I racconti del Premio letterario Energheia

Un calderone_Paolo Di Paolo, Roma

_Menzione Giuria decima edizione Premio Energheia 2004.

– Che sembra che pianga lo schermo, che gli scendano lagrime grosse e cominci a tremolare la lucetta verde, come le tue dita, un poco, e il naso: non dirmi che sto piangendo, adesso piango, com’è buffo e stupido, davanti al televisore delle quattro del pomeriggio, mentre fuori canterella aprile e le labbra sanno di caffè. Il ragazzo abbraccia la nonna, la stringe a sé: che sorpresa, grazie! dice rivolto all’occhio della telecamera, e si arrossano gli occhi suoi e della nonna; amore di nonna, lei dice, e come sei bella, lui dice, come sei bellissima nonna, che sembri una principessa – e tu ti chiedi chissà quant’è che non la vede, magari un giorno, magari due, eppure a guardarli da qui sembra una vita, una vita intera che non si vedono, e si ridicono le risapute cose, richiamano sbadatamente qualche ricordo, le fettuccine quelle ruvide che il sugo di pomodoro non scivola via: nonna ti ha portato le lasagne, e il pollo con le patate, sei contento Gianluca? Dice la nonna e sorride, ed è un sorriso così bello, largo e sfavillante come d’ogni nonna al suo mimmo, al suo bello, al suo cocco: nonna contadina, come quella nostra, che ha saputo di miseria e guerra, e doveva essere bella davvero, e fare molto innamorare, che forse avrebbe innamorato anche noi, con le mani lisce di un tempo, che adesso una corteccia nasconde, ma sono ancora là sotto, le mani, lo sai, il liscio delle mani che sanno impastare e fare pane e pasta frolla e cuocere e lavare: sembrano un miracolo le mani delle nonne, e scacchiare le viti, mietere, e accarezzare – e cucinare, la cucina povera del pane bruciacchiato, delle ciambelle al vino, il tacchino di Natale e l’abbacchio di Pasqua, e in bocca loro la cucina sembra sempre il programma di una festa, mette allegria – e nostalgia: delle corse sul viale dopo il pranzo della domenica, i nascondini, i soliti nascondigli, la cantina di polvere, vinaccia e formaggio, e qualche altro mistero, piscio segreto e sesso solitario.

Allora vedi questo ventenne, gli occhi blu e la voce rotonda, che canta in televisione, che sta lì per cantare e per stare in televisione, che gli fanno incontrare sua nonna e piange e fa piangere, che siano vere o no le sue lagrime, piange, e piange lui e un po’ piangi anche tu: di tenerezza per questa vita, almeno, che è fragilissima – come le ossa delle nonne, – che Iddio sappia conservarle a lungo, più a lungo possibile, che ci tengono ancorate alle ginocchia loro e alle gonne verdi di flanella, come quando non sapevamo niente del mondo, e adesso che ne sappiamo qualcosa, appena qualcosa, che le nonne nostre siano lì a chiudere le persiane quando scende il sole, ci fa sentire un poco più sicuri e più vivi.

 

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Cammina a stento, oscilla come un pendolo. Mangiucchia biscotti, e le briciole rotolano sulla felpa verde. Tiene stretto il manico d’una busta di pezza; l’altro sua nonna. Lui uno sguardo bambino, perso (l’età la dicono i primi peluzzi rossi sul mento); lei occhi impauriti, protettivi. Ma chi protegge chi? E’ la vecchia signora dai capelli scomposti e le rughe d’albero antico a prendersi cura del nipote cresciuto? O è lui forse il custode dell’àvola, pronto a sorreggerla se la tradissero i piedi stanchi, puntando sulla strada i suoi, tanto più malfermi, di ragazzo Down?

Tutt’intorno, Roma: di vecchie mendiche che sembrano baciare le scarpe dei passanti, – e il fritto di ogni ora, alito di qualche invisibile Mc Donald’s, e sughi d’aglio. Sembra già estate. E quante scolaresche ci sono in giro stamani? Come sciami, e Roma lo sconfinato alveare, – dalla terrazza degli Aranci gli occhi lo mangiano. Una scolaresca che si trascina dentro questa città-mondo, telefonini e assorbenti in fila per due, per tre; ti piacerebbe saperne gli umori, lo sguardo stupefatto di ragazzina arrivata da minuzia geografica di nord o di sud, con i cinquanta euro da gelati e da chiamarci a casa, e i dieci in più della nonna: che ci compri quello che vuoi, a nonna.

