I racconti del Premio letterario Energheia

Lo specchio, Federica Magliacane_Avellino

Racconto finalista venticinquesima edizione Premio Energheia 2019

La primavera volgeva al termine e l’estate faceva capolino, affacciandosi timidamente nell’ultimo periodo di maggio.

A Riva del Garda le giornate erano chiare ma fresche come al solito, la brezza era, però, piacevole e tutti avevano voglia di viversela: famiglie che si divertivano e sorridevano spensierate mentre fissavano l’orizzonte chiaro del lago, bambini che correvano allegramente chiedendo gelati e passeggiate infinite per andare al parco, coppie che vedevano il loro amore riflesso nell’acqua cristallina dello specchio naturale intorno al quale la città era costruita. Ogni persona di Riva era avvolta da una felicità immensa: era come se l’aria stessa portasse allegria a chiunque la respirasse. Anche coloro che lavoravano erano avvolti da questa spensieratezza, nonostante le fatiche quotidiane, visto che vivevano nella consapevolezza che avrebbero presto abbandonato quelle quattro mura nelle quali erano stati rinchiusi per un anno intero. Nel Comando dei Carabinieri del paese, però, non tutti sentivano quest’allegria: l’ufficiale Antonio Tomassi stava per ricevere il colpo di grazia per concludere al peggio il suo anno lavorativo. Chiuso nel suo ufficio fissava il muro bianco il cui intonaco cominciava a cadere a pezzi. Il suo flusso di pensieri funesti venne interrotto per un secondo dal brusco rumore delle nocche del suo collega che battevano impetuosamente contro la porta della stanza. “Entri, entri” disse Antonio con aria scoraggiata, lasciando cadere la testa all’indietro.

“Buongiorno Tenente” disse la figura comparsa sulla soglia: una figura esile e di media altezza in borghese.

“Appuntato Rigoni, mi dica”

“Come va quest’oggi, Comandante? Novità?” disse appoggiandosi allo stipite. “Meglio non parlarne, siamo sull’orlo del fallimento…”

“Com’è anche lontanamente possibile?”

“Appuntato, su, non scherzi: ci sono stati sottratti cinque casi, altri cinque sono stati affidati ad altri Comandi e non so quanti siano falliti…era inevitabile”

“Già… capisco. Tenente si tiri su di morale e vada a fare una passeggiata: credo la aiuterà a tranquillizzarsi”

“Non ne ho voglia, preferisco rimanere qui. Lei vada, appuntato. Si goda l’inizio dell’estate Rigoni e mi saluti molto sua moglie e i bambini”.

“Certo Comandante lo farò senz’altro, grazie”.

Detto questo, l’appuntato chiuse delicatamente la porta muovendo un blocco d’aria che rinfrescò l’ufficiale ancora sulla sua sedia di pelle. Continuava a fissare il muro, i crest e gli encomi appesi su di esso: non poteva credere al fatto che avrebbe dovuto abbandonare tutto ciò. Amava il suo lavoro…non capiva solo perché non riusciva a farlo come voleva. Quell’ufficio era il suo luogo felice, sicuro. Ora, invece, stava diventando la sua prigione e i muri si stringevano ogni giorno di più fin quando non lo avrebbero soffocato. Accese il computer e guardò la foto di sfondo: lui sorridente sdraiato sul prato vicino alla riva del lago con una mano che sfiorava l’acqua. Come poteva deludere quell’uomo così felice? Come poteva quella persona allegra essersi ridotta così, essere arrivata alle strette?

Antonio spense il computer velocemente perché vedere il suo sfondo lo irritava profondamente. -Come fa la gente?- si chiedeva. -Come fa ad avere una vita piena di soddisfazioni e viverla come vuole? Io sono bloccato qui dentro a fare i conti con i miei fallimenti mentre loro ridono e scherzano pensando in quale nazione andare a trascorrere le vacanze senza preoccuparsi di nulla-.

Sospirò. Lasciò cadere le braccia. Rialzò solo il braccio destro e mise la mano sotto la guancia, come per mantenersi la testa troppo pesante. La tristezza e la pressione erano diventate sensazioni insopportabili e il cuore di Antonio cominciò ad accelerare.

