I racconti "brevissimi di Energheia"

I brevissimi 2015 – L’ira di Davide Emanuele Iannace, San Giorgio al Sannio(BN)

_Anno 2015 (I sette peccati capitali – L’Ira)

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Il ragazzo fissò l’altra solo per qualche istante, prima di abbassare lo sguardo sul tavolo ancora imbandito di pietanze. La ragazza era in piedi ed urlava, urlava e continuava ad urlare. Lui non rispondeva. Non riusciva neanche a sentirla, a dire il vero. I suoi occhi volavano dal calice di vino rovesciato a terra insieme al suo contenuto fino alla figura snella di lei, avvolta nel vestito azzurro che lui le aveva regalato per l’anniversario, oramai andato a puttane. Le urla si perdevano nel salone, immerso nella quasi totale oscurità. Il camino ed un paio di candele emanavano una rossa luce in tutta la stanza mentre fuori, al freddo, la neve si accumulava lentamente sui fianchi delle morbide colline.

Da quanto tempo andava avanti quella storia, si chiedeva lui. Immerso in sé stesso, gli occhi nascosti dietro le spesse lenti da vista, non poteva che porsi quella fatidica domanda. Da quanto tempo si ritrovava, ogni volta, ad essere oggetto di parole cariche di odio e dette molti toni sopra il normale? Da quanto tempo stringeva i denti mentre gli oggetti volavano, prima di andare a ricomprarli ed osservarli, ancora una volta, infrangersi sul pavimento? Troppo tempo, continuava a rispondersi. Eppure, restava lì. Non se ne andava, anche se avrebbe potuto. Lei continuava ad urlare ed ad agitarsi e lui restava fermo ed immobile, a sopportare.

Il legno nel camino era oramai ridotto a cenere e la stanza era diventata più che buia quando, finalmente, lei smise di urlare. Lui non fece neanche un sospiro. Semplicemente si alzò, muovendo lentamente la sedia perché non strisciasse sul pavimento. Si avvicinò al camino, gettando ancora qualche ceppo nel fuoco appena appena visibile, ravvivando la fiamma oramai spenta e tornando a dare un po’ di luce al salone. Lei si era seduta su un divanetto in pelle scura, le spalle rivolte al fidanzato.

Come sempre, lui non avrebbe fatto nulla. Quasi nulla, per lo meno. Avrebbe messo a posto, pulito un po’, sistemato la tavola e si sarebbe coricato a letto. Lei sarebbe rimasta sveglia un altro po’, poi si sarebbe addormentata sul divano, mentre il camino si sarebbe spento lentamente, consumando del tutto la legna. Il mattino dopo lui l’avrebbe presa in braccio e messa a letto. Non sarebbe cambiato nulla però. Il giorno dopo avrebbero litigato di nuovo. Con un fazzoletto coprì la mano con cui raccolse i cocci sparsi e rotti del bicchiere. E lei parlò. Lui se ne stupì. Non sentiva quasi mai la sua voce vera, non quella distorta dalle urla incazzate. Ma la sua voce, quella vera, tranquilla. Parlava e gli chiedeva perché. Lui non aveva una risposta per quella domanda, ovviamente.

Non l’aveva mai avuta. Da quando avevano avuto l’incidente, alla domanda perché lui rispondeva con il silenzio e con una tacita assunzione di colpa. E lei, in cambio, urlava. Perché in fondo non era stata colpa sua ed entrambi lo sapevano. Sapevano perfettamente tutti e due che non era stata colpa loro. Era uno di quei casi in cui le cose erano accadute e basta, senza una ragione, senza un colpevole. Eppure per tutti e due il mondo era drasticamente cambiato. Mentre lei continuava a chiedersi perché, lui buttava i cocci nel solito secchio, lavandosi le mani dal vino ed osservando i piccoli graffi che si era fatto prendendo i cocci affilati.

Lei ricominciò ad urlare e lui abbassò gli occhi. I perché risuonavano nella stanza e lui non sapeva darle risposta. Non c’era un perché, era quella la verità. Ma ogni volta che lei urlava e lui non riusciva a parlare, ogni volta che si ritiravano in loro stessi, preda di ira, la verità si allontanava, attimo dopo attimo.