I racconti del Premio letterario Energheia

Attraverso la notte_Lucia Ferrante_Novate Milanese(MI)

 _Racconto finalista ventesima edizione Premio Energheia 2014.

 cittàMi alzo dal letto, prendo la coperta e me la avvolgo intorno al corpo.

Vado a sedermi per terra, in un angolo, accoccolata sulle gambe e osservo la stanza. La luce della luna la illumina tutta, tingendola di una luce azzurrina che sfiora ogni angolo col suo velo. Le ombre dei mobili si allungano sul pavimento. La grande macchia bianca del letto spicca, le lenzuola scomposte, il cuscino di traverso: unica presenza umana la sagoma di Giovanni che dorme profondamente, ignaro del fatto che io mi sia alzata, anzi del tutto inconsapevole di qualunque cosa stia succedendo attorno a lui. Ha un sonno pesante e il suo respiro è regolare e leggermente sibilante.

Sento nel profondo dell’anima quel senso di vago e di solitudine che mi fa compagnia da qualche giorno, anche se davanti agli occhi continuano a scorrere visioni di volti e di situazioni passate, ma sempre ben presenti nella mia mente.

Fuori posso udire il vento che fischia tra gli alberi, le persiane cigolano e in lontananza una porta sbatte: è l’inizio d’autunno, ma già si sente nell’aria, soprattutto di notte, qualche tocco di freddo che prelude all’inverno.

Non vedrò la fine di questa meravigliosa stagione, piena di colori e di scricchiolio di foglie secche sotto le scarpe: la mia condanna è stata pronunciata una settimana fa dal dottor Gentile.

Che paradosso: da una persona con un cognome simile non ti aspetteresti mai una brutta notizia. E invece ha dovuto darmela, per forza e non aveva neppure il coraggio di guardarmi negli occhi. Non gliene faccio una colpa, è ovvio, e poi comunque me l’aspettavo. Il mio corpo mi parlava e mi diceva che qualcosa di strano stava accadendo, ma io fingevo di non sentire.

Come quando c’è un rumore forte che ti dà fastidio e tu cerchi di non pensarci, di focalizzare la tua attenzione su qualcosa d’altro per non ascoltarlo: ecco, io facevo così, mi concentravo con tutte le forze sulla quotidianità, sul mio lavoro, sul mio rapporto con Giovanni, così complicato a volte ma così pieno e coinvolgente, sul nostro desiderio di avere presto un bambino (anche se non ci eravamo ancora messi all’opera!).  Non potevo permettermi neppure di immaginare ciò che stava accadendo.

E quindi mentivo a me stessa spudoratamente, immaginando di non sentire le fitte che mi colpivano il basso ventre, cercavo di ignorare che spesso avvertivo un gonfiore addominale che non avevo mai avuto, facevo di tutto per persuadermi che quelle perdite tra un ciclo e l’altro non nascondessero qualcosa di preoccupante. Sono andata avanti così per mesi e, quando qualcuno mi diceva che stavo bene perché ero dimagrita parecchio, me ne facevo quasi un vanto.

No, non ne ho mai parlato a Giovanni e adesso mi sto chiedendo perché io l’abbia fatto, ma non sono capace di trovare una motivazione valida: forse perché è sempre così preso dal suo lavoro, è così spesso lontano, viaggia molto e questo lo distrae un pochino da noi, da me…non si è mai accorto neppure che ho perso qualche chilo, non ci ha fatto caso. Non volevo preoccuparlo, ecco, ho sempre fatto di tutto per proteggerlo da ogni cosa lo potesse in qualche maniera disturbare.

La colpa è solo mia o anche lui ci ha messo del suo per evitare di crescere troppo? Tanto c’ero io a sostenerlo. Non lo so, sono certa del suo amore ma anche del fatto che è molto distratto, lo è sempre stato e non fa attenzione ai dettagli.

Dettagli: si può chiamare dettaglio il fatto che mi sia stato diagnosticato un tumore alle ovaie, di quelli che non lasciano scampo? Anche perché troppo tardi ho fatto dei controlli e a questo punto non c’è più nulla da fare. La diagnosi è stata chiarissima e spietata: il tumore ha già mandato le sue maledette metastasi e ormai ne sono invasa.

Due mesi, mi restano  due mesi e non saranno certo belli né, tantomeno, facili. Non ci sono cure possibili, tutto sarebbe inutile, a questo punto,  il tumore è uno dei più cattivi e aggressivi che ci sia e non esiste  alcuna terapia in grado di debellarlo. Insomma se ne fa un baffo, lui, di chemioterapie o di farmaci vari. Ha deciso di attaccare ogni cosa attaccabile e basta. Questo ha dovuto dirmi il dottor Gentile, ha cercato di farlo nel modo più delicato possibile, comunque ogni sua parola mi colpiva ugualmente come una stilettata.

Mi alzo e vado alla finestra, spio attraverso la persiana, ma ho come uno spaesamento visivo per cui riesco a scorgere pochissimo di quello che c’è fuori. Mi viene da ridere: vuoi vedere che il mostro non mi ha risparmiato neppure gli occhi?

