I racconti del Premio letterario Energheia

Una storia_Alessandra Sanniti, Roma

_Racconto finalista sesta edizione Premio Energheia 2000.

 

10 febbraio 1849

Lorenzo Rosselli a Michele,

t’hanno scoperto. Fatti trovare fra due giorni in via dell’Anguillara, allo sbocco sulla piazza, dopo il vespro.

Fa’ attenzione.

 

Michele ripiegò freneticamente il biglietto, dopo averlo letto l’ennesima volta. Si guardò attorno con gli occhi lucidi, divorati dalla febbre, oscurati dall’ombra della stanchezza di due notti consecutive trascorse insonni, passate a brancolare tra i vicoli di Firenze, guardandosi alle spalle, stringendo convulsamente l’elsa del pugnale, senza un posto in cui riparare, senza fermarsi a riposare. Via dell’Anguillara e piazza di Santa Croce erano deserte, ammantate dall’inquietante brillantezza della neve. Il silenzio che gravava nell’aria sembrava tuonare alle sue orecchie peggio di qualsiasi frastuono. Si appoggiò ad un muro. Era esasperato. Da quell’attesa, da quel silenzio traditore, da quel freddo, da quella stanchezza angosciata, la stessa stanchezza angosciata che si trascinava dentro da sempre, come un fantasma latente che di tanto in tanto lo assaliva urlandogli contro il suo sfinimento, chiedendogli uno scopo, un qualsiasi scopo, per cui spossarsi a quel modo. Ma Michele non rispondeva a quelle domande: faceva finta di non udirle, lasciando che lo sfinissero ogni giorno di più, chiuso nella sua tormentosa freddezza.

Non si rese conto dell’arrivo di Lorenzo: quando sentì una mano posarsi sulla sua spalla, trasalì visibilmente. Lorenzo lo tranquillizzò; lo osservò in silenzio: quel volto, già affilato per natura, appariva ancor più tagliente; quell’espressione amaramente beffarda, ferocemente ambigua, era scomparsa, lasciando il posto ad uno sfinimento indifeso e nervoso. Si rese conto che Michele era allo stremo: solamente la tensione gli dava la forza per resistere. Non l’aveva mai visto così, e ne fu sorpreso. Non capiva che Michele non era affatto cambiato: solamente, questa volta, aveva gettato via la sua maschera.

Il giovane, rassegnato e rabbioso, fissò Lorenzo:

– Allora?

Lorenzo gli porse una lettera.

Prese il foglio e lo spiegò. Nella penombra luminosa della giovane sera innevata, si accinse a leggere con fatica.

 

7 febbraio 1849

Giacomo Ricasoli a Lorenzo Rosselli,

mi spiace doverti scrivere questa lettera, ma in qualità di capo della nostra fazione devo farlo. Ti ritengo il più convinto sostenitore delle nostre idee di libertà e unità nazionali, per cui sei il primo cui do questa notizia: Michele, il ragazzo che da un anno lavora per noi come spia, è un traditore. Fa il doppio gioco presso i nostri oppositori.

Ho prove inconfutabili. Mi spiace essermi sbagliato sul suo conto, ma soprattutto mi spiace per Michele stesso: pensavo di averlo guadagnato alla nostra causa, ma invece… non capisco come possa avermi ingannato così a lungo. Eppure c’era qualcosa in lui che mi faceva ben sperare, in un certo senso, ma non ho mai intuito precisamente cosa. Forse, neppure lui lo sa.

Dovrò comunicare la notizia anche agli altri; si deciderà d’ucciderlo.

Vorrei tanto che riuscisse a fuggire.

 

Michele ripiegò la lettera e la porse a Lorenzo che, afferrandola, riprese:

– Non parteggiavi né per noi né per loro. Ci hai traditi tutti. Perché?

L’altro fu scosso da un fremito. Forse per la febbre. Infine disse, semplicemente:

– Paga doppia.

