I racconti del Premio letterario Energheia

La galleria, Viola Vici_Sant’Arcangelo di Romagna(FC)

Racconto finalista Premio Energheia 2021_XXVII edizione – sezione giovani

Questo racconto è dedicato a tutte le persone che, per professione e non, si fanno continuamente carico di ascoltare le sofferenze altrui, anteponendole alle proprie.

Vi ringrazio dal profondo del cuore.

Prologo

Giunto ai piedi della mia solita destinazione, mi fermai un momento ad ammirare la luce notturna: andava scomparendo ad ogni mio respiro e lasciava spazio all’ascesa imponente del Sole, del quale i raggi già si palesavano, splendendo, sulla portad’ingresso. Tirai fuori dalla tasca della giacca le chiavi e le inserii nella serratura illuminata, fino a quando sentii il ‘click’ di quest’ultima che si apriva lentamente al mio passaggio. Accesi le luci delle sale, misi al loro posto alcune panche ed opere che alla chiusura del giorno precedente erano state spostate. Come ogni altro giorno, sostituii il cartello informativo all’entrata da ‘chiuso’ ad ‘aperto’; e così, ancora una volta, venne resa accessibile al pubblico la più grande e visitata esposizione permanente di arte moderna, l’attrazione più stimata della città. Già alle prime luci dell’alba, flussi continui di persone varcarono la soglia: costoro non erano artisti né appassionati d’arte, ma personaggi abituali, caratteristici che, senza nessuna motivazione, erano attratti da un preciso quadro tra quelli della mostra. Si dirigevano a questo in silenzio, con lo sguardo fisso a terra e imperterriti a seguire i giusti corridoi da percorrere, allontanando dalla propria percezione ogni cenno di interesse per le altre raffigurazioni esposte. Non erano umani, consistenti, erano anime focalizzate su un pensiero, che si poneva al centro delle loro riflessioni e anzi, le annullava tutte. E con ciò riusciva di essere per loro l’unico obiettivo, l’unico stimolo, per cui non potevano che raggiungere lo specifico quadro nella mostra che esprimeva con colori a tempera ed immagini quella sola ossessione da cui erano diventati dipendenti.

Ognuno di loro aveva il suo quadro e come durante ciascuna visita prese posto sulla panca che vi era posizionata di fronte, senza nessun altro a fianco. Di fatti, nessun altro sarebbe stato in grado di dare all’opera la stessa interpretazione che ne dava ora quello ‘spirito naufrago’, il quale, con occhi inespressivi, osservava il dipinto davanti a sé e, come dire, lo lasciava parlare al suoposto. Ad amministrare questo viavai di fantasmi non c’era nessun altro che me; non c’erano addetti alla sorveglianza né guardiani. Ma al contrario di un comunissimo bigliettaio, che si limita a stare seduto all’ingresso e a gioire del guadagno, a me interessava analizzare ciascun individuo che strisciava tra i corridoi nel solo rumore di passi. Mi piaceva curiosare, ammirare, trattenermi ad ascoltare i quadri, ciò che avevano da dire e accettarli, e accettare con essi anche i loro reciproci spettatori.

Una volta esauriti i biglietti e, di conseguenza, fermatosi il movimento di quella nebbia vivente che prendeva posto tra le stanze, uscii dalla mia postazione all’ingresso e iniziai a seguire costoro. Mi soffermai ad osservare una ad una tutte le creature e i rispettivi quadri che popolavano la struttura, avvicinandomi a loro, cercando di capirle e di far loro distogliere l’attenzione da ciò che vedevano riflesso nelle raffigurazioni.

Capitolo I: L’irremovibile uomo

Sul lato sinistro della terza stanza, ad esempio, era seduta l’anima ormai sbiadita di un fedele visitatore della galleria, Ed. Lavorava nelle veci di dottore in un ospedale poco lontano dalla mia mostra d’arte, nel quale, qualche settimana prima, era morto un paziente ricoverato d’urgenza ed era proprio Ed l’incaricato di trovare una cura. Il dr. Edward non era mai stato quel genere di uomo da definire caotico, strabordante di eccitazione e paranoie come la maggior parte dei colleghi o dei coetanei; contrariamente, costui di fronte alle più disparate situazioni, o meglio, di fronte a qualunque situazione della sua vita, non lasciava trapelare la benché minima reazione emotiva.