“Ci ho provato, non ce la faccio: devo uscire”. Si alzò bruscamente e uscì dal comando quasi correndo come se stesse cercando di scappare da ciò che c’era nella sua testa. Uscito fuori l’aria gli risultava irrespirabile anche se piacevole. Appoggiò le mani sulle ginocchia e abbassò la testa. La rialzò di scatto e si guardò intorno. Il cielo era limpidissimo e gli alti alberi sembravano un disegno fatto sull’orizzonte. Si rialzò lentamente e iniziò a camminare piano con una faccia crucciata. Molti si giravano a guardarlo e non capivano perché in mezzo a tutte le persone felici ci fosse lui così triste e preoccupato.

“Finalmente è estate!” “Quando andiamo a mare, mamma?” “Dai andiamo a casa a preparare le valigie altrimenti partiamo troppo tardi”. Antonio sentiva tutte queste cose e più ne ascoltava e più si chiedeva perché fosse uscito. Nel suo studio si curava solo dei suoi appuntati che discutevano sul calcio e nient’altro, nulla che lo facesse stare peggio di quanto già non stesse.

Doveva scappare da lì, andare da qualche parte dove fosse solo. Non capiva: gli era sempre piaciuto passeggiare a Riva… trascorreva giornate intere a camminare e camminare e ora non riusciva a fare due passi senza sentirsi soffocato. Quel paese gli aveva dato e tolto tutto. Percorrendo la riva del lago ad un certo punto si arrivava ad una piccola lingua di terra che era coperta da un albero cresciuto un po’ prima di questa. Scappò lì. Arrivò e si sedette. Aveva il fiatone come se avesse partecipato ad una maratona. Era fermo lì al centro di un cerchio creato da tutte le sue paure. Si specchiava nell’acqua e non si riconosceva più. Non aveva pace. Non riusciva a stare fermo. Urlava. Tirava a calci il terreno. Cadde in ginocchio con i gomiti a terra. Era arrivato al capolinea. Respirò. Si sdraiò rivolto verso il cielo e lo fissò: aveva bisogno di calmarsi, trovare un po’ di pace. -Alla fine riuscirò a fare qualcosa, ne sono sicuro, non è finita qui-. Pensò di tornare a casa, ma poi non trovò le forze per alzarsi e decise di restare ancora lì per qualche minuto. In fondo non ci stava così male. Sembrava andare tutto bene fin quando non si specchiò di nuovo nel lago e tutti i fallimenti risalirono a galla. “Questo caso non è più affidato a voi” “Avete fallito di nuovo” “Allora è vero tutto quello che dicono sui carabinieri”.

Rimbombavano queste parole più volte e la testa cominciava a fare male.

“Basta!” urlava. “Vi prego basta”. Cominciò a piangere dalla disperazione: si sentiva anche bipolare. Le sue paure gli ridevano in faccia e gli puntavano il dito contro. Non riusciva a stare più neanche lì. Corse, corse di nuovo ma stavolta verso casa. Voleva dormire. Far riposare il suo corpo. Nel tragitto verso casa pensò… odiava farlo, ma era inevitabile che quella vocina irritante nella sua testa parlasse e parlasse. -Alla fine- diceva -è stato un brutto colpo, ma ora inizio a pensare che non sia così grave. In un modo si risolverà… No, ma che dico. Ho perso il lavoro, ho perso la dignità: sono solo ormai.- Continuava a guardarsi intorno mentre camminava come se cercasse conforto, una faccia familiare…ma non trovava nè l’uno nè l’altra. Allora abbassò la testa per evitare di vedere la felicità altrui, che in quel momento bramava come un religioso brama il paradiso. Finalmente si trovava su quella strada, quella dannata strada che aveva percorso per più di trent’anni.

Finalmente.

Casa.

Sarebbe entrato e si sarebbe riposato ed ogni cosa sarebbe tornata tranquilla come sempre. Arrivato davanti alla porta tirò fuori le chiavi dalla tasca con la mano tremante e ci mise un po’ a trovare la chiave giusta perchè la sua mano non si decideva a stare ferma. Appena toccata la maniglia del portone di casa, però, questo si aprì. Un brivido di freddo. lacrime di sudore. -No, non è possibile- pensò.

