I racconti del Premio letterario Energheia

Sogno di sospensione_Stefano Ciardi, Borgomanero(NO)

_Racconto finalista dodicesima edizione Premio Energheia 2006.

 

Vedo il suo viso, il suo sorriso, poi una sola ombra e nessuna voce. Apro gli occhi a fatica, il sole è coperto da un cielo grigiastro e l’aria fresca della mattina si unisce all’olezzo della città; a volte quando mi sveglio ho come l’impressione di essermi appena addormentato, mi sembra di vivere nei sogni, e sognare nella realtà; passi il tempo a pianificare, pensare, sperare, tentare. Tentare… Cosa, come, dove non sai, ma vai avanti. Tutto diventa passivo, inevitabile. Tenti di ribellarti e ti schianti contro un muro, ti rialzi e ci riprovi, ti schianti di nuovo; cerchi poi una crepa dal basso e non la trovi. Intanto la vita scorre, e ciò che resta è solo il sogno da plasmare. Sento un formicolio alle gambe: dopo una notte insonne mi è bastato appoggiarmi ad un palo per perdere i sensi. Con gli occhi semichiusi scorgo a malapena alby e rombo alle prese con una clio blu argentata: “Sbrigati Alby mi sono rotto di aspirare benza, dammi il cambio” “Finiscila di fare il cagapalle e chiama Albe se ti sei rotto”. Naturalmente non ci penso neanche a dargli il cambio: mi alzo da terra e fingo cercare auto lasciate aperte da qualche altro scoppiato peggio di Rombo. Quasi ci prendo gusto che non noto un tipo in giacca e cravatta che corre verso di noi urlando qualcosa di incomprensibile; “Oh via, via, via, ci hanno sgamato!”

Mentre urlo gli altri due scoppiati si mettono a correre con la tanica aperta, rovesciandosi addosso benzina a ogni metro. “Correte cazzo” da lontano il tipo con la cravatta inizia ad insultarci in modo ora comprensibile. Questo scoppiato non ha capito proprio niente. Prendo un sasso da terra e gli sfondo il parabrezza con un lancio al millimetro. “Uh, uuuh beccati questo”. Euforico mi aggiungo alla corsa degli altri. Svoltiamo l’angolo passando davanti ad una lavanderia e c’intrufoliamo in un vicolo stretto e puzzolente prima di dividerci tra le strade della periferia. Non penso a niente, davanti a me vedo solo vicoli su vicoli. Continuo a correre, e senza neanche accorgermene ho perso gli altri due. E chissenefrega, che si arrangino.

Rallento un attimo per la stanchezza. Qui ci rimango secco.

Prima di fare l’idiota avrei potuto almeno rendermi conto di essere esausto. Mi gira la testa e il sangue circola nervoso per il corpo. Mi appoggio ad una vetrina in stato comatoso, dall’altra parte del vetro una dozzina di televisori è accesa su un giornalista con la faccia da cocainomane che si è appena fatto una pista. La televisione… incredibile cosa sia pronta a fare una persona per non pensare alla vita. Al suo scorrere. Abbandonandosi ancora di più alla sua passività vivendo da morta. Se non la smetto di pensare rischio veramente di sboccare.

Cerco di camminare con andamento lento e normale per allontanare gli sguardi della gente; continuo così per un po’ e man mano che cammino inizio a riprendermi. Saranno le otto di mattina, e le facce che mi circondano m’ispirano già una rabbia assurda: tutti con quegli occhietti ipocriti e quelle corna invisibili che gli spuntano dalla nuca. Credono di esseri i migliori del mondo quando invece valgono la metà di una cicca masticata. I pensieri e le voci inesistenti della gente per strada vengono sporadicamente interrotti dal passaggio di qualche auto; continuo a camminare imperterrito finché una mercedes grigio metallizzata con le gomme lisce si accosta al marciapiede: è il dottor Terzani, il nostro medico di famiglia; “Ciao Alberto cosa fai in giro a quest’ora?. Terzani è il tipo di medico che piace alle donne: ricco, lampadato, sempre vestito con camicie firmate, e cosparso di talmente tanto dopobarba da ammazzare un cavallo. “Ma… niente… tornavo a casa…”