Indossava costantemente un’espressione impassibile e si limitava a percepire il corso degli eventi, senza cercare di accompagnarlo, o di interferire con esso. Da questo punto di partenza, non fu difficile per le persone trasformare la pacatezza di Ed in sinonimo di serenità; egli divenne perciò un idolo di spensieratezza e di libertà dalla confusione umana, la quale con naturalezza governava gli animi altrui, ma pareva essere incapace di governare il suo. La sua apparenza semplice, stimata simbolo di gioia, generava stupore, poi invidia, tra i pazienti e i loro cari, che studiando il volto compassato del dottore, ripetevano “Ah! Come vorrei che la mia vita fosse così, come la sua, senza nessuna preoccupazione, senza nessun problema!”

Ed effettivamente l’irremovibile Ed era questo che appariva, colui che salvava continuamente vite ma sembrava non averne mai realmente vissuta una. Che lo stimassero o lo criticassero, ciò aveva poca importanza: secondo qualsiasi individuo al quale lo si fosse chiesto, questo era Ed, l’uomo senz’anima, l’uomo senza vita. Ed ora l’impassibile dottore stava lì, seduto composto su di una panca tra tante, con tutte le attenzioni rivolte verso un dipinto. E rifletteva, nelle rifiniture dorate della cornice, un’immagine di sé per nulla diversa da quella che assumeva ogni giorno al di fuori della galleria: era indistinguibile dalla forma indefinita che lo caratterizzava, come chiunque altro tranne me, già dall’apertura. In quell’opera che ipnotizzava il dottore, scene di amarezza, di malinconia; un uomo, più o meno della stessa età di Ed, stava sdraiato sopra ad un lettino bianco e cercava con lo sguardo la speranza nella freddezza del ‘semplice e sereno individuo’. La scena poi si allargava per riquadri, come la pellicola di un lungometraggio d’epoca, e permetteva allo spettatore di studiarne nuovi dettagli. Nel riquadro successivo, Ed, vestito interamente di nero, stava pietrificato a fianco di una lapide scolpita, e la guardava da lontano. Tra gli occhi colmi di odio e di tristezza dei presenti, dai suoi, arricchiti solo da rimorso e pentimento, lasciava cadere una lacrima, che di fretta correva lungo la guancia indurita e, mossa dal vento, raggiungeva le labbra.

Che legame ci fosse tra Ed e il paziente, non ho avuto mai la possibilità di scoprirlo: lui, dall’alto della sua fama di ‘irremovibile uomo’ quale dava l’impressione di essere, non aveva mai accennato alla questione, e nemmeno il quadro, che rifletteva la sua vita, riusciva a rispondere all’interrogativo. Ma indipendentemente da questo, la prima lacrima ne originò un’altra, e un’altra ancora, e queste si moltiplicarono e si fecero senza che se ne accorgesse sempre più presenti nei momenti in cui il dottore ‘non pensante’ pensava (e pensava eccome!) allo sbaglio più grande mai commesso. E costui, dopo lunghe giornate di lavoro in cui si sforzava di mantenere l’etichetta che gli avevano assegnato, tornava a casa e sfogava ogni singola repressione sotto forma di grida, di pianti, di crisi. Ma nessuno, oltre alle pareti della sua abitazione, poteva sentirlo e nessuno si sarebbe mai posto il problema che egli non stesse bene come sembrava stare. Nessuno avrebbe avuto motivo di chiedere a Ed il suo stato mentale, le sue preoccupazioni, perché egli non poteva averne, dai, era l’irremovibile Ed. Ed ora, l’irremovibile Ed stava lì, seduto composto su di una panca tra tante, con tutte le attenzioni rivolte verso un dipinto; ma con una più scrupolosa analisi si sarebbe certamente notato che le mani, le irremovibili mani dell’irremovibile uomo, si contorcevano e tremavano sulle sue ginocchia.

Avvicinandomi, vidi negli occhi di fumo del dottore il senso di colpa che stava divorando ogni cellula del suo inconscio; vidi la paura, vidi la consapevolezza di un errore. Vidi in lui il sentimento di inferiorità, di ripudio per sé stesso, e il desiderio di una bravura che, quel giorno dell’intervento, lo aveva abbandonato. Guardai le sue mani in movimento e non esitai ad afferarle, ma non con lo scopo di fermarne il moto: Ed non aveva bisogno di nascondere di nuovo, come ogni giorno in ospedale, la sua agitazione, e di apparire privo di pensieri. Lui ne aveva, di pensieri, e gli mancava solamente la possibilità di poterli esprimere. Così, venuto a contatto con le sue gelide mani, non feci che accarezzarle dolcemente, senza dire una parola, ma fissando il dottor Edward, che per la prima volta, dopo molte visite e molti sguardi intensi al quadro, ne distolse l’attenzione. Si voltò verso di me e la sua irremovibile espressione si tramutò in un debole sorriso. Poi, la sua anima di nebbia grigiastra, che avevo avuto solo il privilegio di sfiorare, perse ulteriormente consistenza e scomparve, lasciandomi di fronte ad una panca vuota, e ad un quadro senza spettatore.