Dai, come poteva essere ? Qualcuno in alto doveva avercela proprio a morte con lui. In quei secondi passarono intere ore ed Antonio non aveva il coraggio di spingere la porta per entrare in casa. Un sospiro: non poteva evitare ciò che si nascondeva dietro quel pezzo di legno. Aprì. La testa gli girò e si appoggiò al muro per non cadere. Quella non era più casa sua. La prima cosa che vide entrando era una scritta a caratteri cubitali sul muro color panna: “FALLITO”.

Fallito.

Ogni volta che leggeva quella parola si trovava sempre più vicino al suolo. Cominciò a guardarsi intorno e tutto era a soqquadro: cassetti svuotati, la televisione a terra, i quadri strappati, le foto dei suoi genitori a terra tra schegge di vetro. Antonio era a terra e le lacrime facevano pressione sui suoi occhi e lui ha provato a combatterle con tutte le sue forze, non riuscendoci. Cominciò a piangere come un neonato prendendo in mano la foto della mamma:”Mamma, io qui non ce la faccio da solo. In fondo hanno ragione: sono un fallito. Ti ho delusa, mamma. Perdonami.” diceva tra le lacrime. Fissò lo sguardo davanti a lui. uno sguardo piatto, morto. Si alzò. Non prese nulla, nè un giubbino, nè il marsupio, cellulare: nulla. Si alzò e uscì. Non chiuse nemmeno la porta: ormai non aveva più una casa, quella non lo era più. Ora era veramente solo. Camminò stavolta. Camminò lento. Aveva deluso se stesso, i suoi defunti genitori, non aveva nessuno accanto che lo aiutasse, non aveva più un lavoro, non aveva più una casa…e tutto in un giorno. Cosa gli era rimasto? Nulla. C’era solo un posto dove voleva andare: “lo specchio”. Sì: quella lingua di terra che entrava per qualche metro nel lago di Garda. -Forse- pensò -è il luogo più familiare in cui potrei andare adesso-. Sempre con lo sguardo vuoto e le braccia penzoloni, camminava deciso verso quel luogo a lui così caro, forse per l’ultima volta. Ad ogni passo il dolore al petto aumentava. Quel dolore… quello che provi quando sai di essere finito, senza via di scampo, solo, abbandonato, morto dentro. Sono tutti convinti che la morte corporale venga per forza prima di quella spirituale, ma se questo non accadesse? Se lo spirito morisse prima? Cosa si dovrebbe fare?

Nessuno avrebbe potuto dare una risposta a queste domande che Antonio si poneva, e lui lo sapeva bene. Cosa avrebbe fatto? Non lo sapeva ancora. Intanto andava. Camminava. Spedito. Arrivò. Si trovò davanti al solito albero. Lo guardò: i rami erano alti.

-Potrei…- pensò, ma poi scosse la testa. Se avesse dovuto porre fine a se stesso avrebbe dovuto farlo in un luogo che amava. -Perché non proprio il lago? In fondo reputo questo posto la cosa più simile ad una casa…-

Pensava fermo davanti all’albero. Quel salice non gli era mai sembrato così splendentemente triste. Se avesse spostato la tenda che i rami e le foglie creavano sarebbe stato finito: avrebbe voluto dire che aveva preso una decisione. -Che io viva o che io muoia, non ho nessuno, cosa cambierebbe?- pensava. Spostò i rami.

Avrebbe preso una pietra, delle più grandi che poteva trovare, a cui si sarebbe legato tramite un cordoncino che aveva in tasca ( non si ricordava perché lo avesse, ma “si riteneva fortunato ad averlo”). Sarebbe sceso nel lago, fino a non respirare più, fino a lasciarsi sopra il mondo che lo aveva deluso, ferito, ucciso. Chi si sarebbe accorto della sua assenza? Chi lo avrebbe pianto? I suoi colleghi? No, lo odiavano. Gli aveva tolto il lavoro. -Come biasimarli in fondo-. I suoi amici? -Che amici?- Già. Attraversò i rami del salice ed arrivò alla lingua di terra che gli indicava la strada da percorrere. Appena poté vedere la riva ebbe una visione: vide qualcosa di assurdo. Una donna. Sì, una donna. Era lì seduta con le gambe incrociate. All’inizio Antonio strizzò gli occhi. -Deve essere lo stress- pensò. Fece finta di nulla e si mise a cercare una pietra abbastanza grande per il suo scopo. Nulla lo avrebbe fermato, lo avrebbe fatto anche davanti a quella donna. Non aveva più tempo. Ispezionava la riva da un lato all’altro ormai per la quinta volta quando lei parlò: “Lo fai spesso?”