Vede che resto sul vago e si trasforma in una crocerossina: “No problem, ti accompagno io” senza neanche pensarci scrocco un passaggio al dottore. Inizia subito ad attaccare discorso: “Come va la scuola?”. Non ce la fai proprio a stare zitto ehh? “Non vado più a scuola, ho mollato” “Ma come?! La scuola è importante lo sai?”. Nel frattempo che il dottor scoppiato mi fa la predica, accendo di nascosto una sigaretta e la spengo sui sedili in pelle; “Senti per caso odore di fumo?” mi chiede. “No, te lo chiedo perché con il fumo bisogna stare attenti. Quelli come noi sono troppo giovani e belli per morire di cancro ai polmoni, vero?!”. Abbozza un sorriso a trentadue denti.

Pensa d’essere divertente. “Hahahaha, vero, vero”. No, non rido per le tue battute, rido per la pelle dei tuoi sedili.”In ogni caso… è un po’ che volevo dirti che… insomma… sappi che per quella faccenda… era un intervento difficile mi dispiace, abbiamo fatto il possibile”. Ma cosa vuole ancora?. Stiamo in silenzio per qualche secondo fino a che pach adams non sente ancora il desiderio impellente di parlare con una strana voce nasale “Siamo arrivati, capolineaaaa!”. Il dottor Terzani è il tipo di persona che pensa di far ridere facendo la voce da coglione. Lo ringrazio e saluto in tutta fretta mentre lo vedo sfrecciare via con la sua auto. Ora ho capito l’antifona: meglio camminare che parlare con Terzani. Casa mia è subito dopo il parco, oltre un viale alberato. È febbraio e gli alberi sono ancora spogli, i prati grigi come la nebbia che si esala nell’aria, e gli animaletti e le persone chiusi nelle loro tane. Del resto fa un freddo assurdo. Ormai è così tanto che fa freddo che a volte ho il sentore che quest’inverno non se ne debba andare; l’estate è così lontana, non ricordo quasi più com’è fatta. Forse veramente l’estate non verrà più; chi mi dice che tornerà?

Qualcosa potrebbe andare storto, e allora chi mi dice che non avrò sempre freddo? In ogni caso non vorrei scordarla mai. Solo così vivrebbe per sempre dentro di me.

Decido di tagliare per il parco semideserto, vorrei riuscire a incontrare Isa visto che passa di lì tutti i giorni per andare a scuola. Oltrepasso il laghetto nel mezzo del parco. Non la vedo. Forse sono arrivato tardi. Sto per passare oltre quando la scorgo seduta su una panchina in fondo al vialetto: ormai sono quasi sei mesi che stiamo insieme, e non ho ancora capito come io possa meritarmela. Lei è la mia vita, è lei che mi fa andare avanti. E’ bellissima: ha il viso di un angelo, dei lunghi capelli biondi che le giocano sulle spalle e un corpo snello, filiforme, ma al contempo così fragile… Non faccio neanche in tempo a salutarla che il suo volto s’illumina. Che strano, mi sembra di non vederla da una vita. Mi corre incontro e mi abbraccia; la faccio roteare in aria, incrocio il suo sguardo, sento il suo calore, e le nostre risate si uniscono alla tristezza di quel parco ravvivandone i colori. Ricordo ancora perfettamente il giorno in cui ci siamo incontrati: era giugno, gli alberi ridondavano di fiori e l’aria era calda; io stavo tornando a casa da uno degli ultimi giorni di scuola. Decisi per una volta di passare attraverso il parco, quando vidi lei che se ne stava li, immobile davanti a quel laghetto con un cane al guinzaglio e lo sguardo perso nel blu dell’acqua. Mi avvicinai e provai a fare conoscenza con qualche scusa banale. Mi sento ancora ridicolo quando ci penso. Lei aveva una strana tristezza in volto ma mi sorrise con gentilezza. Pensai di esserle di peso in quel momento, per questo la salutai frettolosamente e me n’andai. La rincontrai una settimana dopo ad una festa: lei si ricordava di me e dei miei penosi tentativi, ma nonostante ciò, passammo tutta la sera insieme. Da quel momento nacque il nostro amore.“Ciaooo! Come mai da queste parti?” “Niente… ho fatto un po’ tardi stanotte” mi guarda e mi sorride di nuovo, lei mi fa stare bene, una sensazione unica che non vorrei scordare mai. Camminiamo un po’ per il parco, lei è euforica ad ogni ora del giorno; ogni volta che ci vediamo sente il bisogno di raccontarmi tutto quello che prova e che pensa: mi racconta i suoi sogni e le sue aspirazioni, io ascolto le sue parole con entusiasmo anche se a volte un po’ inebetito: “Ehi perché mi guardi così? Ho qualcosa sul naso?” le sorrido divertito; “No, no assolutamente, e solo che, continuo a pensarci e… so che ti sembrerà assurdo ma… vorrei che tu sapessi… insomma, vorrei che tu sapessi quanto sei speciale per me, ma non so come dirtelo” lei ride divertita: “Beh me l’hai appena detto!” riesce a strapparmi ancora un sorriso, ma sono troppo stanco e sento girare la testa, inizio a sentire di nuovo il sangue sbattere nelle tempie: “Allora… ciao, ci vediamo” lei capisce la mia condizione, mi dà un bacio e corre via. Rimango di nuovo solo. Mi trascino letteralmente per il vialetto, fissando la mia ombra proiettata sull’asfalto dalle prime luci del mattino, si sente solo il silenzio.