Capitolo II: La ragazza senza nome

Nella stessa stanza vi erano posizionate anche altre panche, e dunque altri dipinti e poi altri spettatori. Nascondendo lentamente con un telo la raffigurazione dei pensieri di Ed, ormai rimasta priva di un pubblico, me ne allontanai, e mi accostai allo spirito più vicino. Era una ragazza, abbastanza giovane, magra fin tanto da esserne visibile il costato, attraverso quei rovinati e sporchi vestiti, che non le permettevano nemmeno di coprirsi interamente le spalle. Ciò che però era diligentemente coperto con un grazioso velo, era il suo volto, dal quale si rendevano manifesti solo due meravigliosi e vivi occhi color smeraldo. Non si vedeva spesso alla mia galleria, quella ragazza, e nessuno sapeva il suo nome; forse anche lei lo aveva dimenticato, o lo aveva perso. Della sua storia, erano noti ben pochi dettagli, che sicuramente mai sarebbero stati da soli in grado di descrivere alla perfezione la paura che si celava dietro al verde brillante dei suoi occhi. La giovane viveva in un paese densamente abitato nel quale ebbero inizio delle persecuzioni, dei maltrattamenti, nei confronti di coloro che, come lei, professavano una religione diversa da quella

del luogo. In un effimero periodo di tempo, da che era iniziata la caccia all’uomo, le fu portato via tutto: la casa, la famiglia, le persone care. Le fu strappata via la vita precedente, le emozioni, le abitudini precedenti, venne inseguita a lungo per ciò che era; finì col perdere ogni cosa, con l’essere nessuno, e fu costretta a fuggire.

Scappando, la ragazza senza nome non aveva portato con sé che un’assoluta sensazione di allontanamento da qualunque cosa un tempo facesse parte della sua vita, e ora non ne faceva più. Questo vuoto incolmabile che lacerava la giovane, andava accrescendosi per ogni tratta percorsa lontano da casa; la deteriorava, le ricordava il suo essere nessuno, la sua vita persa. Il distacco dalla realtà vissuta spezzava in modo aggressivo, sgarbato, la bellezza del suo sguardo vivace e penetrante che, per mezzo di sfumature verdeggianti, elaborava il dipinto delle sue memorie, e nel suo animo, lo compiangeva. Cercai di seguirlo, e mi accorsi che costei stava concentrando in esso una grande quantità di energia; non tanto per assimilare meglio le immagini, ma per mantenere le attenzioni rivolte esclusivamente verso al primo riquadro, quello in cui era a casa, felice. In questo modo, sperava di dimenticare gli eventi successivi, ma non ci riusciva, e l’affetto che riceveva guardando la prima raffigurazione tornava immediatamente a mancarle. E la ragazza senza nome tornava ad essere tale e ricordava il suo essere nessuno, la sua vita persa.

In quanto a me, guardavo la gracile ragazza priva di identità che tentava

disperatamente di riottenerla, solo a partire da un ricordo, ormai irraggiungibile. Non avevo la facoltà di fare nulla per riportare indietro la sua vita passata, e dunque pensai di aiutarla a costruirne una nuova, a partire da un nuovo momento memorabile, felice. Mi allontanai da lei senza salutarla, senza avvisarla che me ne stavo andando e che avrei fatto ritorno; lei, dal canto suo, non mi rivolse nemmeno un’occhiata, e continuò a costringere la sua visuale verso l’ultima memoria gioiosa.

