I racconti del Premio Energheia Europa

Un uomo senza cappello_Alessandro Morellon Morato, Madrid

Menzione Premio Energheia Spagna 2018

Tutti quanti hanno il proprio cappello tranne un uomo che corre disperato, con la disperazione propria di chi ha appena perso tutto. Si direbbe che gli sia saltato via direttamente dalla testa per terra, precipitandosi giù per strada, incoraggiato da una corrente d’aria che soffia solo quando lui gli si avvicina.

L’uomo lo insegue di corsa, all’inizio un po’ imbarazzato. Guarda gli altri passanti e fa spallucce, cercando di sorridere senza riuscirci. Poi, il cappello prende distanza, rotea più celermente e si addentra tra la folla. L’uomo si sente pervadere dall’angoscia e si lancia di gran carriera, con il timore negli occhi e le braccia tese; strilla e lancia invettive al suo cappello fedora di feltro marrone, tesa stretta e cento per cento pelo di coniglio. Nessuno di quelli che ha attorno si sorprende, come fosse pane quotidiano. Una signora fa il segno della croce, un uomo si porta le mani alla propria fedora come per riflesso, un cane drizza le orecchie quando il cappello gli rotola accanto.

Il cappello, sentendosi profugo, piega per una strada, si infila in un viale, gira ad un angolo e si precipita in discesa su una passeggiata in pendenza. Ha un non-so-che di un distacco energico e trionfale. Si potrebbe dire, tra lo scegliere una pietra e lo sgattaiolare tra le gambe umane, che il cappello assapori la libertà acquisita, orgoglioso di quel gesto eroico di abbandono della testa. Quell’atto di fede.

L’uomo corre e il vento fa sì che la cravatta gli finisca sulla spalla. Sente di sudare sotto il completo, sente quel freddo anomalo sulla pelata ed lì che diventa cosciente della perdita subita: sa di non essere nessuno senza il suo cappello, solo un uomo calvo che corre e si dispera, e continua a correre fino a che non gli mancano le forze, fino a darsi per vinto e a rimanere con la testa scoperta e la vergogna, la solitudine, lo scoraggiamento di chi non ha niente con cui coprirsi la testa. Soffre, soffre molto. Abbandona anche la borsa da lavoro con la sua relazione di cinquantasette pagine sulla quale ha lavorato tutta la settimana. Ma che ne sarebbe di lui, della sua reputazione, dell’indubbia integrità di cui dà prova da quando è entrato in azienda, se si presentasse negli uffici senza il suo cappello? Non teme tanto un rimprovero per aver perso la relazione ma per il palesamento della sua fragilità. Perché un cappello è tutto. Se si perde ciò che è senza riserve, cosa ci resta? Non potrebbe forse perdersi tutto il resto? Se oggi restasse senza cappello domani potrebbe perdere la giacca, l’ombrello, l’integrità. Il cappello non è un cappello,  è un ideale, una voce per dire al mondo: “Sono fintantoché sono stato, sono qui e qui rimango”. Allora torna alla corsa.

Il cappello, che di sinuosità se ne intende, schiva una bancarella di caldarroste, approfitta di un colpo d’aria e attraversa la strada tra le auto. Deve riconoscerlo, è un cappello elegante anche mentre rotola. L’uomo si rimbocca le maniche della camicia e stende le braccia di nuovo come se potesse richiamarlo indietro. Non ha lavorato duramente tutta la vita per meritarsi quel cappello? Non ha sempre cercato di comportarsi con rettitudine e buone maniere? Ma adesso, sì, lo vede allontanarsi in quella strada in pendenza, sembra che stia per fermarsi ma riceve un calcio da un passante distratto e torna a guadagnare velocità.

L’uomo si allarma e si interroga sul suo essere senza cappello. Trentasette anni ad andare a lavorare con il cappello, trentasette anni a essere una parte di quel cappello, acquisendo un’identità grazie a quel pezzo di feltro confezionato a mano che adesso si allontana da lui come per una volontà propria e inaspettata. Cosa gli avrà mai fatto? Sarà per quella volta quando lo dimenticò a casa di Angi, che è una fumatrice incallita? O per le volte in cui lo ha lasciato buttato su qualche sedia o sofà, senza prendersi la briga di appenderlo. Chi lo sa.

Ora lo vede cambiare ritmo e infilarsi in una traversa e giurerebbe che stia giocando con lui, effettuando alcune capriole, dando prova della sua autonomia. Ma allora, si chiede mentre prende una curva e taglia la distanza, il cappello è capace di essere cappello senza di lui? Può raggiungere la completezza, l’allegria momentanea, così lontano dalla sua testa? Potrebbe arrivare a cavarsela da solo se adesso smettesse di correre e si girasse, abbandonandolo? No, non lo vuole fare. Vuole recuperarlo e tornare a sentirsi uno con il cappello. Ritornare alle dimensioni abituali, ai tempi del cappello e valigetta, cravatta e ombrello. Dove ha lasciato l’ombrello? Non importa. Fischia come chi chiama un cane per farlo tornare, ma chiaro, il cappello non è un cane e, in più, è molto più orgoglioso. Sono proprio quella vanità e la prospettiva di una vita priva di schiavitù a conferire alla fedora il desiderio di potere.

Il cappello guadagna prontezza nella sua insubordinazione e si lancia per un dirupo. Rotola con forza fino al bordo del precipizio e poi si lascia cadere nel vuoto, plana, si serve della propria linea aerodinamica per discendere come chi affonda poco a poco nell’acqua. L’uomo non ha dubbi. Torna ad essere tutto determinazione. Corre con la lingua fuori e la pelata fradicia di sudore mentre pensa a tutte le cose che sta per perdere se si lascia scappare il cappello. Poi salta.