Mi avvicino al mio condominio non potendo evitare gli sguardi ebeti dei miei vicini che si sono appena svegliati.

Salgo in fretta la tromba delle scale appoggiandomi al corrimano per non crollare. Apro casa mia e m’intrufolo per i corridoi senza fare troppo casino, faccio per aprire la porta del bagno quando intravedo mia madre nel corridoio: “Ma bentornato! Pensi di andare avanti così per quanto è?” “Non lo so, io vado a dormire” “Stammi ad ascoltare brutto idiota, non pensare che io e tuo padre continueremo a mantenerti a lungo! Vedi di trovarti un lavoro se sei buono a qualcosa, perché io non ho voglia di sorbirti fino alla maggiore età!”

Inizia ad innervosirsi, Le vene sul collo le sono diventate di un colore violaceo che non pensavo esistesse. “Per cosa dovrei andare a lavorare? Per farmi comandare da quelli come il tuo capo? Abbietti scoppiati che succhiano il sangue alla gente pur di continuare a parassitare. Non credo proprio”. Ora sì che si arrabbia. “ Senti… a tutti capitano cose brutte nella vita, e se tu non riesci ad andare avanti, continua pure a rubare auto con quei due deficienti, ma vattene di qui!”. Non ci penso due volte, prendo poche cose ed esco, io gestisco la mia vita. Solo io. Non mi resta che andare da Alby: prendo il primo autobus che passa vicino a casa mia e chissenefrega. Ci metto dieci minuti ad arrivare nel suo quartiere: un posto squallido dove si odora perennemente fragranza di fogna. Scendo dall’autobus e mi avvio a piedi. Alberto abita al terzo piano di un palazzone cadente insieme a tre o quattro altri sbandati. Lo raggiungo in fretta e busso alla porta. Mi apre un energumeno alto quasi due metri che mi riconosce e mi lascia entrare. All’interno l’abitazione è completamente diversa che da fuori: divani in pelle, stereo megagiganti, tv al plasma… tutta roba di classe.

Questi devono spacciare roba pesante. Incontro Alby seduto ad un tavolo, lo saluto in fretta e gli chiedo se posso dormire lì, non aspetto la risposta, come solito, e crollo sul divano.

Sogni d’oro.