– E la tv credevi che avesse detto già tutto, ti avesse insegnato quanto c’è da imparare del mondo, e invece no: adesso la vedo da fuori, Cinecittà, pensa qualche Serena, ma un giorno non si sa mai ci starò dentro, a ballare, a cantare, a recitare, o alla casa del “Grande Fratello”, che poi è un’esperienza che comunque sia ti cambia la vita, e te la cambia dall’oggi al domani, ti ritrovi al “Costanzo show” come niente e a fare le serate in discoteca come Costantino che prende diecimila euro a serata, e finché dura ben venga; ma il fatto è che bisogna andarsene da casa e fare una vita autonoma, non come qua da noi che si sta a casa fino a trentacinque anni: ognuno deve fare le sue esperienze, cercando sempre di essere se stessi… e poi comunque sia a Roma ci stanno locali decenti, la sera se esci c’è sempre qualcosa da fare, discoteche e quant’altro, che non è detto che uno deve andare per forza in discoteca per divertirsi, una serata al pub con gli amici, gli amici quelli veri, che sono pochi, gli altri sono tutti conoscenti, una serata al pub ti diverti comunque… magari l’anno prossimo faccio scienze della comunicazione alla Sapienza, pure se dicono che è un po’ un casino, perché tanto se vali poi emergi comunque, e comunque sia a Roma hai molte più possibilità –.

Qui si sta da Dio, dice la cartolina da scrivere stasera, peccato, che dura così poco; oppure ridirà i versi di una canzone di Tiziano Ferro, e quella per Mirko te la lasci per ultima perché ci va messo tutto il cuore: però Roma, pensa Alice e adesso guarda fuori, la gola le pizzica un po’, mentre Serena è ancora sotto la doccia e la cena è alle otto e poi chi li sente i prof: – Però Roma, con questo tramonto di miele, pare che ti parla, che ha mille occhi, e se cammini distratta ti richiama da dietro, vuole che la guardi e t’inchini: tipo stamattina usciti dall’albergo scendevamo su via Cavour e a un certo punto non mi ero accorta di una chiesa bellissima, perché avevo Vasco nelle orecchie e pensavo ai fatti miei, però all’improvviso, mi sono voltata come se qualcuno m’avesse chiamata da dietro, Alice! e insomma c’era questa chiesa pazzesca, che mi sembrava di averla già vista da qualche parte, Santa Maria Maggiore, proprio stupenda, e così ho pensato che a Roma i monumenti e le chiese hanno tutti una voce e pretendono tutti attenzione, giustamente –

Di là pure, alla 134, tra il vapore delle cinque docce, i maschi si danno il profumo e si scelgono la maglietta più fica, buttando i panni sui letti alla rinfusa: questa? che te ne pare? Stasera si acchiappa, urla un Daniele, si rimedia. Scettico Carlo: seh! Sbotta, le romane, figurati, le romane non la danno.

 

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“L’attirare gli occhi degli altri in una gran città è impresa disperata; e veramente queste tali città non son fatte se non per i monarchi, o per uomini tali che possano smisuratamente soverchiare la massima parte del genere umano in qualche loro pregio per lo più di fortuna, come ricchezza immensa, dignità vicina a quella di principe, o cose simili. Fuori di questi casi, voi non potete godere di Roma, e delle altre città grandi, se non come puro spettatore […]

Lasciando da parte lo spirito e la letteratura, di cui vi parlerò altra volta, mi restringerò solamente alle donne, e alla fortuna che voi forse credete che sia facile di far con esse nelle città grandi. Vi assicuro che è propriamente tutto il contrario. Al passeggio, in Chiesa, andando per le strade, non trovate una befana che vi guardi. Io ho fatto e fo molti giri per Roma in compagnia di giovani molto belli e ben vestiti. Sono passato, spesse volte, con loro, vicinissimo a donne giovani: le quali non hanno mai alzato gli occhi; e si vedeva manifestamente che ciò non era per modestia, ma per pienissima e abituale indifferenza e noncuranza: e tutte le donne che qui s’incontrano sono così. Trattando, è così difficile il fermare una donna in Roma come in Recanati, anzi molto più, a cagione dell’eccessiva frivolezza e dissipatezza di queste bestie femminine, che, oltre di ciò, non ispirano un interesse al mondo, sono piene d’ipocrisia, non amano altro che il girare e divertirsi non si sa come, non la danno (credetemi) se non con quelle infinite difficoltà che si provano negli altri paesi”.