Antonio si girò. Allora era reale. “Cercare una pietra per annegarmi, intendi? No, sono abbastanza certo che sia la prima volta” e continuava la sua ricerca, un po’ incredulo. Lei lo guardava nel suo andirivieni e, dopo la risposta di lui, ribatté:” hm, divertente”. Antonio la ignorò. L’aveva trovata. Una bella pietra tra acqua e terra. Era perfetta. La prese. Finalmente. Lei ridacchiò. Cosa aveva tanto da ridere? Antonio la ignorò di nuovo e tirò fuori il cordoncino che gli riempiva la tasca. Era arrotolato su se stesso per almeno 5 o 6 giri. Lo sciolse e cominciò a metterlo attorno alla pietra. “Qui è troppo basso il lago” disse lei. “Ti ci vorrebbe un po’ per annegare”. Antonio, irritato:”Cosa te ne fa essere così certa?”

“Perché ci ho già provato”. Lui si fermò. Posò la pietra e si girò a guardarla. Sorrideva. -Strana, davvero- pensò. Si rigirò. “Ci hai provato e sei ancora qui?” disse, incredulo.

“Già: ci stava mettendo troppo. Decisi di uscire, avrei trovato un altro modo”

“Beh, questo è il tuo caso. A me non interessa quanto ci vorrà, lo farò.” disse mentre continuava a lavorare la sua pietra. Girava la corda intorno a questa e pensava a dove legarsela: polso, caviglia o collo?

“Legala al polso, ti porterà a fondo prima”

“Come?” rispose Antonio. Come aveva potuto sapere cosa voleva? Cosa stava pensando? Rifletté un po’, poi tornò a lui.

La curiosità, però, non lo lasciava in pace. Si girò a vedere quella strana donna che era ancora lì seduta a guardare l’erba. Lei alzò gli occhi per un attimo e lui riuscì a vedere il color miele dei suoi occhi. Risaltavano sui suoi capelli castano chiaro: una combinazione di colori perfetta.

“Cambiato idea?” disse.

“Io? Convintissimo” rispose Antonio, di spalle.

-Giuro, ora lo faccio- si ordinò. -No, aspetta…- urlò di nuovo nella sua mente -lei, non so come si chiama-. Si fermò. Vedendolo titubante lei proferì parola:” Il tuo nome?” Lo aveva fatto di nuovo. -Strana, davvero davvero strana-

“Antonio” “Cloe”. Non aveva mai sentito nessuno con quel nome. Era davvero carino. -Non puoi farti distrarre da un nome Antonio, lega questa corda al polso e facciamola finita- gli diceva la testa. Fece come il suo subconscio ordinava. Legò il cordoncino al polso e mise i piedi in acqua, anche se aveva le scarpe addosso. Lei si alzò. Lui notò i suoi movimenti con la coda dell’occhio ma non le diede troppa importanza. Almeno ci provò. Cloe si sedè accanto ad Antonio, si tolse le ballerine che aveva ai piedi e li mise in acqua, anche lei. Lui la guardò, serio più che mai. Lei sorrideva. Sorrideva come se avesse davvero qualcosa per cui essere felice. Antonio aveva dimenticato quella sensazione. “Non lo farai” disse lei, indicando con la testa la pietra che lui aveva sulle gambe. Lui, irritato, come ogni volta che gli si poneva davanti una sfida, rispose:”Ah no? E cosa te lo fa pensare?”

Lei tirò la testa indietro e ridacchiò:” Se io avessi voluto suicidarmi non avrei confessato la mia imminente azione ad uno sconosciuto, non credi?”

Aveva ragione, ma Antonio non l’avrebbe mai ammesso. Si limitò a guardarla con lo sguardo più infastidito che riuscì a fare. Dalla risata che uscì dalla sua bocca si rese conto, però, che non aveva funzionato. Accennò anche lui un sorriso. -Ma che fai, Antonio- diceva la sua mente. Al che tornò serio. Lei: “Perché?”

“Perché ho perso tutto, perché…” si interruppe. “Non dovrei parlartene, non ti conosco”

Lei allora sorrise dolcemente:”Hai ragione, ma non ho nulla da fare e… neanche tu. Siamo qui entrambi, come dovremmo passare il tempo?”

