Futuro Remoto, I racconti Futuro remoto

Un futuro perfetto_Riccardo Roversi

_Da quanto, Lauro non assaporava l’indolenza della campagna. L’odore del fieno tagliato o il fresco maculato dei pioppi, la calma dell’acqua nei canali, l’assurda inerzia del tempo sotto agli alberi di fico.

Vent’anni, forse più, di lontananza da quel luogo dove lo spazio non è che un contenitore di se stesso. Perciò non esiste se non in rapporto alla propria estensione, ignaro di ogni altra distanza. Laddove i canneti sul ciglio dei fossi e degli argini non sanno, né vogliono sapere del volo di qualcosa che non sia uccello, oppure vento. O colore, che plana sulle foglie. A luglio e in agosto il tempo esausto poltriva addirittura al di là della sua afosa abitudine, arrestando per sempre il fluire delle cose. Solo le albe e i tramonti continuavano il loro alternarsi, illuminando e oscurando un mondo indifferente, persino alla propria medesima indifferenza.

Un alloro, così caro agli oracoli, sventolava sul bordo di uno stagno. L’aveva piantato suo padre il giorno in cui lui era nato, per questo gli aveva dato quel nome, affinché pianta e fanciullo crescessero insieme e, insieme, morissero in un altro giorno lontano nella campagna.

Riflesso nello specchio di quel macero, Lauro scriveva un messaggio senza destinatario.

Dio non esiste se non si crede, eppure c’è quando lo si pensa. Com’è strana la mente dell’uomo: prima ha creato un mondo piatto, poi uno rotondo e di entrambi ne ha rispettato le convenzioni, pur ritenendoli frutti immaturi di un pensiero che edifica da sé la propria labile contingenza e la sua immortale infinitudine.

Solo parole. Crudeli, come le ragioni del suo ritorno alla casa avita: una donna ormai estranea che si rifiutava d’amarlo e il rifiuto di amare un contesto ormai estraneo.

Lui non si era mai rassegnato all’oblio degli ideali in cui aveva creduto, né alcuno degli avvenimenti successivi a quegli anni saturi gli sembrava rivestire qualche importanza, niente più che valesse la pena. Reputava il mondo un campo inaridito, coltivato da esseri senza la coscienza di essere. Così era riandato alle proprie radici, come un reduce che torni dal fronte senza ritrovare la pace, tranne che nei luoghi della sua infanzia innocente.

Lauro si distese sotto alla pianta di alloro, chiuse gli occhi e cadde in un muto sonno che scivolava lento in fondo a un imbuto scuro, quasi come in un volo cieco che scenda in cerchi concentrici nel nulla, che non ha davanti a sé che altro nulla. Poi, all’improvviso vide una luce. Da minuscola a piccola, a grande, enorme, gigantesca, smisurata. Era l’entrata di un sogno.

Emerse rotolando sull’acciottolato di una piazza. Si rialzò, dovunque, intorno ragazzi e ragazze passeggiavano e parlavano fra loro, indossando abiti sgargianti e sfoggiando bizzarri capelli. Alcune voci alle sue spalle lo chiamarono.

“Manchi solo tu, sbrigati, dobbiamo avviarci!”

“Per andare dove?”, chiese frastornato.

“Come sarebbe a dire – commentarono quelli perplessi – si va a cambiare il mondo. Non dirci che ti sei arreso”.

“No, eccomi… – balbettò lui – ma finirà anche stavolta? E quando?”

Le voci risero di gusto.

“Mai più, Lauro. Un futuro perfetto ci attende”.

S’incamminò piano seguendoli. Forse non è vero che durerà per sempre, pensò dormendo, però ne vale ancora la pena. Rimase un po’ indietro e si affrettò, li raggiunse e disse loro che no, non si sarebbe più svegliato, che preferiva accompagnarli nel gran sogno.

Intanto, gli tornavano alla mente gli ultimi versi di una bella poesia americana della sua adolescenza, il cui significato solo adesso comprendeva davvero.

Finii con le stesse terre

finii con un violino spezzato

e un ridere rauco e ricordi

e nemmeno un rimpianto.