Mi sembra di stare in una foresta incantata: miriadi di lucciole illuminano l’aria e piante dai colori più variopinti sono sovrastate da querce che raggiungono quasi il cielo. Ad un certo punto scorgo una ragazza bellissima vestita di bianco che mi fa cenno di seguirla. Provo a raggiungerla ma non ci riesco. Sento le sue risate, ma è sempre più lontana, sempre di più, di più, di più, fino a che la perdo, fino a che vedo sola un’ombra e sento solo il silenzio. Gli incubi che crea la mente tormentano il corpo; come una febbre logorano per guarire, ma finiscono per annientare chi non se ne vuole liberare.

Mi sveglio di soprassalto con “Smells Like Tenn Spirit” dei Nirvana nelle orecchie; apro gli occhi e mi pare di averli ancora chiusi. Qualcuno mi da una sberla sulla testa, è Alby: avrà dormito molto meno di me ma sembra molto più sveglio e reattivo del sottoscritto. A pensarci bene, da quando frequenta quei tipi è sempre euforico. Distrutto come dopo una maratona

gli chiedo se posso restare per un po’. Lui scambia un’occhiata con un ragazzo con i rasta: il tipo sembra contrariato ma Alby mi dice subito “Sicuro, se non ci aiutiamo tra amici” okay ma quel fattone cosa voleva? “Non do’ fastidio, vero?” “Ma figurati, tanto un nostro amico si è appena trasferito…”. Inizia a tentennare ma resta sorridente: “Oh, naturalmente devi contribuire ad alcune spese, ma è tutto a posto… Seguimi, ti faccio vedere la tua stanza”. Mi fa strada con gli occhi sbarrati e le pupille super dilatate per il corridoio di fianco alla cucina: la mia stanza è un rettangolo con una finestrella, un letto e una miriade di poster di band rock semisconosciute.

Mi sento ancora stralunato ma non posso fare a meno di una doccia; vado in bagno e apro l’acqua calda. Ci metto giusto il tempo di levarmi di dosso l’odore della notte precedente e sentire il sangue tornare a scorrere. Mi asciugo e mi rivesto in fretta per tornare a casa a recuperare qualche capo d’abbigliamento pulito e qualche oggetto utile; mi fiondo fuori dall’edificio senza neanche salutare, ma una volta in strada sento la voce del mio amico che mi chiama dalla finestra e mi dice di aspettare sulla soglia. In venti secondi mi ha già raggiunto, sembra molto più stanco di prima e ha uno strano tremolio al corpo: “Che fai? Non mi saluti?”. Si comporta in modo strano. “Ma no, provo a vedere se riesco a recuperare qualcosa a casa”. Lui mi guarda rassicurato, ma di cosa ha paura? “Ti ricordi da bambini, quella volta che ti sei rotto un braccio?”. “Certo che lo ricordo: ero salito su un albero e volevo viverci per sempre, ma cosa c’entra ora?”. Ci sediamo sul bordo del marciapiede a parlare; il cielo è ancora coperto da quelle nuvole biancastre della mattina, solo le nostre parole riempiono le strade desolate: “Quella volta in campagna, avrei voluto seguirti su quell’albero. Mi piaceva l’idea di vivere in contatto con la natura: liberi da un ambiente opprimente, dagli obblighi e dalle imposizioni, capaci di cambiare le cose che non ci piacevano e renderle migliori… poi però… il ramo si è spezzato e tu sei caduto. Non mi sono mai spaventato tanto in vita mia. In compenso ho capito una cosa importante: le cose cambiano anche se non lo vogliamo, e noi non possiamo farci niente. Non possiamo vivere sospesi su quel ramo per sempre: dobbiamo accettare il cambiamento, anche se non ci piace o non ce lo meritiamo è così, e come tutto passerà, sia quello che è appena accaduto, sia quello che accadrà…”. Non so cosa rispondere. Non ho bisogno che mi dica cosa fare, ma so che è un bravo ragazzo e non ho intenzione di contraddirlo.