Lorenzo rimase a fissarlo incredulo, stordito. Poi annuì:

– Ottima ragione. – Si fermò ad ascoltare il silenzio. – Ma in cosa credi, tu?

Michele s’appoggiò al muro, si scostò, vi si appoggiò di nuovo.

Guardandosi attorno, fece per parlare, continuò a tacere. Sospirò, mosse qualche passo avanti e indietro, si fermò:

– Credo in me. E combatto per me. – Riprese a camminare, testa alta, occhi sfuggenti. – Sissignore. Combatto per me solo. Ma non sono egoista. – Scosse il capo. – No, non pretendo nulla dagli altri.

Combatto per riuscire ad andare avanti, un giorno dopo l’altro. – Lottava per non far tremare la voce. Eppure gli sarebbe tanto piaciuto non dover lottare. Almeno quella volta. – Dio, un giorno dopo l’altro.

– Lorenzo faceva fatica a seguire quel discorso che non sembrava rivolto a lui. Ma Michele continuava: – Non è mai stato facile. – Guardò Lorenzo. – Però ci sono sempre riuscito. In un modo o nell’altro. Io affronto la mia vita. – Tacque, fissando l’amico che lo guardava scuotendo il capo. Riprese fiato, poi continuò sussurrando deciso:

– Fino a quattordici anni ho fatto il garzone per un bottegaio, e non ancora so chi diavolo fosse; però mi ha tirato su lui, e lo rispetto. Era uno di voi, liberale e rivoluzionario e patriota e tante altre belle cose. Lo hanno arrestato. I suoi ideali l’hanno buttato in galera… ci credeva tanto, povero diavolo, ma alla fine lo hanno tradito. – Si fermò, spiando il volto di Lorenzo, e riprese, ancor più veemente, gli occhi neri risplendenti di una strana luce: – E io mi sono ritrovato in strada. Mi svegliavo la mattina senza sapere dove avrei dormito la sera. Non sapevo neppure se sarei arrivato alla sera. Per due anni. Ma ora sono qui. Non mi sono fatto scrupoli, vero. Ma non avrei potuto fare altro. Non si può fare altro. Ho contato solo su di me.

Lorenzo lo guardò: Michele se ne stava fiero dinanzi a lui, aggrappato agli ultimi brandelli disperati di energia che gli rimanevano; gli occhi sembravano alteri, ma s’accorse che sfuggivano angosciati il suo sguardo: tra la freddezza e l’orgoglio che v’erano impressi per abitudine o per indole, scorse bagliori di inquietudine e tormento, che imploravano silenziosamente aiuto. Lorenzo ribatté:

– Non sei così cinico con gli altri, perché ti ostini a esserlo con te?

– Sospirò. – Non stai vivendo, stai sopravvivendo a te stesso. –

Perché Michele non gli rispose? Perché non lo contraddisse? Perché sentì la vista annebbiarsi, la gola bruciare sino a mozzargli il fiato?

Con uno sforzo immenso per far apparire salda la voce che s’incrinava, riuscì solo a domandare:

– Perché mi hai avvertito?

Lorenzo, che già s’allontanava, si voltò senza fermarsi:

– Perché mi fai compassione.

– Dopo un ultimo cenno di saluto, s’allontanò per sempre.

All’udire simili parole, Michele avrebbe reagito in qualsiasi occasione.

Ma non in quella. Perché egli stesso si commiserava.

E rimase solo.

Vagava stordito per i vicoli sconosciuti di Roma, cercando inutilmente un posto dove passare la notte. Gli pareva di muoversi in un sogno. Poi ripiombò d’improvviso nella realtà.

Era sboccato in un crocevia. Si sentì afferrare per il collo e trascinare indietro, nell’ombra del vicolo che aveva lasciato. Non reagì.