“A dire la verità io una cosa da fare l’avrei…”

“Visto che non inizi tu, inizio io. Prendimi le mani”

Antonio avrebbe voluto dire di no: era una sconosciuta. La guardò contrariato. Lei scosse le braccia come per dire “Dai prendile, mica mordo”

Allora lui, delicatamente, le prese i polsi.

“Alza un po’ la manica”

Sempre contrariato la alzò. Linee rosse, macchie scure, graffi. Tagli. Ustioni.

“A volte aprirti con uno sconosciuto è la cosa migliore da fare: può darti un’opinione imparziale. In fondo non siamo così sconosciuti: sappiamo già i nostri nomi -sorrise- è già un passo avanti”

Forse aveva ragione, ma non aveva forza di parlare. Lei ritirò il braccio e abbassò la manica.

“Orfana, ho vissuto con i miei nonni fino ai diciott’anni, poi sono venuta a Sirmione.” Ecco perché non l’aveva mai vista, si sarebbe ricordato di quella donna.

Diceva cose banali lei, eppure lui non riusciva a muovere le labbra per proferire una lettera.

Voleva sapere l’origine di quel male… anche se il suo non gli dava ancora pace.

“Lì avevo una casetta tutta mia, piccola, mi bastava insomma. Lavoravo da barista, per guadagnare qualcosa, sai, l’affitto. Conobbi un ragazzo: era bellissimo. Uno di quelli che ti stregano con il loro fascino. Era dolcissimo, così dolce e protettivo da picchiarmi se indossavo una gonna corta o una maglia scollata.”

Antonio sbarrò gli occhi: stava sentendo davvero quelle parole? La guardò. Stavolta la guardò davvero: era così graziosa. I capelli le scendevano leggeri sul corpo ed erano mossi dal vento.

Era così semplice che sembra banale da descrivere.

“Ti dà fastido..? La smetto? Capirei…in fondo non ci conosciamo… non so perchè… ” allora Antonio disse:” Va’ avanti… in fondo “aprirsi con uno sconosciuto è la cosa migliore che tu possa fare”

Lei sorrise. Sorrise anche lui, che era nel pieno del suo dolore, che non sopportava più nemmeno il suo stesso respiro, sorrise alla vista della sua piccola gioia. ”

Tutto ciò avvenne ai miei venticinque anni, quindi almeno cinque anni fa credo”

“Hai trent’anni?” chiese allora Antonio.

“Trentuno, tu?”

“Trentacinque”

“Pensavo meno sai… ”

“Continua Cloe”

“Tutte quelle ferite, ormai solo cicatrici, me le ha fatte lui: rompeva dei vasi quando era arrabbiato e spesso ci cadevo sopra, ecco perché i tagli e i graffi; altre volte è capitato che mi spingesse facendomi cadere su qualche padella o pentola, ecco perché le ustioni. Ho molti altri lividi, ferite. Il mio corpo era diventato una tavolozza di macabri colori e io, per quanto amassi l’arte, odiavo quelle sfumature. Scappai. Era l’unica cosa che avrei potuto fare. Avrei voluto denunciarlo ma ero troppo stanca per sostenere un processo. Quindi andai da un’amica, lontana da Sirmione, lontana da lui e da quella realtà ma nel mentre i miei nonni vennero a mancare: mio nonno di crepacuore, mia nonna di dolore, di conseguenza…”

Antonio ascoltava, ascoltava e più sentiva più aveva voglia di proteggerla. Non sapeva come definire questo istinto che aveva nei suoi confronti. Ogni parola che lei diceva la rendeva un po’ più vulnerabile. Si chiedeva come facesse perché era una cosa che lui non avrebbe mai fatto, che non aveva mai fatto. Voleva tenerla al sicuro, non voleva che provasse di nuovo dolore, non voleva che nessuno provasse mai quel dolore.

-Forse stavo facendo una cosa inutile- pensò.

“… Poi sono venuta qui a Riva. Ho comprato una casetta per me, finalmente. Passeggiando, poi, ho trovato questo posto”

“Vieni qui da molto?”

“Non moltissimo, ma ci sono venuta spesso negli ultimi tre mesi”

-Che strano- pensò -sono sempre venuto qui e non l’ho mai vista-

“Io vengo qui da quando ho memoria” disse Antonio.