Tornai qualche minuto più tardi e portai con me la giacca che avevo lasciato all’ingresso. Nessuna delle anime presenti si era mossa: tutti loro erano ancora lì, focalizzati sul proprio quadro, e anche lei era lì, la ragazza senza nome, e non si voltò verso di me, né dimostrò di aver rilevato la mia presenza. Lo sforzo immenso che si originava dal suo desiderio di colmare la mancanza di vita, era ancora il medesimo. Lei, come un predatore stanco che continua a inseguire la preda benché questa sia già lontana, perseverava nel suo intento di non cadere nell’oblio, inutilmente. Solo l’arrivo di una nuova preda, una nuova opportunità di vita, avrebbe allontanato il predatore dalla sua precedente ambizione; e decisi così di appoggiarle la mia giacca, la nuova preda, sulle spalle, e di aspettare che se ne accorgesse, di essere ancora qualcuno. Inizialmente, non sembrava che ciò avesse avuto effetto su di lei; poi le sue deboli mani, i suoi artigli, afferrarono il curioso oggetto e lo strinsero.

Lei mi guardò, e i suoi occhi color smeraldo si riempirono finalmente di qualcosa: si riempirono di lacrime, lacrime di commozione, lacrime di misericordia. Lacrime di chi ha ritrovato una vita persa, e ne ha percepito un nuovo, tanto bramato calore. E dunque, risorta non tanto per un oggetto che aveva ricevuto ma più per la speranza che esso le aveva conferito, la ragazza senza nome scomparve e, credo, andò a cercarsene uno. Sulla panca, al cospetto del dipinto, era rimasta solo la mia giacca, che non aveva portato con sé; la sollevai e, riportandola all’ingresso, ne sentii il

bagnato che le lacrime di lei avevano lasciato. E quelle lacrime, come lei, avevano ora una vita.

Capitolo III: L’irritante pulce bicolore

Lasciando la giacca nel luogo in cui inizialmente l’avevo sistemata, feci ritorno alla medesima stanza, che ospitava ora ben due quadri, e due rispettive panche, senza spettatore. Mi avvicinai per un’ultima volta al dipinto della ragazza, lo coprii con un telo e poi me ne allontanai, alla ricerca di un nuovo personaggio da ascoltare. Poco più avanti, nella zona centrale in fondo alla sala, era posizionata una terza panchina.

Su di essa sedeva una creatura particolare, dall’aspetto infantile, che agitando freneticamente i piedi, osservava anch’essa il suo dipinto. Che quel fantasma fosse

un ragazzino, questo non era del tutto corretto, ma al tempo stesso non era nemmeno adatto definirla una bambina; per convenzione, ne parlerò utilizzando aggettivi declinati al maschile e proverò a non attribuire a Sammy altro appellativo che non sia il suo nome. Sam aveva la pelle chiara, nascosta da una camicia bianca che terminava non appena sopra le cosce e rendeva visibile una corta gonna a frappe, di colore viola. Il particolare della sua estetica che saltava subito all’occhio era il modo in cui erano pettinati i suoi capelli, perfettamente divisi in due colori, rosso e blu; le pigmentazioni non si incontravano se non al centro della testa, in cui erano però separate dalla scriminatura. Nulla di Sammy era qualcosa di certo e di

chiaramente definibile, se non la sua giovane età e la determinazione con la quale si rivolgeva al dipinto e ne scrutava i dettagli. Secondo le voci della gente, Sammy non era un individuo che generava simpatia, anzi, veniva spesso definito come un prepotente, un maleducato. Litigava frequentemente con i coetanei, che ne evidenziavano le sembianze indecise, sfogava la sua frustrazione sui pochi che gli si rivolgevano con dolcezza, e così facendo rimaneva solo. Ovunque si andasse, il nome di Sammy era conosciuto, disprezzato; per strada, quelli che non gli erano abbastanza vicini per trovarci da dire gli urlavano da lontano numerosi epiteti ostili, ma il più comune tra tutti era ‘irritante pulce bicolore’. Se ad un’altra persona questa definizione avrebbe particolarmente dato fastidio, per Sam era l’unica piccola soddisfazione; così chiamandolo, infatti, non gli veniva affibbiato un genere, e perciò ne era felice. Nascendo nel corpo di una ragazza, con il passare degli anni Sammy aveva scoperto che ciò non lo metteva completamente a suo agio; d’altra parte, provava uno strano senso di conforto quando i compagni, pensando che fosse un bambino per via dei capelli corti, lo nominavano tale. Tuttavia Sammy non si sentiva del tutto un maschio allo stesso modo in cui non si sentiva completamente una femmina. Non voleva decidere un solo modo di essere, ma sperava nella possibilità che potesse venir riconosciuto come un insieme di entrambi. La sua forza di volontà, sebbene fosse incredibilmente grande, poteva nulla contro l’incertezza che soggiogava i suoi pensieri; e questa veniva incrementata dall’opinione che avevano di Sammy le uniche persone con cui ancora aveva un legame, i suoi genitori.

