I racconti Kaleidos, Kaleidos, racconto fotografico

Professione fotoreporter

fotoracconto finalista Premio Kaleidos Africa’s Pictures 2012_di Antonio Scaltrito

sezione 18-19 anni

La storia che sto per scrivere non è solo il racconto di una tragica avventura dall’epilogo felice. È la storia di un uomo comune costretto a scontrarsi con una realtà prima di allora sconosciuta. Sono un fotoreporter.

Presi l’aereo per lavoro il 6 settembre.

L’Africa mi aveva sempre affascinato molto ciò nonostante contavo di essere a casa entro la fine del mese. Non fu così. Era il 19 settembre quando avvenne l’incidente che mi avrebbe fornito un lasciapassare per l’inferno. Il giorno successivo il mio posto prenotato sull’aereo sarebbe rimasto libero. Mi trovavo con un gruppo di turisti di diversa nazionalità, a disagio, in un piccolo pullman alquanto lontano dagli standard dei mezzi occidentali. Avvenne poco dopo la partenza. Ero seduto e osservavo le fotografie scattate e quando venni colpito alla testa da qualcosa di pesante, persi i sensi. Io, il solo superstite. Al tramonto ebbi la certezza che in quel luogo mi sarebbe stato impossibile trovare asilo. Tre giorni dopo ero ancora fin troppo lontano dal pensare che ce l’avrei fatta. Quello stesso giorno, bevendo l’ultima goccia d’acqua, capii che una grande passione si era impossessata del mio corpo, la volontà. Ogni giorno desideriamo tante cose.. tante di quelle inutili cose.. io invece, desideravo vivere. Ero un animale allo stato brado, avrei ucciso per una sola goccia d’acqua.

Era il decimo giorno di cammino quando per la prima volta smisi di sperare. Imparai cosa volesse dire essere soli. Mi affidai all’istinto.

Il sole mi scottava la pelle, i piedi dilaniati dal dolore mi imploravano di interrompere il folle cammino che forse, mi avrebbe ricondotto a casa. Sentivo che il mio corpo allo stremo era lo strumento e allo stesso tempo il limite alla mia sopravvivenza. Se di giorno il pensiero della morte, la disperazione, avevano motivato l’estremo atto di volontà compiuto dal mio corpo, travalicando i limiti della ragionevolezza umana; di notte, restava la consapevolezza che qualora non fossi riuscito a raggiungere un centro abitato, con ogni probabilità sarei morto. Non avevo mai pensato alla morte che ora, mi guardava con occhi sempre più famelici, con gli occhi di un mostro. Talvolta accade che le circostanze che ci definiscono mutino improvvisamente senza il nostro volere, e non sappiamo come saremo capaci di agire. Capita talvolta di essere costretti ad affrontare la realtà. Di essere costretti a scegliere fra lotta e rassegnazione. Fu quello che accadde e io, scelsi di combattere. Se non avessi trovato dell’acqua, non sarei riuscito a raggiungere il villaggio. La terra che stavo attraversando era sconfinata e il calore del sole raggiungeva temperature equatoriali. L’assenza d’acqua  è in quella terra una realtà, con la quale è difficile combattere, e io, non sapevo se avrei vinto o meno la lotta per la vita.

Erano dieci giorni che non mangiavo. Erano sei giorni che non bevevo. Sapevo che sarei stato capace di sopravvivere forse un giorno ancora. Ma la lucidità si era dissolta insieme all’ultima goccia d’acqua, portandosi con sé la speranza.

Trascinavo le gambe sulla terra nuda, la polvere mi entrava nei vestiti, mi graffiava la pelle. Sentivo le contrazioni allo stomaco e ascoltavo il battito del cuore. Sembrava voler riempire quello sconfinato silenzio intorno a me, urlare la sua disperazione. Non distinguevo più la linea d’orizzonte. Intorno a me, il deserto. Volevo gridare. Penasi a  mia moglie. Lei mi ricordava sempre di chiudere bene il rubinetto, cosa che dimenticavo puntualmente di fare. Sentivo con distacco il suono delle gocce infrangersi sul marmo. Lei con premura sollevava le coperte e lo faceva al mio posto. Tornava a letto e mi baciava. Diceva che quelle poche gocce d’acqua avrebbero potuto salvare una vita. Tentai invano di gridare. In preda ad una disperata follia pensai a tutto ciò che fino a quel momento era stato per me scontato, l’acqua corrente, i fiumi, il lago che da bambino vedevo ogni giorno dalla mia finestra… erano utopia. Il Signore era stato ingiusto con quella terra, oggi dimenticata da Dio… e dagli uomini.

Caddi sulle ginocchia. Quanta poca importanza avevo dato fino a quel momento a ciò che quel giorno era indispensabile alla mia salvezza. Non so quanto tempo rimasi inginocchiato lì, solo pochi minuti, o forse molti. Rimasi lì il tempo necessario a garantire la mia sopravvivenza. Il sole non si trovava più nello stesso punto del cielo quando mi alzai per l’ultima volta.   Continuai a trascinarmi per la strada polverosa privo di senno. Poche ore dopo ero agonizzante. Questo mi dissero. L’orizzonte era un insieme scomposto di ombre e bagliori indistinguibili.

Era il decimo giorno quando per la prima volta la speranza, che mi aveva spinto ad ignorare le ragioni del corpo, venne meno, insieme al desiderio della sopravvivenza. Intuivo di essere prossimo alla salvezza, ma svanita la mia lucidità, vivere non sembrava più essere così importante. Era il decimo giorno quando vidi il sole congiungersi alla terra in un bagliore mortale, sentii il contatto del suolo con il mio corpo allo stremo, la polvere sollevata dal vento ora mi carezzava la pelle, sentivo in bocca il sapore di una terra straniera, sentivo in bocca il sapore della morte. Chiusi gli occhi. Avevo perso il senno.

L’unica certezza che avevo era che non li avrei mai più riaperti.

Inutile dire quanto oggi che sono vivo ringrazi il Signore ogni giorno e rispetti il dono della vita che conservo gelosamente come il tesoro più grande. Ma soprattutto, ringrazio di aver capito il valore di quello che può apparire scontato. Il mio incubo è finito. Per alcuni l’incubo è quotidianità. Inutile dire che dopo quel travaglio fisico e interiore mia moglie non avrebbe più dovuto sollevare le coperte nel cuore della notte.