Non volle. Lasciò che lo sconosciuto lo spingesse colle spalle al muro, gli serrasse le mani alla gola. Michele gli afferrò i polsi, ma più cercava di divincolarsi più quello serrava la stretta:

– Pensavi di scappare lasciandomi qui come uno stupido? Dopo quello che mi hai fatto?… l’unico che ti abbia mai aiutato… l’hai tradito… non ti meriti aiuti di sorta, tu, spregevole… detestabile… non hai spina dorsale… sembri una bandiera, che sventola lì dove soffia il vento… dici di agire per il tuo meglio, certo, chi agirebbe a proprio danno?, ma tu hai paura… paura di fare una qualsiasi scelta e rispettarla…

– Aveva un’espressione inferocita. Continuava a serrare sempre più la sua stretta. Michele cominciò a boccheggiare. Guardava incredulo quell’uomo che non conosceva. Cominciò a scivolare in un baratro buio, mentre la vista si annebbiava, un ronzio caparbio gli tuonava in testa, il cuore gli martellava in gola… Non capiva più le parole dello sconosciuto, né lo vedeva più se non come una vaga ombra.

Quando sentì che la presa del ragazzo attorno ai suoi polsi si stava lentamente sciogliendo, l’aggressore allentò la stretta alla gola. Michele riprese a respirare affannosamente. Un raggio di luna gli illuminò il viso. E l’altro, accorgendosi solo allora di non riconoscerlo, s’allontanò correndo.

Michele si lasciò scivolare lentamente a terra, rifiutando di cercare un qualsiasi appiglio al muro. Rimase per un po’ di tempo in ginocchio, rantolando, finché si prese la testa fra le mani e non tentò di fermare tutto quello che gli ruotava vorticosamente attorno. Quando la situazione accennò a calmarsi, s’alzò in piedi, ma di nuovo le ginocchia si piegarono e fu trascinato in basso. Passò ancora del tempo, s’alzò definitivamente e, camminando rasente al muro, ricominciò a vagare senza sapere dove quei passi spossanti lo avrebbero portato.

Però doveva camminare, doveva muoversi. Non poteva fermarsi a pensare. No, tutto meno che fermarsi a pensare. Perché più pensava più voleva piangere. Chi diavolo era stato? Che potesse essere dannato, chiunque fosse! Di chiunque si trattasse, le sue parole avevano ferito più delle sue mani, perché se ora Michele poteva andarsene a zonzo sulle sue gambe, non riusciva a smettere di pensare, con una gran voglia di maledirsi. Chi diavolo era, lui? Ora proprio non lo capiva.

Non lo sapeva. Aveva sempre creduto di riuscire a comportarsi senza dover dipendere da nulla o da nessuno. Il mondo era ignobile, e ormai aveva imparato a sue spese ad accettare il dato di fatto, senza farne una colpa per nessuno. Il mondo aveva infierito su di lui senza regole, ora lui aveva imparato la lezione e continuava a comportarsi così come il mondo gli aveva insegnato, senza regole. Non era colpa sua. Non voleva nulla a limitarlo. Ma quella dozzina di parole di quello sconosciuto lo aveva trascinato per la gola di fronte alla realtà, e lo aveva abbandonato lì, ai piedi del velo squarciato di quei fragili pretesti.

E dietro quel velo, cosa rimaneva? Possibile fosse così orgoglioso da non voler guardare? Perché in realtà già sapeva cosa era stato nascosto lì dietro per tutto quel tempo. No, non avrebbe mai ammesso di essere così ferocemente deluso e sgomento e vendicativo e stanco.

Davide, in piedi, vicino al banco della taverna, guardava la sala ma non la vedeva. Era stordito, lontano, e blandamente indifferente, il che lo infastidiva parecchio. Fu oltremodo grato al padrone quando si vide spedire a prendere dell’acqua alla fontana in piazza. Niccolò, più che un datore di lavoro, era diventato un amico, per cui lo capiva anche dal più piccolo gesto del capo, e quando lo vide accennare prima al secchio e poi alla porta non attese altro.