Giacomo Leopardi a Carlo Leopardi, Roma 6 dicembre 1822

 

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“Si sfogano, si linkano, si consolano, si cercano. Giorno dopo giorno, a moltiplicarsi sono soprattutto i blog delle ragazze, molto spesso, scritti senza badare troppo alla bella parola o addirittura all’ortografia, rigorosamente a sfondo nero con testo in tinte fluo, o bianchi e rosa con corredo di coniglietti”.

da La Repubblica, sabato 10 gennaio 2004

 

“Amo le coccole. La cioccolata. L’intimo. Tutto ciò che è rosa. Tutto ciò che è morbido e dolce. Le persone col cuore grande”, scrive Paola nel suo blog, e dice che nessuno si accorge di lei, che certe volte pensa di essere trasparente, attraversa la città e nessuno alza lo sguardo, nemmeno uno straccio di ragazzo che la osservi con qualche interesse. Niente. Ma a chi parla, Paola? a chi racconta le sue ansie e paure? – quelle che una volta si tenevano sotto chiave in un diario profumato adesso stanno lì, e chiunque può fermarsi e sapere.

Dicono che è il tempo dell’amore fragile, il ritorno dell’amore romantico, e l’esperto spiega che – la terra, o il mare che l’individuo ha davanti (il web, insomma) non è inesplorato: ogni rotta incrocia un’altra rotta, e allora tutti guardano “Elisa di Rivombrosa” e palpitano come in altri tempi si palpitava per un feuilleton, – c’è in giro un’influenza romantica, dicono gli esperti, e tutti sogniamo un altro amore, se ci manca, o più bello, se c’è, una storia da romanzo, anzi da televisione, bello come sono belli Alessandra e Costantino sulla spiaggia di Sabaudia o ai Caraibi, che si baciano di continuo e si guardano con tanta tenerezza e corrono sulla spiaggia e sotto in sottofondo una canzone di Baglioni, che fa tutto più bello, e magari, quanto sarebbe bello vivere con le canzoni belle sempre in sottofondo, E adesso non ci sei che tu, soltanto tu e sempre tu, la vita nostra come un filmato che va a “Uomini e donne”, che tutti sembrano appena usciti dalla palestra o dall’estetista, senza brufoli né occhiaie, e ci sogniamo così anche noialtri, leggeri, noi senza le nostre pance su una spiaggia d’estate, come libellule, felici, come Totti quando segna, o che so, come gli innamorati, che sia Elisa di Rivombrosa, che sia chiunque, vero o falso, –

che l’amore soltanto ci fa felici, solo chi ti ama ti comprende,

ti accetta per quello che sei. Io per esempio ho una

storia con un ragazzo grande che mi rispetta. Non vedo l’ora

di sposarlo e di scappare da tutta questa gentaglia,

 – scrive Incavolata nera ’89 a Donna Moderna, che le risponde: guardati ancora intorno, non stancarti di cercare, l’amore assoluto ti aiuta a superare ogni ostacolo, dice, e lo sottolinea in giallo, e lo mette in carattere grande al centro della pagina, che sarebbe da ritagliarlo e metterlo sul diario o sul frigorifero, – pensa qualche Incavolata nera – così non te ne dimentichi mai, di queste verità, di queste perle di saggezza, che ne abbiamo tanto bisogno in questi tempi così confusi, di queste massime, come quelle che trovi nei libri di Paulo Coelho, che sono così profondi, pieni di saggezza, come quando lui dice: il vero io è quello che tu sei, non quello che gli altri hanno fatto di te, che secondo me è una frase stupenda, – è convinta Incavolata nera – e abbiamo bisogno di questi poeti che attraverso i libri o le canzoni ci aiutano a capire i sentimenti e il mondo in cui viviamo, con tutta questa paura che ci circonda, le guerre, gli attentati sugli aerei o sui treni, come a Madrid, e noi siamo così vicini, e la mattina uno si alza e ha paura, anche di fare un giro, anche di andare a lavoro, perché pensi che tutto quello che hai all’improvviso può finire, e tu non ne hai nessuna colpa –.

 

