I racconti del Premio letterario Energheia

Non fermarti, Ugo Criste_Genova

Racconto finalista venticinquesima edizione Premio Energheia 2019

“Qualsiasi cosa succeda non fermarti.” gli disse il padre. “Tu guarda in avanti e vai per la tua strada.”

   La prima volta che ascoltò questo consiglio Ibrahim aveva nove anni. La corsa stava per iniziare e lui non vedeva l’ora di dare una soddisfazione a suo padre. Il percorso della gara era segnato da dei sassi colorati di bianco. Partiva dalla piazza del mercato del villaggio, proseguiva fra casupole intonacate da solo fango, seguiva un sentiero delimitato da un lato da una staccionata di legno, passava accanto al pozzo di riserva, quello in cui gli abitanti del villaggio attingevano le loro terracotte quando quello principale si prosciugava, infine rientrava nel villaggio e concludeva il proprio tragitto nella piazza da cui venne data la partenza.

   Suo padre gli si inginocchiò davanti. Prese fra le mani il volto del figlio e disse. “Ibrahim mentre corri non fermarti. Qualsiasi cosa succeda non fermarti. Tu guarda avanti, e vai per la tua strada.”

   Ibrahim si guardò attorno. Osservò i suoi avversari ed ebbe conferma di essere fra i più piccoli. La corsa era riservata ai giovani. Quelli che ancora non avevano compiuto i tredici anni. Ibrahim sapeva però di essere veloce. Di essere resistente. E poi suo padre gli aveva spiegato come doveva comportarsi. Gli aveva consigliato di partire controllandosi, di non seguire coloro che al via spingevano al massimo, e poi di aumentare l’andatura con progressione. Per essere certo che il suo figliolo seguisse i suoi consigli, aveva disseminato lungo il percorso tre segnali, tre sassi colorati di rosso: ogni sasso avrebbe significato una accelerazione.

   Sulla linea di partenza si presentò l’Iman. Impose il silenzio e ringraziò Allah. Quindi fece partire i concorrenti. Come aveva previsto il padre di Ibrahim un folto numero  di corridori, sgomitando, si lanciò a rotta di collo. Sembravano un branco di bufali atterriti da qualche predatore. Ibrahim si trovò nella pancia dei partecipanti, scivolò poi fra gli ultimi. Ma non perse la testa, proseguì con la sua tabella di marcia.

Li spinsero giù dal camion. Tenendoli sotto tiro con due mitragliatori, li radunarono e dissero a loro che avrebbero dovuto attendere. Uno dei viaggiatori si lamentò del trattamento ricevuto, disse che aveva pagato per il viaggio e non capiva cosa stesse succedendo. Gli venne riferito che non doveva preoccuparsi. Che la loro organizzazione li avrebbe condotti a destinazione, ma che dovevano cambiare mezzo di trasporto: quello adoperato sino a quel momento era troppo compromesso. Distribuirono delle bottiglie d‘acqua, dissero poi di salutare per loro l’Europa e con un rombo di motore si dileguarono. Il gruppo di Ibrahim e suo padre Asif rimase attonito. Qualcuno cominciò ad invocare l’Altissimo, altri si misero a scrutare l’orizzonte alla ricerca di quei mezzi di trasporto promessi.

   Dal giorno della gara erano passati dieci anni.

Usciti dall’abitato i giovani atleti presero per un largo sentiero. Molti di coloro che erano partiti correndo al massimo delle proprie capacità iniziavano a dare segni di sfinimento. Ibrahim recuperò sette, otto, posizioni, poi scorse il primo segnale: un sasso rosso. Aumentò l’andatura solo quando gli passò accanto. Sentì le gambe girare più libere, avvicinarsi maggiormente alla loro abituale andatura. Superò un suo compagno di giochi. Un ragazzo di almeno dodici anni e passandogli accanto neppure accennò uno sguardo: se mentre lo superi lo osservi, gli diceva il padre, lo umili. Costui cercò di tenergli il passo, poi rinunciò. Ibrahim scavalcò altri sei o sette concorrenti, e finalmente a un centinaio di metri individuò chi conduceva la gara. Proseguì con il suo passo, e giunto al pozzo di riserva vide il secondo segnale.

Il padre di Ibrahim si prostò in ginocchio e pregò per l’anima di sua moglie Nadiria. Era morta da qualche mese quando nel villaggio erano giunti degli uomini armati e vestititi di nero. Appena entrati nell’abitato uccisero il capo della piccola comunità reo di essersi fatto avanti, subito dopo radunarono l’intera popolazione e dopo vari proclami, dal tenore islamico, si dissero combattenti dell’Isis. L’Iman del villaggio provò a contestare sostenendo che il più importante insegnamento di Allah era la pace, e l’amore fra gli uomini. Forzatamente lo fecero inginocchiare e con un macete lo decapitarono. Calò il silenzio. Rimasero fra le capanne del paese due giorni interi. Obbligarono i più giovani ad ascoltare i loro appelli al califfato. Le loro esortazioni ad abbracciare la Jihad. Insistettero sulla necessità di raggiungere il martirio in nome di Allah. Quindi si allontanarono promettendo però che sarebbero in seguito ritornati per reclutare giovani combattenti. Fu per evitare che suo figlio Ibrahim fosse costretto ad unirsi a quei miliziani che Asif si mise in viaggio per l’Europa.