Quando l’aria fredda gli punse il viso, gli sembrò di rinascere. La piazza era quasi deserta; eco di risa e di pianti giungevano smorzate dai vicoli. La luna campeggiava nel cielo terso, spazzato dal vento, mentre il sole cessava la sua agonia dietro l’orizzonte. Attraversò la piazza sino alla fontana, immerse piano il secchio nell’acqua e si sedette su un paracarro. Il secchio gli sfuggì di mano, s’allontanò galleggiando dal bordo della vasca, impigliandosi ad un delfino triste di pietra. Davide soffiò un’imprecazione tra i denti e tentò di sporsi, per recuperarlo. Solo allora se ne accorse: lì per terra stava riverso un ragazzo, esangue, privo di sensi, con la fronte che bruciava di febbre, si rese conto. Rimase per qualche istante a pensare. E ora, cosa avrebbe fatto? Non si nuotava certo nell’oro… Non avrebbe potuto aiutarlo.

C’erano già abbastanza problemi, non s’andava in cerca di altre grane…

Non avrebbe potuto… Però c’era qualcosa, in quel viso che posava sul selciato bagnato… Rimase a fissarlo. Non ne capiva la ragione, ma…

All’indomani, Michele si svegliò all’alba. La prima cosa che intuì fu una lama silenziosa e pallida di sole. Poi vide che la lama tagliava quello che doveva essere un soffitto, poi capì di trovarsi in una stanza.

Volse il capo, ma al minimo movimento la vista gli si offuscò, mentre tutto attorno prendeva a danzare senza ritmo. Chiuse gli occhi e aspettò, stringendo la mano attorno al lembo della coperta. Poi si decise a riaprire gli occhi e a guardarsi attorno: in un camino brillavano i resti stanchi di vivide lingue di fuoco. E accanto al camino, seduto su una sedia, stava un uomo, gli occhi arrossati eppure vivaci. Dal modo stanco in cui si protese appoggiando i gomiti sulle ginocchia al passaggio del suo sguardo, Michele capì che doveva essere rimasto sveglio tutta la notte, fermo su quella sedia. Senza allontanarsi da lui. Ne fu sorpreso.

L’uomo annuì con aria soddisfatta, s’alzò, aprì la finestra dinanzi al letto, si volse a fissarlo, gli spiegò con calma la situazione. Quando finì di parlare, Michele si sentiva in dovere di dire qualcosa, anche se ciò che lo incuriosiva di più era sapere per quale bizzarro motivo lo avessero aiutato. Ben lungi, almeno per il momento, da porre una domanda simile, tentò di cominciare a parlare senza ancora saper cosa dire. Per cui, fu ben lieto quando si rese conto che gli risultava faticosissimo far udire la propria voce. Niccolò gli si avvicinò:

– Non parlare, se non te la senti ancora. Io devo andare. Sono lieto che ti sia svegliato abbastanza presto da poter parlarti. Di tanto in tanto tornerò, oppure ti manderò qualcuno. Una cosa, devi promettermi, se mi porti un poco di riconoscenza: non preoccuparti di nulla e riposa. – Sorridendo scomparve lungo la scala.

Michele lo accompagnò con lo sguardo sinché non lo vide più, semplicemente stupefatto e del tutto disorientato di fronte a quelle parole.

S’era ripreso in pochi giorni. Aveva raccontato la sua storia, naturalmente, ma ormai era abbastanza accorto e previdente da non rivelare nulla di troppo preciso. Anche se, a dire il vero, per la prima volta si risentiva per essersi comportato così ambiguamente nei confronti di gente che l’aveva tanto aiutato. Però, d’altronde, non si sapeva mai, e non era disposto ad ammettere d’aver agito male. Il suo atteggiamento lo infastidiva, lo rattristava, anzi, ma non era sbagliato.