Torno nel mio angolino, per terra: non ho più sonno e d’altronde credo che non dormirò mai più per tutto il tempo che mi rimane, se non costretta con la forza.

Devo pensare, devo organizzare al meglio i  giorni che mi restano e, soprattutto,  c’è una cosa che va assolutamente risolta. Come dare la notizia a Giovanni? E a mia madre? Quali sono le parole migliori da usare per comunicare a qualcuno che sua figlia o sua moglie sta per morire? Come dare alla mia mamma la notizia che l’incubo ricomincia? Mio padre è morto di cancro solo tre anni fa: fu un periodo orribile e straziante che lei visse in prima persona, standogli sempre accanto, giorno e notte. E poi io sono sua figlia, l’unica, amatissima figlia, il solo legame affettivo che le sia rimasto.

Forse dovrei cercare di dormire e magari in sogno troverei le parole giuste: quale  forza hanno le parole! Dicono chi siamo, cosa vogliamo e dove stiamo andando: in questo caso, però, devo trovare quelle che spieghino nel modo meno doloroso possibile che non ho più vita davanti.

Stranamente sono calma mentre penso a tutto questo, non mi sento triste né addolorata: forse sono solo molto, ma molto arrabbiata. Ho appena compiuto trentadue anni, credevo di avere dinnanzi ancora un’ intera esistenza e invece…invece mi restano appena due mesi, sessanta giorni circa, parte dei quali non potrò neppure viverli perché probabilmente sarò costretta in un letto d’ospedale (dove non vorrei proprio andare,  se sarò in grado di decidere da sola).

Allungo un braccio fino a sfiorare il tappeto: è colorato, io conosco bene i suoi colori anche se in questo momento non riesco a scorgerli tutti. Ha una trama fitta e morbida; mi ero sempre figurata che il nostro ipotetico bambino avrebbe potuto giocare liberamente su questo tappeto. Viene dalla Turchia, è un ricordo di un bellissimo viaggio che Giovanni e io facemmo per festeggiare il nostro primo anniversario di matrimonio. La casa non era ancora arredata del tutto, mancavano un sacco di particolari e quando vedemmo quel tappeto su una bancarella di Istanbul non  riuscimmo a resistere. Fu un’impresa farlo caricare in aereo per portarlo a casa, è grande, rettangolare e abbastanza voluminoso, ma una volta arrotolato stretto stretto… ehi, ma perché adesso mi viene in mente la storia di questo tappeto? Quasi non avessi niente altro a cui pensare!

Giovanni si muove nel letto, si gira pesantemente e io sto immobile, trattengo il respiro: non voglio che si accorga che non sono accanto a lui. Si alzerebbe, mi verrebbe vicino e comincerebbe a chiedermi che ci faccio sul pavimento avvolta in una coperta come una squaw. E io non saprei come rispondergli, non riuscirei neppure a guardarlo in faccia.

Non sono pronta:  non le trovo, quelle stramaledette parole! Ma riuscirò infine a trovarle? Comincio a pensare che no, non ce la farò mai.

Fuori il vento continua a fischiare, il suo sibilo gira vorticosamente attorno alla casa: non mi è mai piaciuto il vento, mi ha sempre reso nervosa, inquieta, non vedevo l’ora che cessasse. Invece stanotte amo ascoltarne la voce, mi fa compagnia, mi fa sentire di essere ancora viva, anche se non so fino a quando.

Guarda un po’ che bella idea mi viene in  mente: potrei fare un patto col vento, potrei promettergli che potrebbe continuare a fischiare e sibilare a suo piacimento per tutto il resto della mia esistenza se la mia prospettiva di vita, in questo modo, potesse magicamente allungarsi a dismisura e permettermi di diventare anziana e poi vecchia e poi decrepita. Se in questo modo potessi cacciare il mostro che sta invadendo il mio corpo, se sparisse, come per un sortilegio, accetterei che il vento continui a fischiare, potrei persino essere contenta che piova per tutto il resto della mia vita…che sciocchezze, sto farneticando, qui siamo nel mondo reale: il vento o la pioggia fanno ciò che vogliono, vengono e vanno.

Il mostro no: lui è venuto e se ne andrà solo strettamente avvinto a me. Ce ne andremo insieme, insomma, sottobraccio come due vecchi amici.

Se ripenso a tutte le volte che in passato mi è venuta voglia di fare qualcosa di particolare! Quante volte ho rimandato, ho rinunciato, convinta com’ero che avrei avuto un sacco di tempo per fare tutto ciò che mi piaceva! Ora, col senno di poi, mi dico che non avrei dovuto, che invece sarebbe stato assai meglio cogliere tutti gli attimi che mi hanno attraversato la vita, ma tant’è, ormai è tardi: niente più mega viaggio in Australia, tanto sognato insieme a Giovanni e che ci eravamo ripromessi di fare subito prima di iniziare a provare di avere un figlio, niente più borsa di Louis Vuitton alla quale ho fatto la corte per un sacco di tempo, rinviando sempre il momento di comprarla perché costava troppo, niente più abito da sera rosso Valentino che avrei sempre voluto indossare in un’occasione speciale, tanto quell’occasione non si presenterà mai più. Niente più scuola di tango, un ballo che mi è sempre piaciuto e che avrei tanto voluto imparare a danzare.

