L'angolo dello scrittore

Volevo i pantaloni

Amani – 1 Febbraio 2011 – di Anna Pozzi

 

Dura la vita per le donne in Sudan. Se non è la tradizione a relegarle in ruoli subordinati e a carichi di lavoro pesantissimi, è la religione a imporre loro regole ingiuste e opprimenti. O per lo meno è l’uso ottuso che taluni fanno della religione. Generalmente uomini…

E così il caso di Lubna Ahmed al Hussein ha portato alla ribalta mondiale la stupidità con cui taluni non si limitano a interpretare i dogmi di fede, ma arrivano a tradurli in regole che mortificano le persone, violano i diritti umani più elementari e confermano un sistema di ingiustizie, con iniziative che sarebbero semplicemente ridicole, se non avessero risvolti drammatici. Ovvero quando la religione, invece di essere strumento di pace e di liberazione dell’uomo, diventa arma di oppressione e oscurantismo.

È il caso del Sudan, specialmente del Nord del Paese, guidato da un’elite corrotta e cleptomane, che tuttavia pretende di essere un baluardo dell’islam e non esita ad usare la religione, per controllare e sottomettere la popolazione.

Lubna Ahmed al Hussein, invece, è giornalista sudanese, redattrice del giornale al Sahafa, e collaboratrice delle Nazioni Unite. Lei sta dalla parte di chi, a causa di una religione che pure è la sua, si è vista arrestare, incarcerare, minacciare di essere frustrata e di pagare una pesante multa. La colpa, quella di essersi recata in un ristorante di Khartoum – e dunque in un luogo pubblico – “indossando un abbigliamento sconveniente, che contrasta con il regolamento sull’ordine pubblico”. Ovvero, un largo pantalone, un lungo camicione e un foulard in testa.

Questa intollerabile indecenza ha provocato l’intervento di una ventina di poliziotti che hanno arrestato Lubna e le altre donne che erano con lei. Tra di loro anche alcune cristiane originarie del Sud del Paese, che non sarebbero tenute a seguire i dettami della Svaria, la legge cranica, in vigore nel Nord. Tutte sono state condannate a quaranta frustrate a testa. Ma se Lubna si è difesa strenuamente e pubblicamente, sfidando così ulteriormente il potere e mettendo in evidenza, di fronte all’opinione pubblica mondiale, le assurdità di un sistema ottuso e oppressivo, alcune donne del gruppo si sono presentate il giorno successivo in commissariato, dichiarandosi colpevoli e subendo la loro dose di frustate. Le pressioni familiari e sociali sono ancora troppo forti in un Paese come il Sudan, perché una donna possa decidere di ribellarsi. Ci vuole molto coraggio, determinazione, fiducia in se stesse – e anche la capacità di sopportare le conseguenze di tutto questo, in termini di disapprovazione, denigrazione ed esclusione sociale – per resistere pubblicamente a un provvedimento come quello a cui è andata incontro Lubna.

Lei, però, la sua battaglia l’ha portata avanti sino in fondo. E può anche dire di averla vinta. Anche se i giudici l’hanno dichiarata “colpevole” e l’hanno condannata a pagare una multa di 500 sterline sudanese (209 dollari) o a scontare un mese di carcere. “Non pagherò – ha detto Lubna -, piuttosto vado in prigione”.

In questo modo ha voluto ribadire quello che aveva già scritto sul suo giornale e cioè la necessità di abrogare una legge ingiusta che può essere variamente interpretata da parte della polizia, e che porta ad arresti arbitrari e persecuzioni. Una legge che, invece di proteggere, serve a sottomettere e opprimere le donne, che nella maggior parte dei casi non protestano per paura.

Al processo di Lubna, però, si sono presentate molte amiche e sostenitrici. Tutte portavano i pantaloni.