E ne fu ancor più rattristato quando, mentre s’accingeva ormai ad andarsene, Niccolò gli offrì di rimanere a lavorare come garzone. Cosa avrebbe potuto rispondergli? Non aveva mai avuto motivo per dire un vero grazie, un grazie che non fosse falso o costretto o rabbioso. E allora?, cosa avrebbe risposto? Pensava di poter affrontare qualsiasi situazione, ma a questa non era preparato. Quanto tempo era trascorso da che gli avevano offerto un lavoro onesto? A dire la verità, l’unico ad averlo fatto era stato quel bottegaio, quando era ancora troppo piccolo per capire granché della situazione… Ma anche quel lavoro non gli era stato offerto; l’avevano solo preso a servizio. E basta. E da allora? Nessuno che l’avesse assoldato se non come spia o ladro. Ecco come era vissuto. Come spia o ladro per conto terzi, rifiutandosi di diventare un sicario più per paura del carcere che altro, talvolta rubando il pane, talvolta costretto ad ingoiare il suo orgoglio e ad elemosinare un lavoro di porta in porta, anche solo per un giorno… Ed ora, invece, Niccolò gli aveva offerto con semplicità ciò che da anni gli mancava. Non solo un lavoro. Gli aveva dato fiducia, quella fiducia di cui non aveva mai potuto godere. Per cui s’era sempre sentito derelitto, e non s’era mai curato degli altri più di quanto loro si curassero di lui, tanto cercava in silenzio la sua rivalsa. Figurarsi se aveva mai avuto un po’ di fiducia in sé.

Michele accettò. Davide fu ben felice di avere un compagno di lavoro; nei momenti di libertà lo portava in giro a fargli conoscere la città: Roma. Michele cominciò ad amarla. Perché gli stava dando una nuova vita, aiutandolo a cancellare la vecchia senza lasciargli troppo tempo perché il suo orgoglio ferito potesse fermarsi ad ammettere i suoi errori.

E così sbrigava il proprio lavoro assieme a Davide per le strade illuminate dal sole di marzo, di aprile e di maggio, per quelle strade risuonanti di vita; i tempi di Rossi sembravano tanto lontani, anche se ora il popolo aveva ben altri problemi cui pensare, mentre l’esultanza per la sconfitta dei Borbonici si mescolava all’allegria che serpeggiava per le strade. Era la gente che si ostinava ad affrontare i suoi problemi con un’accettazione talmente gaia da divenire combattiva.

Ancora più tenaci, ora che sapevano di poter lottare per ciò che volevano, ancora più tenaci, ora che sapevano di esser vicini a ciò che volevano. Michele li guardava ammirato mentre animavano i vicoli, e un po’ l’invidiava, forse, per la forza e il coraggio. Ma mai s’era sentito più vicino a qualcuno. Ed era un qualcuno neppure ben definito, un’impressione, un qualcosa che vibrava nell’aria, arrivando a lui attraverso le grida, le risate, i canti che risuonavano lungo le strade. E quel qualcosa li univa tutti, li accomunava, sicché anche lui si sentiva vicino a loro, e lentamente, cominciò ad avvicinarsi senza accorgersene a ciò per cui andavano combattendo. Finché non si sorprese più volte a chiedersi se non sarebbe stato meraviglioso avere qualcosa per cui lottare, in grado di far dimenticare tutti gli altri affanni, avere qualcosa in cui sperare qualcosa di più grande e immortale cui legarsi per continuare a vivere a onta di tutto il resto.

Davide era un caro amico. Michele gli era immensamente grato.

Per quello che già aveva fatto, per averlo salvato e aver diviso il lavoro e il retrobottega e la compagnia di Niccolò e Roma, cioè tutta la sua vita, con lui. Per quello che continuava a fare. C’erano momenti in cui Michele, per qualche ragione, sembrava incupirsi, e, mentre continuava a lavorare, bastava un nonnulla per irritarlo e strappargli di bocca le frasi più taglienti che mai cervello avesse potuto forgiare.