Sfoggio un’espressione contrita sul volto e sto in silenzio per un attimo. Non posso non notare però la sua aria Amareggiata, forse si aspettava che contraccambiassi alla sua esposizione; cerco di farmi venire in mente qualcosa quand’ecco che si alza in piedi e contrae il volto in un’espressione cretina “Sai cosa facciamo stasera? Ho due tipe a portata di mano: le portiamo a ballare e quel che succede, succede! Che te ne pare?” “Sicuro, ci sto” mi sforzo di sorridere e ci salutiamo. Secondo me era fatto di brutto. Ma che si inventa a volte? Non voglio abbandonarmi allo scorrere della vita, voglio imprimere come su tela le cose per me importanti e non lasciarle mai. Me la so cavare da solo.

Mi sembra quasi di essere finito sotto un treno, dilaniato da quelle stupide parole. Se voglio posso non pensarci, ma sono lì, impresse. Cammino nervoso per le strade sporche e dissestate quando ad un tratto vedo Isa, il suo volto e il suo sorriso dall’altra parte della carreggiata; dall’essere distrutto passo ad una sensazione stupenda. Corro verso di lei senza preoccuparmi di niente. Mentre mi avvicino sento lo stridere sordo di freni e un dolore fortissimo al fianco. Cado a terra.

L’asfalto diventa freddo sotto la pelle. Poi più niente. In stato di semicoscienza mi accorgo di essere steso sul lettino di un’ambulanza. Tutt’intorno ci sono macchinari medici e vestiti sporchi di sangue. Una luce al neon mi brucia gli occhi, ma non mi impedisce di riconoscere la sagoma di Alby che parla con un paramedico: “Il tuo amico prima ha chiesto insistentemente di un certa Isa, puoi contattarla?” lui sta un attimo in silenzio, china leggermente la testa e dice: “No, non posso. Lei è morta due mesi fa”. Si copre il volto con le mani e resta in silenzio. Perdo di nuovo conoscenza.

Vedo ancora la foresta, la sagoma bianca di ragazza che corre, e le lucciole ad indicarmi la via; questa volta non me la farò scappare: corro più veloce che posso, mi avvicino di più, di più, sempre di più, fino a che la raggiungo. Vedo il suo volto: è Isa.

Un velo bianco le copre il corpo, quel corpo così fragile che l’ha fatta ammalare. Sento di voler sapere quello che non ho avuto il coraggio di comprendere prima: “Perché mi hai abbandonato?” le chiedo con paura. “Non ti ho abbandonato, io sono qui, con te”. Comprendo solo ora cosa mi ha tormentato tutto questo tempo: “Avevo bisogno di qualcuno che mi aiutasse a ricordare come potesse essere bella vita, quanto ogni

giorno fosse importante. Non sapevo di essere un illuso. Avevo paura di essere ucciso dall’odio per me stesso, perché non ero

riuscito a salvarti, perché non ero riuscito a tenerti stretta a me. Mi sentivo impotente davanti al tuo letto: vedevo il tuo corpo logorato da quella malattia e ti odiavo. Ti detestavo. Non potevo sopportare l’idea che mi potessi lasciare. Poi scoppiavo a piangere. Piangevo per aver solo pensato una cosa così brutta di te, che eri la creatura più dolce. Conoscevi da tempo la malattia. Per questo quel giorno al parco eri triste, ma tu non hai mai mollato, non ti sei radicata ai momenti felici che avevi vissuto in passato, sei andata avanti. Avevi paura che me n’andassi, che ti lasciassi sola, ma mi dicevi sempre che ti avrei dovuta dimenticare, sapevi che stavi morendo. Tu eri preparata, io No. Ti tenni la mano fino all’ultimo, sperando di non vederti svanire, di riuscire a trasmetterti l’amore che provavo. Fu tutto inutile. Non riuscivo a crederci, a farmene una ragione: la mia memoria mi diceva che tu eri svanita, ma il dolore del mio cuore non voleva che accadesse. L’uomo è un animale che si nutre d’emozioni continue, ma senza di te non riuscivo più a sentire nulla. Ho provato a mantenerti viva, ma ora so che è tutto un sogno, ed io non voglio più che sia così”. Sento il dolore del mio cuore concretarsi in lacrime amare mentre la vedo scomparire nell’ombra. Ora so che non la rivedrò mai più.