“Tre mesi fa provai a fare la stessa cosa che volevi fare tu oggi…ma come vedi sono ancora qui. Credo che qualcuno lì -indicò in alto- Qualcuno voleva rimanessi a questo mondo. Mi sono fatta forza, dunque: sono sola qui… ma alla fine mi tengo occupata leggendo, scrivendo…”

Se lei non ci fosse stata, lui sarebbe con la testa sott’acqua. Qualcuno voleva davvero che lei fosse in quel luogo, in quel momento.

Antonio cercò di nascondere i suoi sentimenti: si sentiva ridicolo a pensare quelle cose di una ragazza che conosceva da meno di un giorno.

“Strano che non ti abbia già visto” disse allora Antonio.

Cloe sospirò:”Sono sempre venuta di mattina qui: all’alba ci sono dei colori bellissimi. Vedi: lì diventa tutto arancione e poi si sfuma fino al rosa, e poi il sole sorge esattamente lì” e puntava le dita ovunque, come se stesse dipingendo lei stessa in quel momento ciò che stava dicendo. Lui la guardava, e più la guardava, più si chiedeva se il dipinto fosse quello che stava descrivendo o lei stessa. Antonio aveva ancora tra le mani la pietra: ci disegnava sopra dei cerchi concentrici mentre la ascoltava parlare. Cloe sorrideva come una ragazzina e si spostava i capelli da un lato all’altro. Era davvero bella. Lei si fermò e lo guardò.

“Tu invece, perché?” indicando la pietra.

“Ho perso il lavoro ed insieme ad esso la mia dignità, mi hanno derubato e sono totalmente solo. Non sapevo come gestire tutto e, codardo come sono, ho deciso di aggirare, evitare il problema e risolverlo alla radice volendo eliminare il problema stesso: me.”

“Non hai mai avuto qualcuno che ti ascoltasse, vero?”

E lei come faceva a saperlo? Era così evidente?

In tutto ciò si era fatto il tramonto e il sole cominciava a scendere. Antonio, perplesso, guardò l’orizzonte.

“Mi basta come risposta” disse lei “Sai, devi sapere questa cosa: sono una persona che si ritiene abbastanza forte, motivo per cui non parlo quasi mai dei miei problemi e li combatto da sola. A risolvere quelli degli altri, invece, sono un fenomeno. Più che altro mi diverte. Le persone alla fine non hanno sempre bisogno di soldi, di una donna, un uomo o una villa: spesso l’unica cosa che una persona vuole è parlare ed avere qualcuno a cui interessa davvero ciò che sta dicendo. La maggior parte delle volte si vuole solo parlare, senza dover avere consigli, critiche o commenti: solo parlare. ”

Antonio ascoltava: aveva ragione.

“Già, hai ragione”. Lo aveva detto. Aveva dato ragione a Cloe. Antonio che avrebbe preferito morire che essere in torto. Certo che era tutto molto strano.

Lei gli sorrise. Si mise a guardare il tramonto, poi. Lui la guardava, vedeva il paesaggio riflesso nei suoi occhi e accennava un sorriso. Per la prima volta nella sua vita si sentiva al posto giusto, si sentiva ascoltato… da una sconosciuta. Una donna che non aveva forma di donna: era più simile ad un angelo. Sì, doveva esserlo per forza. La sua presenza lì aveva uno scopo: salvarlo. Perché avrebbe dovuto incontrarla proprio in quel giorno? Perché non prima? Perché si sentiva così bene con qualcuno che conosceva appena? Sono domande a cui Antonio non darà mai una risposta. Cloe si girò a guardarlo ed accennò un mezzo sorriso. “Quella la togli?” indicando la corda.

Antonio abbassò lo sguardo per guardare il suo polso a cui la corda era ancora legata. Si attaccò al discorso di prima:”Dicendolo ad alta voce mi sono reso conto che alla fine tutto questo è qualcosa che si può risolvere… è solo la solitudine. Non sono stato fatto per combattere da solo”

“Nessuno lo è” rispose lei, pronta.