Ma Davide si prendeva in silenzio tutti i tagli che quelle frasi gli infliggevano, accontentandosi di udire quelle richieste di perdono che arrivavano poco dopo, a mezza bocca. Michele capiva che in quei momenti ce l’aveva più con se stesso che con quel povero malcapitato.

Per cui chiedeva a Davide di scusarlo, essendo abbastanza legato all’amico e abbastanza consapevole del male che si provava, da voler cercare di porvi in qualche modo riparo. E Davide lasciava fare, perdonando tutto per quelle piccole richieste di scuse, perché si convinceva sempre più che Michele, in fondo, aveva solo bisogno di sfogare il suo livore e la sua amarezza, dovendo vedersela col suo orgoglio e la sua sfiducia per poter rinnegare tutto il suo passato sbagliato, ora che avrebbe voluto iniziare di nuovo. Ma semplicemente non poteva cominciare senza aver chiuso i vecchi conti. In fondo, aveva un buon cuore. E così Davide capiva, Michele no.

Davide era intelligente, sempre di buon umore; lavorava sodo, non si lamentava mai. Amava Roma perché diceva che Roma gli aveva dato tutto, ma non era Romano. Michele lo scoprì solo dopo molto tempo, nonostante avesse già notato una certa somiglianza: Davide era nato a Firenze, fratello di Lorenzo. Quando lo seppe ebbe un brivido che passò inosservato a tutti. Il fratello di Lorenzo. Un altro fantasma. A quanto pareva il suo passato non smetteva di tormentarlo.

Gli parve allora, stranamente, che Davide l’avesse salvato per due volte, la prima per mano del fratello, la seconda quella sera in piazza.

Cominciò ad essergli doppiamente grato. Anche se con una sorta di vaga, rispettosa freddezza, visto che ora non poteva fare a meno di ricordare ogni volta che lo guardava. Anche se con un vago senso di colpa, per il fatto di non avergli ancora rivelato nulla.

Quella sera, dopo che l’ultimo cliente se ne fu andato, Davide s’era seduto su una panca vicino al camino, svolgendo tra le mani una lettera che gli era giunta nella mattina. Michele e Niccolò stavano ad un tavolo poco dietro di lui. Attesero in silenzio che finisse di leggere.

Lo videro posare la lettera sulla panca. Non s’accorsero che la mano gli tremava. Il silenzio continuò. Un silenzio strano, assordante, crepitante delle fiamme nel camino. Niccolò si decise a chiedere cosa dicesse la lettera. La risposta non arrivò. Davide aveva appoggiato i gomiti sulle ginocchia; non sembrava aver udito. Michele aspettò qualche istante. Si decise ad alzarsi, s’avvicinò al fuoco. Davide cominciò a parlare:

– Mio fratello… – Michele si sedette accanto a lui. – Mio fratello è morto… – Michele ebbe un tuffo al cuore. Davide continuava a farfugliare: – L’hanno ucciso… quelli della sua stessa fazione l’hanno ucciso… – Le lacrime gli rigavano silenziose e amare le guance. –

Aveva aiutato un tale a scappare, una spia che aveva tradito… L’hanno scoperto… e l’hanno ammazzato…

Il sospiro di Michele si mozzò d’improvviso. Niccolò se ne rese  conto. Davide no. Appoggiò la testa sulla spalla dell’amico, che rimase immobile:

– Che Dio la maledica… che quella dannata spia sia maledetta… Giuro che se la scovo la uccido io…- Michele rabbrividì, tese una mano titubante a posarsi sulle spalle dell’amico, incapace di dire o fare qualsiasi altra cosa. Finché, poco dopo, Davide non s’alzò di scatto e non uscì in strada.

