Insomma -, proseguì Omero, – mi sembri una bimba sveglia: potresti portarci qualcosa da mangiare e consegnare dei messaggi da parte nostra a …

– Ma io non posso! -, interruppe Anita. – La bicicletta è di mio fratello e ora che mio padre mi ha scoperto, appena torno a casa, ci mandano anche me nei campi di concentramento!

I quattro giovani scoppiarono a ridere.

– Se conosco un po’ il tu’ babbo -, esclamò Omero, sempre ridendo, – sono sicuro che sarebbe contento se tu ci dessi una mano.

– No che non lo conosci! Se sa che sono qui da sola, a parlare con voi, mi chiude in camera a chiave per una settimana! Fatemi andare -, concluse inforcando la bici.

Omero afferrò il manubrio della bicicletta, guardandola negli occhi: – Senti, Anita, noi s’ha bisogno di aiuto. Si sta aspettando che ci mandino a chiamare le bande partigiane di Massa. Ci s’ha un contatto, ma non s’è ancora saputo nulla. I tedeschi, in questi giorni, stanno facendo controlli a raffica, sentono la terra che gli frana sotto i piedi: gli Americani hanno passato Grosseto.

– Se c’andassi te a parlare col nostro contatto? -, continuò un altro. – Chi vuoi che guardi quello che fa una bimba?

– Per quanto, invece -, aggiunse Omero, strizzandole un occhio, – saresti proprio una bimba da guardare…

Anita diventò rossa e fece l’atto di scappare.

– Sai leggere? -, chiese ancora Omero, tenendo sempre il manubrio.

– Certo, che credi? Sono una femmina, ma a scuola ci sono andata anch’io!

– Prendi questo biglietto –, le allungò un pezzetto di carta. – C’è il nome e l’indirizzo di chi ci deve mettere in contatto con i partigiani. Sta a Massa, dopo la Porta. Ma stai attenta: è persona sospetta e la tengono d’occhio.

Anita prese il foglietto, lo rigirò tra le mani incerta. Alzò lo sguardo su quei ragazzi che la guerra aveva fatto diventare uomini. Ciò che le chiedevano era sicuramente pericoloso, ma forse Omero aveva ragione: suo padre sarebbe stato orgoglioso di lei. Lo aveva sentito parlare spesso di ciò che succedeva, lo aveva sentito parlare dei partigiani, dei fascisti, dei tedeschi, sapeva bene da che parte stava. Anche di quella strage di minatori, a Niccioleta, aveva parlato a lungo, bestemmiando, imprecando e alzando la voce, senza curarsi che lo sentissero. Infilò con decisione il biglietto nello scollo della camicetta, come aveva visto fare alle attrici del cinema.

– Ci andrò! -, disse con tono sicuro. – Ma come faccio a ritrovarvi?

– Ripassa da qui cantando, come hai fatto oggi. Ti troveremo noi.

Rimontò in sella e partì in fretta. Fece in tempo a sentire, alle sue spalle, un commento di Omero che le fece rimescolare il sangue: – Quella bimba viene su proprio bene…

Per qualche ragione, era sicura che, non si riferisse solo al coraggio che stava dimostrando.

 

Arrivò a casa che era quasi mezzogiorno. Smontò al volo dalla bici, l’appoggiò al muro, accanto alle scale e salì velocissima, per mettersi ai fornelli, come se nulla fosse. La casa era deserta. Dopo poco, sentì uno scalpiccio per le scale e il cuore si mise a batterle forte.

– Anita!

La voce imperiosa di suo padre la fece sobbalzare, benché se l’aspettasse. Si voltò adagio, cercando di impostare sulle labbra un sorriso innocente, che morì subito, vedendo l’espressione scura dell’uomo, dietro al quale si affacciò Giuseppe.

– Voglio delle spiegazioni. E che siano convincenti!

Anita abbassò la testa e respirò profondamente, per cercare le parole giuste. Riprovò, dentro di sé, la gioia del vento sul viso e tra i capelli delle lunghe pedalate di quei giorni, rivide gli occhi dei ragazzi che le avevano chiesto aiuto. Si sentì improvvisamente grande, non più ragazzina, ma donna, e pensò che in bicicletta ci sarebbe tornata: adesso non era più soltanto una questione di piacere o una sfida alle proibizioni paterne, adesso aveva una missione da compiere. E voleva portarla in fondo.

– Babbo, ecco… io… -, alzò la testa e lo guardò sicura negli occhi. – Io sono una staffetta!