Sto pensando a tutto questo e mi meraviglia constatare che lo faccio in modo molto naturale, senza disperazione, senza sconforto: ho accettato la mia condanna con troppa serenità e non capisco come ciò possa accadere. Sono stranamente rassegnata. Eppure mi era sempre sembrato di amare tanto la vita: forse, dopotutto, non era così? La realtà è che non mi ha mai fatto troppa paura l’idea della morte, ho sempre pensato che una volta morta non avrei avuto più consapevolezza di me e allora perché averne terrore? Quello che mi ha sempre impaurito è il pensiero di  dover provare dolore. Questo vorrei proprio evitarlo, nei limiti del possibile.

Giovanni si muove ancora nel letto, girandosi mormora qualcosa, lo fa spesso, ma non capisco mai cosa stia dicendo.

 

Non voglio ritrovarmi a faccia a faccia con lui e dirgli che tra poco tempo sarà solo, non ne ho il coraggio, non voglio essere costretta a vedere la sua espressione che muta lentamente dallo stupore al dolore, dall’incredulità alla certezza che purtroppo io gli stia dicendo soltanto la verità. E non ho nessuna voglia di guardare negli occhi mia madre e dirle che sta per diventare…allora, aspetta un attimo, se a qualcuno muore il coniuge si dice che diventa vedovo o vedova, se a un figlio muore un genitore si dice che è un orfano, ma come si chiama un genitore al quale muore un figlio? Non esiste parola adatta, forse non l’hanno ancora inventata e quindi cosa diventerà la mia mamma? Semplicemente non sarà più mamma di nessuno e basta. Ma credo che questa sia una delle condanne peggiori che possa essere inflitta a una donna.

Fuori è cessato il vento, tutto tace, forse tra poco sarà l’alba e il nuovo giorno mi troverà ancora qui, in questo angolo, avvolta in questa coperta come una donna indiana che aspetta il suo guerriero che torna dalla battaglia?

Io no, io non sto aspettando proprio nessuno, tranne, sì, tranne atroci sofferenze e poi la morte. E allora ho preso una decisione: non starò qui ferma ad attendere.

Mi alzo, la coperta sempre strettamente attorno al corpo. Ho freddo, un freddo che mi è entrato silenziosamente nelle ossa e mi fa tremare, scossa da brividi. E sento addosso una stanchezza infinita.

Voglio andarmene adesso, volando, libera e felice.

Ecco un’altra cosa che mi sarebbe sempre piaciuto fare, volare, ma non in aereo, no, quello l’ho fatto tante volte, proprio volare da sola con grandi, splendide ali.

Ma non ne sono provvista, ho solo questa coperta e so che non mi servirà a molto.

Non sono capace di affrontare tutto quel che mi aspetta, sento di non potercela fare. Per affrontare i sessanta giorni che mi attendono ci vuole troppo coraggio, tutto il coraggio che io sono sicura di non avere. Invece in questo momento mi sento impavida e senza paura. Perché non approfittarne?

So che qualcuno mi giudicherà vigliacca, altri penseranno che sono stata intrepida, ma, francamente, in questo momento sento che non me importa proprio nulla di ciò che potranno pensare. In fondo credo sia molto meglio così, no? Non mi vedranno soffrire, scopriranno il motivo per cui l’ho fatto solo dai risultati dall’autopsia, perché fanno l’autopsia ai suicidi, vero? Mi sembra di ricordare di sì.

Lo so, Giovanni non meriterebbe questo e neppure mia madre, ma io, io ho meritato ciò che mi sta per accadere? Non credo, eppure mi è piombato addosso.

Apro la finestra.

Abitiamo al settimo piano.

Fuori il vento ha smesso del tutto di soffiare, la luna è scomparsa e all’orizzonte si vede il primo lieve chiarore dell’alba.

Ho attraversato questa notte, da sola; non avrei mai pensato di riuscire a ragionare con tanta lucidità, ma lo sto facendo e non voglio perdere il coraggio che sento dentro in questo preciso momento.

Mi volto verso il letto. Vorrei salutarlo, ma forse è meglio di no.

 

Giovanni, adesso, dorme con la faccia contro il cuscino.

Anche se aprisse improvvisamente gli occhi, non vedrebbe subito il lembo della coperta che si è impigliato nel gancio della persiana e rimane lì, a penzolare nel vuoto, fermo, immobile: non c’è più vento e non ondeggia neppure.

Credo non potrebbe nemmeno udire lo schianto.

L’asfalto è troppo lontano dalla finestra.