Nelle immagini spente che i suoi occhi accesi metabolizzavano, osservando il quadro, vi erano due adulti imbronciati, alterati, che cercavano con urla e violenza di imporgli un solo genere. Desideravano che il figlio, maschio o femmina che fosse, prediligesse una sola alternativa, altrimenti ‘era anormale, non andava bene’.

Dicevano che così facendo erano degli anche troppo bravi adulti, che addirittura gli avevano offerto la possibilità di decidere, che le madri degli altri bambini non lo avrebbero fatto. Ma questa farsa non stava in piedi da sola, e Sammy lo sapeva, perché anche la mente di un infante può arrivare a comprendere la sostanziale differenza tra la possibilità di scegliere e l’obbligo di farlo. E ogni volta dunque, l’‘irritante pulce bicolore’, costretta a preferire una delle colorazioni dei suoi capelli, dapprima si conteneva, poi tirava fuori il lato peggiore di sé. Rispondeva di violenza alla violenza, ma era il più debole e perciò, finiva sempre ad essere la vittima, e mai il carnefice. Per questo motivo, non era raro incontrare Sammy nelle vesti di

carnefice in situazioni in cui gli era possibile di esserlo, mentre riversava la pressione su individui ancor più fragili di lui.

Nonostante questo, chi ne riusciva ad analizzare il quadro poteva certamente intuire che era Sammy il traghettatore della più grande quantità di debolezza e che, occultata da un atteggiamento irascibile, con essa vi era un profondo e spietato turbamento. Il turbamento di Sammy non era dato che dall’incapacità di stabilire la sua vera natura; si chiedeva perché tutti gli altri con facilità ci riuscissero, mentre il suo spirito restava sempre a metà strada, non aveva intenzione di pendere da un lato. Poi, non trovando risposta, piangeva, si sentiva vulnerabile, diverso; si convinceva di essere anormale, come dicevano i suoi genitori, e che non andasse bene così.

Scosso da quel turbamento, Sammy assimilava l’insieme di forme e di colori con i quali il dipinto raccontava la sua storia, e continuava ad agitare freneticamente i piedi. Forse avrei dovuto farmi notare, dirgli qualcosa; ma non lo feci, non ne trovai la necessità. Impulsivamente però, gli misi

una mano tra i capelli perfettamente ordinati e li scompigliai, li arruffai, finché le due colorazioni si mescolarono e divennero una massa quasi omogenea. Il giovane Sammy, non mi disse apertamente che aveva compreso il gesto, ma si girò, mi diede un leggero pugno sulla spalla e, con gli occhi lucidi, scomparve, accennando ad una risata. Non avrebbe dovuto scegliere uno tra i due colori che descrivevano la sua vita. Non era né blu né rosso, Sammy era il viola, ed andava bene così.

Epilogo

Coprii con un telo anche l’ultimo quadro rimasto all’interno della stanza, il quadro di Sammy, e me ne separai. A quell’ora, la mia galleria stava gradualmente iniziando a svuotarsi. I quadri salutavano i loro spettatori, liberandoli dall’incantesimo di attrazione che li aveva sottomessi al loro arrivo, e questi si avviavano verso l’uscita, allo stesso modo di come erano entrati: in silenzio, con lo sguardo fisso a terra e imperterriti a seguire i giusti corridoi da percorrere. Rimasi in attesa, passeggiando tra i corridoi, fino al momento in cui non ci fu più nessuno spettatore.

Allora, come ogni altro giorno, sostituii il cartello informativo all’entrata da ‘aperto’ a ‘chiuso’.

Spostai alcune panche ed opere che il giorno successivo avrei dovuto rimettere al loro posto, spensi le luci delle sale. Tirai fuori dalla tasca della giacca le chiavi e le inserii nella serratura, non più illuminata dai raggi del sole, fino a quando sentii il ‘click’ di quest’ultima che si chiudeva lentamente al mio passaggio. Mi fermai un momento ad ammirare la luce del giorno: andava scomparendo ad ogni mio respiro, lasciando spazio all’ascesa imponente della luna, della quale il chiarore già si palesava, splendendo, sulla porta d’ingresso. Rivolsi un’ultima occhiata alla galleria, che era per me l’unica ossessione, l’unico obiettivo; e riconobbi che il mio quadro altro non era che la gestione di quelli degli altri.