La parola era forse sproporzionata, rispetto al compito richiestole, ma l’aveva sentita dire proprio a lui, a suo padre, nel suo bisbigliare con la mamma, quando parlava dei fascisti e dei partigiani, e le era salita alle labbra.

– Cosa? -, fecero insieme padre e fratello, spalancando gli occhi. – Senti, Anita -, proseguì suo padre, furioso, – se questa è una delle solite scuse per evitare la punizione sappi…

Lei lo interruppe con foga: – No, babbo, è vero! Leggi! -, e tirando fuori dalla scollatura il biglietto, raccontò quello che era capitato e quello che lei, in tutti i modi, doveva e voleva fare.

– Te, sei matta! -, commentò subito il babbo. – Ora ci vado io a parlare con quei quattro scalzacani! Mettere di mezzo una ragazzina …

– Ascolta, babbo, io lo so che sei antifascista. Lo sanno tutti. Se vedono te che vai alla macchia o, peggio, a Massa, a quell’indirizzo, lo dicono al segretario del fascio e poi…

– Che ne sai te dei fascisti e degli antifascisti? Queste sono cose che una bimba…

– Babbo, Anita ha ragione! – Giuseppe intervenne, inaspettatamente, a favore della sorella. – Non è più una bimba, li sente anche lei i discorsi e capisce benissimo: la guerra, i bombardamenti, le camionette dei tedeschi. Non puoi nascondere quello che sta succedendo. Dobbiamo fare qualcosa anche noi, bisogna aiutare quei ragazzi e mandare Anita a Massa, da quell’uomo.

– Sei impazzito? Aiutare quei ragazzi va bene, ma mandare Anita a Massa…! Guarda chi è la persona che dovrebbe metterli in contatto con i partigiani!

Fosco passò il biglietto a suo figlio, che lesse e strabuzzò gli occhi: – Anita, il babbo ha ragione! È troppo pericoloso. Hai letto? È Norma il contatto di quei ragazzi, Norma, quella della trattoria …

– Lo sanno tutti che aiuta i partigiani, la tengono sotto controllo. Non ci vai, è troppo pericoloso -, concluse il padre.

– Norma è quella che porta i pantaloni, come suo marito… – s’illuminò Anita – L’ho vista in piazza, a Massa. Com’è bella! Sembra un’attrice del cinema.

– Non ti rendi conto dei rischi -, tagliò corto suo padre. – Ti proibisco…

– Ma babbo, ho promesso!

– Ho detto di no. Senti come si fa, invece: ora Giuseppe va al lavoro, ma domattina prendi la bici, vai a cercare quei ragazzi e gli dici di venire, qui, domani notte. Per ora li mettiamo in cantina, c’è un nascondiglio sicuro, dietro le botti, una stanza che non si vede: è impossibile che li trovino lì dentro. Poi vediamo.

 

La mattina dopo, mentre tutti si preparavano per andare nei campi, Fosco chiamò Anita da parte e le fece un mucchio di raccomandazioni.

– Babbo, non ti preoccupare: ormai sono abbastanza grande!

– Macché grande, hai solo quindici anni.

– Eh, a quindici anni la mamma era già fidanzata con te.

– Erano altri tempi, si cresceva prima –, si rabbuiò lui.

– Ma non c’era la guerra, babbo –, replicò lei, in tono accorato. Lui rifletté qualche istante, poi annuì: – Hai ragione. Voglio solo che tu stia attenta, sono momenti brutti.

Esitò ancora, poi aggiunse: – Comunque… sappi che sono fiero di te!

E le pose con delicatezza una mano sulla guancia, un gesto che fece salire le lacrime agli occhi di Anita, poco abituata a quelle effusioni, da parte di suo padre.

Appena lui uscì, la ragazzina rassettò svelta la cucina e preparò un cestino con pane, formaggio, verdura e frutta fresca. Poi entrò in camera di suo fratello con un’idea: voleva mettere anche lei i pantaloni, come Norma, la ragazza di Massa, per calarsi meglio nella parte. Ne prese un paio da lavoro e li indossò, infilandoci dentro la camicetta e stringendo bene la cintura in vita. Si guardò allo specchio dell’armadio: l’immagine che vide le piacque molto, non era più la ragazzina di campagna, ma sembrava quasi un’attrice del cinema. Si mise anche un berretto: vestita in quel modo, nemmeno suo padre l’avrebbe riconosciuta! E comunque – si disse per darsi un’ulteriore rassicurazione – in bicicletta sarebbe stata più comoda senza la gonna, che si alzava ad ogni folata di vento e che rischiava di entrare nei raggi delle ruote. Anche nell’abbigliamento i maschi erano più fortunati!