“Da soli si può combattere solo un duello, ma nella vita non è mai un uno contro uno: i problemi sono sempre troppi. Ognuno di noi è uno contro un miliardo. ”

Era seria mentre parlava, stranamente. Era davvero seria. Abbassò la testa a guardare i suoi piedi, ancora in acqua. Non si sa cosa pensò Antonio in quell’istante ma mise la mano su quella di Cloe. Usò la mano sinistra, libera dal giogo della corda. Mano su mano. Lei si girò di scatto. Lui ritirò la mano. -Dio, Antonio che fai?- si diceva -Che ti prende?-

Lei sorrise e tornò a guardare il tramonto, giunto ormai al termine. Tolse i piedi dall’acqua e li stese sull’erba. Si sdraiò a guardare il cielo che si faceva mano a mano più scuro, Portò le braccia incrociate sulla fronte e sospirò.

“Vieni?”

Antonio si guardò intorno, si guardò il polso, la pietra, il lago e si sentiva come se si fosse appena svegliato da un brutto incubo. Se avesse rifiutato il suo invito si sarebbe perso qualche altra meraviglia che sarebbe potuta uscire da quelle labbra. Slacciò il nodo che legava la corda attorno al suo polso destro. Aveva lasciato un segno violaceo che ripercorreva con le dita della mano sinistra. Tirò fuori i piedi dall’acqua e si andò a sdraiare accanto a Cloe.

“Lo specchio” era un luogo incontaminato, dove le stelle si vedevano tutte e dove la luna illuminava come se fosse il sole.

“Vedi” disse lei “quello è il leone” ed indicava il cielo.

“Lì la vergine e lì l’orsa maggiore”. Antonio diceva di capire ma non capiva, più che altro era totalmente affascinato da lei, dai viaggi che compivano le sue dita per disegnare orbite astratte a mezz’aria. Era così bella. Dopo questo passaronoun po’ di tempoin silenzio. Cloe contemplava il cielo, Antonio contemplava Cloe.

Le piccole onde del lago facevano un rumore rilassante quando si infrangevano sulla riva: sembrava un piccolo paradiso terrestre. Di scatto lei si alzò e tese la mano:”Su”. Antonio spiazzato. “Antonio dai vieni”. Lei rideva, come per dire:”Fidati, che male ti può fare un angelo come me?”

Si alzò e le prese la mano. Lei iniziò a correre urlando e ridendo. Lui cercava di starle dietro: forse neanche la luce era così veloce. Iniziarono a girare per Riva insieme, senza fermarsi. Era vivo. Però stavolta era diverso: non era vivo e basta, si sentiva vivo. Lo era davvero. Correvano e correndo arrivarono davanti quella casa. Era ancora come Antonio l’aveva lasciata. Lui si fermò e si sedette. Lei guardò e capì subito. Gli si mise accanto. “Prendi le cose più importanti, puoi stare da me”. Dovevano essere le due di notte ed Antonio era davanti casa sua con una donna da cui era stato stregato che gli chiedeva di andare a stare da lei. -Devo ammetterepensò -che mi sono sentito più a casa con lei che in quel posto per trentacinque anni… quindi perché no?-

“Okay” rispose.

Voleva starle accanto, voleva proteggerla, voleva sentirla ancora parlare e pensare. Voleva vedere di nuovo i suoi capelli muoversi al vento e voleva ancora vedere i suoi occhi color miele al sole. Voleva vedere l’alba con lei e vederla indicare tutti i colori. Voleva lei. Una conversazione spesso basta per capirsi, per esporsi, sfogarsi. Loro si erano visti e si erano compresi. Erano l’uno il conforto dell’altra: non erano più soli. Il periodo di tristezza era finito. Se scoperta, una ferita ci mette di più a guarire. Se curata al modo giusto ci vuole davvero poco.

A loro erano bastati un pomeriggio ed una notte per ricucire le proprie cicatrici.

Una pazza coppia suicida di sconosciuti che correva urlando per la città… che bella storia, eh? Vi è piaciuta?

Quando mamma e papà me l’hanno raccontata quasi non ci credevo: gli amori più grandi nascono davvero nei momenti più inaspettati.

Hanno lasciato che crescessi un po’ prima di raccontarmi tutta la storia ma, quando me l’hanno detta, ricordavano entrambi tutti i minimi particolari. Si tenevano per mano, si sorridevano parlando e ridevano del modo strano in cui si sono conosciuti e papà rideva tanto della sfacciataggine che la mamma ebbe allora.

Vi auguro un amore come quello dei miei genitori.

Ricordate: a volte parlare con uno sconosciuto è la cosa migliore che possiate fare.