L'angolo dello scrittore

Talete, o della filosofia come distrazione

 di Maurizio Canosa

 “Solitaire, solidaire” (A. Camus)

 

Come nasce un filosofo? Tutto comincia con la perdita di un centro. Forse un’intuizione confusa che germoglia nella mente, una vigorosa frase ascoltata o letta da qualche parte, decretano l’inizio dello smarrimento. Una specie di malessere del pensiero via via si delinea in contorni più definiti e la rete consueta di flussi che legava agli altri si indebolisce, si spezza. Di conseguenza, cambia di segno e d’umore lo sguardo sul mondo. Per alcuni é un’illuminazione, per altri la caduta nelle profondità di un abisso. Per altri ancora, una graduale e piacevole consapevolezza. Sempre, però, è l’epifania di una solitudine. E’ a partire da un’esigenza di discontinuità che un filosofo si distrae. Da un desiderio di farsi apolide che inizialmente lo allontana da tutto come un enigma insolubile: straniero persino a se stesso. Da un certo momento, la certezza assoluta di ieri, diventa l’illusione e l’inganno di oggi. Ciò che era vero e compatto prima, adesso é solo mistificazione. Il primo “perché?” é anche l’inizio di una deflagrazione a catena. E così si continua, fin quando non ci sono più risposte che non possano essere superate da nuove domande. Dalla vicenda comica di Talete, che guardando le stelle cade in un fosso per essere sbeffeggiato da una servetta, la distrazione distingue il filosofo dall’universo comune. Ed é più che altro una condanna, perché la faccia di un pensatore si accompagna sempre alla risata di coloro che osservano.

A volte, la vanità del filosofo nasconde un’amarezza profonda, perché intuisce il sentimento della propria estraneità come una mutilazione. Stordito di dubbi, si mantiene nella prossimità di un’assenza. E ciò nonostante, piuttosto che smettere l’abito del critico per legarsi all’opinione pubblica, si ritira nel suo eremo, con l’orgoglio pervicace e puro di un bambino, rivendicando il proprio ruolo, talvolta sgradito, talvolta intollerabile. Così si separa, perché avverte un inconfessabile difetto d’essere che lo angoscia, decidendo di pontificare a distanza. Per quanto possa sembrare naturale, questo non deve accadere. La fuga dalla compagnia degli uomini dovrebbe servire a guardare le cose da lontano, per cercare di capire più chiaramente. Ma uscire dalla penombra per tornare al sole degli eventi deve essere, alla fine, l’imperativo categorico di un intellettuale. Distrarsi, sentirsi fuori luogo può rivelarsi un vantaggio decisivo nell’esercizio del conoscere, ma non dovrebbe mai assumere il senso di un gesto acrimonioso e definitivo. Sganciarsi dall’appartenenza é solo un movimento preliminare, un’inversione di rotta necessaria.  Guardare l’universo in tralice è pur sempre un lavoro necessario; sforzarsi di comprendere il senso laterale degli oggetti, il rovescio della medaglia di un problema, nuovi orizzonti di senso. Tuttavia, come Epicuro, vivere nascosti suggerisce semplicemente la scelta di una strategia, se ha il peso onesto e concreto di un’operazione preparatoria. Il filosofo distratto si rende per un momento inabitabile a qualsiasi amor di patria, resistente al fascino discreto di un’esemplare cittadinanza. Il campo di lavoro è quello della contraddizione, ma Il suo abbandono non è risolutivo, il suo distacco non é mai senza ritorno, perché sa perfettamente che, pur essendo comunque soli, l’importante é  sapere con chi. E il chi è sempre, inevitabilmente, la pluralità degli esseri che respirano, soffrono e vivono su questo mondo. Ecco cosa scrive, anche a questo proposito, l’immenso Albert Camus: “E’ un compito senza fine, è vero. Ma noi siamo qui per continuare a compierlo. Io non credo alla ragione al punto da sottoscrivere al progresso, né ad alcuna filosofia della storia. Ma credo che gli uomini non abbiano mai smesso di progredire nel prendere coscienza del loro destino. Non abbiamo superato la nostra condizione, però la conosciamo meglio. Sappiamo di essere nella contraddizione, ma sappiamo anche che dobbiamo rifiutare la contraddizione e fare quanto occorre per ridurla. Il nostro compito di uomini é di trovare le poche formule che cambieranno l’angoscia infinita delle anime libere. Dobbiamo ricucire ciò che é lacerato, rendere immaginabile la giustizia in un mondo così evidentemente ingiusto, significativa la felicità per dei popoli avvelenati dall’infelicità del secolo. (…)Cerchiamo dunque di sapere che cosa vogliamo, restiamo saldi nello spirito, anche se la forza prende, per sedurci, il volto di un’idea o della comodità”.