Scese la strada del podere e prese il sentiero verso il bosco, cominciando a cantare, come il giorno prima. E, come il giorno prima, dal bosco uscirono i ragazzi, col fucile spianato.

– Scendi dalla bicicletta e alza le mani – le intimò Omero.

– Stupido, sono io -, ribatté Anita, levandosi il berretto e liberando i lunghi capelli chiari.

– Che ci fai conciata così? -, domandò lui sorpreso.

– Mi sono travestita per non farmi riconoscere -, replicò lei piccata.

I quattro scoppiarono a ridere:

– Ci sei riuscita bene! Manca poco ti si sparava.

– Vi ho portato qualcosa da mangiare -. Anita staccò il cestino dalla bicicletta e lo porse a Omero. I ragazzi ci si tuffarono dentro affamatissimi.

– Sentite -, disse mentre mangiavano, – ho detto tutto a mio padre …

Omero la guardò interdetto: – Sei impazzita?

– Mio padre vi può nascondere in un posto sicuro, fino a che non vi dicono dove dovete andare. Venite stanotte al podere: vi lascerà aperta la porta della cantina.

Spiegò, con i dettagli necessari, quale era il posto preciso dove dovevano nascondersi.

– Appena possibile andrò a Massa -, concluse. – Mio padre non vuole, ma vedrete che lo convincerò.

Riprese il suo cesto, rimontò in bicicletta e fece per partire, ma Omero la bloccò, prendendole il braccio: – Sei una ragazza coraggiosa, Anita – disse guardandola negli occhi -. Grazie, da tutti noi.

Lei abbassò lo sguardo e fuggì via, senza riuscire a rispondere nulla per l’emozione.

 

Dopo pranzo, Anita rimase sola in casa, come sempre. Continuava a pensare a Norma, la ragazza che aiutava i partigiani. Doveva andare a cercarla: lei era una vera staffetta, voleva incontrarla, parlarle di quei ragazzi. Cercò il biglietto con il nome e l’indirizzo e lo infilò nel reggiseno. La strada era tanta da Valpiana a Massa, e per di più, tutta in salita, ma calcolò che pedalando veloce, sarebbe tornata prima del rientro dei suoi dai campi. Ormai era ben allenata e le sue gambe l’avrebbero portata in capo al mondo. Non indossò i pantaloni, perché Norma non pensasse che la scimmiottasse.      Sistemò la gonna, in modo che non le impedisse la pedalata, e partì.

Mentre imboccava la prima salita, ai piedi del colle roccioso di Massa Marittima, quasi scivolò dal sellino per la sorpresa: dall’incrocio della strada, che veniva dal lago, si profilava una lunga colonna di carri armati che si dirigevano verso di lei. Spalancò gli occhi, e l’istante di paura si trasformò in euforia: non erano i tedeschi, ma gli alleati! Quel pensiero le infiammò il petto e le gambe, si sollevò sul sellino e prese a pedalare con forza, salendo su per la salita, tornante dopo tornante, come un ciclista in gara. La gonna si sollevava, la faccia era rossa per lo sforzo, e quasi era senza fiato quando raggiunse la piazza del Duomo, ma ebbe comunque l’energia di urlare: – Gli Americani, arrivano gli Americani!

Dalle finestre si affacciarono delle donne, Anita le sentì gridare, mentre continuava a pedalare, lasciandosi alle spalle la piazza per imboccare il corso, dove strillò a pieni polmoni: – Gli Americani, arrivano gli Americani!

Dalla porta di una bottega si affacciò un uomo, con un camice nero addosso, che le gridò: – Fermati, bimba, che hai detto?

Anita si voltò e i capelli le coprirono il viso, mentre buttava fuori d’un fiato: – Stanno arrivando gli alleati! Li ho visti salire con i carri armati. Tra poco saranno in piazza.

Lui rientrò, svelto, in bottega, prese la macchina fotografica e uscì di corsa, appena in tempo per immortalare il primo carro armato americano che entrava in città, passando davanti alla fonte vecchia. Erano le tre del pomeriggio del 24 giugno 1944. Anita girò ancora nei vicoli verso la trattoria, per cercare Norma, ma non la trovò. La gente si stava riversando per strada e le campane presero a suonare a festa. La ragazzina girò la bicicletta per tornare in piazza. Le sembrò di vedere un’ombra che scivolava via, su per il vicolo che riportava al Duomo.

– Norma! -, chiamò, ma la figura era già sparita.

Soltanto qualche giorno dopo, Anita seppe che la ragazza con i pantaloni era stata uccisa dai tedeschi, la notte prima.