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E Simone che colpa ha, che gli è venuto un cancro al cervello a diciannove anni, a diciannove anni perdio, e che colpa Marisella che invece già se n’è andata, a trentanove, gli ultimi quindici passati in un letto come una larva, e una figlia che intanto è cresciuta senza di lei, come se lei non ci fosse mai stata; – strappalacrime, sì, tutto questo: strappalacrime come la vita. Ed è cosa risaputa, è stato detto da uomini e poeti, che niente vi è da fare contro l’esistenza, che è una condanna senza appello e senza riscatto, pure ha scritto, se vuoi, Tommaso Landolfi, “ed è forse la nostra speranza soltanto, il nostro bisogno di riprender fiato come dall’acuto dolore d’una ferita, che ha immaginato uno stato altro dell’esistere, un nulla… Non c’è niente da fare contro la vita, fuorché vivere”, diceva, scriveva, ripetendo Leopardi e il segreto degli uomini, e la stranezza di questa vita, da cui i poeti non sanno distrarsi, se vivere è distrarsi; e adesso vedo Anna Maria Ortese, rannicchiata su un lettuccio della pensione “Anni azzurri”, una fascetta in testa, la macchina da scrivere sulle ginocchia, che le sembra di piangere, come Anastasia dentro Il mare non bagna Napoli, che piange di dolcezza di fronte a questa vita e “perché in questa vita c’erano tante cose, c’erano la vita e la morte, i sospiri della carne e le disperazioni, le tavole imbandite e l’oscuro lavoro, le campane di Natale e le colline tranquille di Poggioreale”. E questo cuore che sa sempre poco… “Certo, il cuore, chi gli dà retta, ha sempre qualche cosa da dire su quello che sarà. Ma che sa il cuore? Appena un poco di quello che è già accaduto”. Il cuore, se si chiama cuore, o cervello, o tempesta di molecole che sia, dopamina, ossitocina, o chi sa, – il calderone dei sentimenti.

 

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E quando c’entra il dolore, e quello che viene dopo. La morte, e quello che viene dopo – ma per chi è vivo.

“Es estraño còmo el miedo llega sempre al final, cuando

la adrenalina del coraje se disuelve, y las làgrimas se secan

y no nos queda màs temer cuando y còmo volverà a suceder

lo impensable”,

è strano come la paura arrivi sempre alla fine, quando l’adrenalina del coraggio si dissolve e le lagrime si seccano e non ci resta che temere quando e come tornerà ad accadere l’impensabile, si dice uno scrittore spagnolo tre giorni dopo i treni esplosi a Madrid.

La paura – perché forse è tutto qui, fermarsi e avere paura, el siempre miedo, – paura di perdere, di perdersi, che nello spazio di un respiro si cada, all’improvviso, nel vuoto, e che s’infranga il sottilissimo equilibrio che ci tiene in piedi, – il treno che prendi ogni mattina per Madrid, o per Roma, l’aereo per New York, la macchina che guidi per la solita mezz’ora da casa a scuola, l’autobus a Gerusalemme o a Messina, o quello da Aprilia a Nettuno per la gita scolastica, il telefonino attaccato all’orecchio, il rene che fino a ieri funzionava, o il cuore, il cuore in tutti i sensi, e lo stomaco e i nervi, la sera davanti al televisore, il sabato in discoteca, in questa facciata di mondo, che tutto questo regga, preghi: il tetto della scuola e il posto di lavoro, e la terra sotto i tuoi piedi; che tutto questo duri più che può, più che si può, la fiamma flebile e incerta accesa sotto questo calderone.

 

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“Un’altra volta – mi racconta – gli feci un’intervista che fu tagliata a mio avviso malamente e telefonai per scusarmi. Lui mi rispose: ma di che cosa si preoccupa, non vede che è tutto un grande calderone? Il modo in cui scandì quel termine, calderone, mi colpì molto”.

Mi affaccio dalla terrazza del Quirinale e risento queste parole. Lassù la luce del cielo è unica, si stende morbidissima sulla facciata rosa del palazzo, e incanta. Provo a immaginare la voce di Pier Paolo Pasolini che dice calderone, e il volto e il corpo, e la paura, – e la voce di sua madre Susanna, quando lui la sentiva cantare, vecchi motivi senza parole, la sua lodoletta madre fanciulla, come la madre-uccello dell’aria (di Vittorini), lungo pomeriggi che erano silenzio e rapimento, e quel canto come un’eco nella casa povera di via Eufrate. Il timore di perdersi in tutte le cose della terra, l’estate o la pioggia d’autunno, le nottate a villa Borghese, la luce del crepuscolo, radente, “cerea”, la luce della sera, che benché triste, così dolce, scende, per noi viventi e tutte le sere e le strade di Roma, via Zabaglia, via Franklin, i lungotevere, e il brusio, e tutte le sere a Ruda, con la smania di sapere il mondo e divorarlo, tutto quanto c’è nel calderone, in questo calderone, che provi a raccontare, a fermare nelle pagine di un libro e non ci sta, scappa via come un’apparizione, lascia il libro spalancato sul vuoto, un libro-calderone com’è Petrolio, che resta da finire, sfinito, perché la morte arriva sempre prima, tac, e taglia, e lascia macerie, resti, intuizioni, qualche bella pagina, fotografi e, o forse niente, qualche libro, o un libro incompiuto, ribollente, che bolle e bolle, sèguita a bollire, come la vita nel calderone.