Superato il secondo sasso rosso Ibrahim aumentò la cadenza dei suoi passi. Non era ancora all’apice, ma la sua andatura cominciava a essere notevole. Scavalcò uno, due avversari e si avvicinò a chi conduceva la gara. Si trattava di Abed. Un ragazzino di tredici anni. Quella corsa Abed l’aveva già vinta due volte, e di lui si diceva che sarebbe diventato un corridore professionista, che si sarebbe tolto dalla miseria. Ibrahim avevo solo nove anni, nonostante tutto gli teneva il passo. Si avvicinò. Gli fece sentire il suo respiro, gli mise pressione. Abed si girò per controllare. Si stupì di vedere alle sue calcagne un bambino. Per orgoglio cercò di staccarlo. Ibrahim tenne il passo. Abed allungò nuovamente, guadagnò qualche metro. Per un attimo pensò di averlo sfiancato, ma poi rivide Ibrahim riavvicinarsi. Corsero alla stessa andatuta e affiancati per qualche centinaio di metri, e intanto giunsero al terzo segnale.

Partirono dal villaggio una trentina di persone. Lasciarono dietro di loro solo chi non era in grado di muoversi: i vecchi. Si avviarono di notte con i bambini appesi al collo per attraversare a piedi un territorio desertico e ostile. Dovevano percorrere trenta chilometri, tanto distava il paese vicino. Lì, donne e bambini, avrebbero trovato rifugio, mentre gli uomini, specialmente i giovani, sarebbero saliti su un camion che li avrebbe condotti in prossimità del mare e infine in Europa. Camminavano in fila indiana, in silenzio, con la paura che gli faceva scorgere in ogni ombra un uomo dell’Isis nascosto. Per pagare il viaggio Asif si era venduto la casa, il gregge di capre, gli utensili, il lavoro si tutta una vita in cambio di una miseria.

Fu a quel punto che Ibrahim spinse come mai in vita sua aveva fatto. Il compasso della sua falcata si aprì a dismisura. Sembrava che i suoi piedi non toccassero neppure il suolo. Abed sentì il fiato farsi corto. Sentì i muscoli gemere dallo sforzo. Cercò di tenere il ritmo di Ibrahim, ma quel bambino correva come il vento, e cercando di stargli attaccato incespicò. Cadde in ginocchio, alzò il braccio e implorò. “Aspetta Ibrahim. Aiutami!”. Ibrahim fece per fermarsi, ma poi gli venne in mente il suggerimento di suo padre – Qualsiasi cosa succeda non fermarti. Tu guarda avanti, e vai per la tua strada. – Per non sentire le suppliche di Abed aumentò persino l’andatura. Tagliando il traguardo aveva ancora nelle orecchie la voce di Abed.

Stettero sotto il sole per l’intera giornata. “Ci hanno abbandonato in mezzo al deserto.” sostenevano molti con rassegnazione. “Dobbiamo attraversarlo a piedi.” dicevano altri per infondere fiducia e speranza. Decisero attendendo il sopraggiungere della sera. “Teniamo alla nostra sinistra il sole che cala, lo terremo alla nostra destra quando sorgerà. “  Si misero in movimento. Mentre avanzavano si alzava un mormorio, una preghiera che implorava salvezza. Si riformò la fila indiana. Avanzava dritta come una meteora. Ogni tanto dalla fila in movimento calava il silenzio, e allora l’unico rumore che si percepiva era lo strascichio dei sandali sul terreno pietroso, sabbioso. Il primo a cedere, per non rialzarsi più, fu il settimo della fila: era il falegname del villaggio. Se ci fosse stata dell’acqua avrebbero tentato di rianimarlo dissetandolo, ma l’acqua era terminata da ore. Con il cuore mesto la colonna si rimise in cammino. È appena sorse il sole che cadde il secondo. Toccò il terreno che era già morto. La fila umana lo osservò appena, quindi ripartì. Ibrahim e suo padre Asif si misero alla testa del gruppo e invitarono i loro compagni di viaggio a non rinunciare e a risparmiare ogni energia. Quando il sole tocco lo zenit non era che rimasta la metà dei partenti. Ormai quando qualcuno di loro si schiantava al suolo non veniva neppure soccorso, veniva soltanto scavalcato. Dopo aver raggiunto l’apice della volta celeste il sole cominciò a calare. All’orizzonte non si scorgeva che sabbia, e poi ancora sabbia, e dei partenti non erano che rimasti due: Asif e Ibrahim. Già due volte Asif era crollato a terra. Si era però rialzato. “Ho solo inciampato.” disse Asif per non preoccupare il figlio e pensava – ancora un po’ e poi lo so, devo rinunciare. Non ce la faccio più. Non vedo dove poso i piedi. Mi gira la testa. Le ginocchia mi si piegano. Ibrahim, no. Lui, sì. Lui giungerà sino al mare.”  Superarono una duna. Ne aggirarono un’altra. Poi Asif si accasciò al suolo. Ibrahim gli si sedette accanto. Gli fece posare il capo sulle proprie gambe e gli accarezzò la fronte. Asif gli disse. “Figliolo è il momento. Vai per la tua strada. E qualsiasi cosa succeda non fermarti. Tu guarda avanti e vai per la tua strada.”  Ibrahim gli disse di non parlare, di riposarsi, di stare tranquillo, perché avrebbe seguito il suo consiglio. Asif chiuse gli occhi sorridendo. Ibrahim gli si sdraiò accanto. Sentì evaporare dal suo corpo la stanchezza della lunga fuga, ne sentì arrivare un’altra di diversa natura. Due lacrime gli solcarono le gote unendosi, caddero poi sulla sabbia. Ibrahim attese il compimento del proprio destino.