Michele restò a fissare le fiamme con l’aria frastornata e gli occhi lucidi. Ma cosa aveva fatto? Cosa aveva mai fatto? Possibile potesse essere stato tanto indifferente e crudele in tutti quegli anni? Aveva causato la morte di un uomo; che l’aveva aiutato, per giunta. E quanti uomini aveva portato alla rovina solo perché qualcuno aveva portato alla rovina lui?

Era una sensazione strana, sentire di non bastare più a se stesso e aver bisogno di qualcun altro, per lo meno con cui parlare. A dire il vero l’aveva sempre provata, quella sensazione, però non aveva mai osato darle ascolto. E anche ora se ne stava in silenzio a covare la sua rabbia, senza pronunciare parola, aspettando disperatamente che Niccolò gli dicesse qualcosa. Si lasciò scivolare a terra dinanzi al fuoco, imponendosi aspramente di non piangere. Niccolò capiva; gli chiese semplicemente cosa fosse successo. Michele lo guardò, sollevando il viso, ormai una maschera esausta e irrequieta:

– Ho ucciso un uomo.

E gli raccontò tutto. Senza nascondere nulla, né a Niccolò né a se stesso.

– Non ho mai tenuto conto degli altri, né nel bene né nel male… pensavo per me, degli altri non m’importava… perché avrebbe dovuto, se agli altri non importava nulla di me… Ero… sì, ero furioso, verso tutti… furioso… Non dovevo… non volevo essere debole… no, niente scrupoli e niente ideali, m’avrebbero intralciato… dovevo essere libero da tutto, o sarei finito. E avevo troppa paura e voglia di non darla vinta a chiunque per poter finire… Dio mio, cos’ho fatto…

Quanti uomini avrò distrutto?, quanti?…

– Pochi, forse tanti… Non pensarci. Tu, tu stesso sei stato la prima persona che hai distrutto e continuato sempre a calpestare.

Michele guardò il fuoco in silenzio. Gli occhi gli bruciavano; e alla fine li lasciò piangere.

– Ora, cosa farò con Davide?

– Qualsiasi cosa farai, sarà per il suo meglio. Non sei affatto crudele come temi.

Si era agli inizi di giugno. Oudinot aveva interrotto le trattative, e i combattimenti infuriavano. I colpi di cannone tuonavano e si spegnevano sul Gianicolo, così forti e frequenti che ormai non ci si faceva più caso. Nell’aria non si respirava paura, ma una sorta di entusiasmo frenetico.

Davide entrò nel retrobottega il mattino seguente. Trovò Michele che rimetteva ordine su uno scaffale: si voltò subito, non appena udì Davide rientrare. Erano entrambi distrutti, pallidi, stanchi, gli occhi rossi. Ma entrambi sembravano essersi finalmente calmati, l’uno dopo una notte di strazio, l’altro dopo anni di logorio. Michele rimase a guardarlo per qualche istante, con una sorta di comprensione trepidante nello sguardo, cercando qualcosa da dire. Ma non ci fu bisogno di dire nulla. Davide sorrise stanco e scosse il capo blandamente. S’avvicinò allo scaffale, cominciando a dare una mano. Michele non aveva mai dubitato della tenacia dell’amico, e l’aveva ammirato, per questo; ma ora era sorpreso per la forza d’animo che mostrava. Quando ebbero finito, Davide cominciò:

– Non lascio la taverna, ci sono troppo affezionato… Ma ho deciso che ogniqualvolta potrò andrò sul Gianicolo a rendermi utile… – Sorrise appena. – Mio fratello avrebbe fatto la stessa cosa. Ora mi chiedo perché non mi sia deciso prima.

Michele lo guardò atterrito, gli occhi ancora più rossi. – Se vuoi farti ammazzare va’ pure… dannazione, va’ pure… Guardali, t’aspettano a braccia aperte… – e tese la mano verso la finestra.

– Non m’ammazzeranno. Non temere.

Michele gli afferrò un braccio:

– Non voglio che anche tu te ne vada.

Davide lo guardò interdetto e interrogativo, poi sorrise per tranquillizzarlo e si liberò dalla stretta, sparendo nel vicolo.

Quando, poco dopo, Niccolò entrò nella stanza, Michele si guardò intorno come una bestia presa in trappola. Indicò la porta che dava sul vicolo. Urlò:

– Ma lo sai dove se ne andava?

– Sì.

– Sì – ripeté, a voce bassa. Poi, in tono più forte: – Già ho lasciato che ammazzassero il fratello per causa mia; ora non voglio lasciare che ammazzino anche lui.

– Ha scelto così. Non sarà colpa tua, ora.

Michele scosse il capo:

– Suo fratello è morto per colpa mia. Penso di dovergli qualcosa.

Michele raggiunse Davide sul Gianicolo nel pomeriggio. Continuò ad accompagnarlo sul colle ogni giorno, senza mai permettersi di lasciarlo solo. Tanto che, alla fine, erano in molti a conoscerlo, sul Gianicolo, e lo consideravano con ammirazione come uno dei più strenui difensori della Repubblica. Lui, figurarsi. Ma il fatto era che, a lungo andare, proprio lui cominciò a crederci.

Quel giorno Davide, affiancato al pendio del terreno dal lato sinistro, combatteva al riparo di un vallo. Michele aveva fatto in modo di coprire l’amico sulla destra, restando a sua volta scoperto sulla diritta.

Uno squadrone francese era avanzato. Nulla di particolare, doveva trattarsi di una semplice sortita da respingere, come già ne erano state respinte tante, tra i proiettili dei cannoni che fischiavano all’intorno.

E infatti, non ci volle molto perché i superstiti della truppa francese volgessero in fuga. E infatti, Michele non fu colpito dal fucile nemico, ma dalla scheggia di un proiettile di cannone precipitato vicino a lui.

Quando Davide si volse, lo vide seduto a terra, gli occhi chiusi, il capo reclino sul petto, il respiro spezzato, mentre si premeva il fianco destro con una mano. Si sentì piegare le ginocchia. S’inchinò e gli sollevò piano il volto; Michele lo lasciò fare, senza preoccuparsi di riaprire gli occhi. Sentiva il suo stesso sangue bagnargli caldo la mano, scendere lento lungo il fianco; gli parve quasi un sollievo dopo il dolore lancinante che aveva provato. Riaprì gli occhi, li socchiuse per la luce inaspettata, li aprì di nuovo. Davide gli proibì di parlare. Ma Michele sorrise in un modo strano e accennò a scuotere il capo. Quando Davide s’alzò in fretta per chiedere aiuto a qualcuno, gli afferrò un braccio con la forza che gli restava:

– Resta qui. – Davide guardò quegli occhi supplichevoli e si costrinse a fermarsi a malincuore, mandando qualcuno in cerca di aiuto.

Michele mutò espressione:

– Ora vedremo, cosa mi merito.

Guardò Davide che se ne stava inginocchiato accanto a lui, tradendo la propria angoscia. Ma almeno lui era salvo, pensò Michele. Gettò la testa all’indietro per respirare meglio. E vide il cielo luminoso sopra di lui. Com’era bello… Gli vennero le lacrime agli occhi. Non per paura o dolore. Solo, pensò a quella sua vita non vissuta e a quella sua vita che solo ora cominciava a capire. E gli venne una gran voglia di piangere. Chiuse di nuovo gli occhi, e lasciò che le lacrime gli bagnassero il viso. Poi cambiò pensiero. Si stava affezionando alla sua vita, dannazione, ma se doveva andarsene era felice di farlo a quel modo. Che vivesse o morisse, che succedesse quel che doveva succedere.

Non gli restava che attendere. Sorrise ad occhi chiusi, con una rassegnazione serena e triste, e sentì per la prima volta quanto salate fossero le sue lacrime. Lui aveva finito.