I racconti del Premio letterario Energheia

Prigionia di un addio, Nicoletta Cassitella_Vittoria(RG)

Racconto finalista Premio Energheia 2020_XXVI edizione – sezione giovani

“Rendete veramente giustizia, voi potenti?”.

Il vecchio parlò senza pensare: le sue parole, rapide e concitate, ruppero il greve silenzio della stanza. Sentì grandi passi avvicinarsi a lui e la frusta scalfire sinuosa l’aria, ma nessun colpo arrivò sulla sua pelle. Si inumidì le labbra, il sapore del sangue scese lungo la gola.

“Giudicate con equità gli uomini?”, riprese.

Aprì gli occhi, dopo averli tenuti chiusi a lungo, e guardò il volto della Morte che lenta lo raggiungeva e sembrava gli dicesse: “Non ancora”.

“No”, riuscì a dire, con veemenza.

Davanti ai suoi occhi, la figura del suo torturatore prese il posto dei bei lineamenti della Morte e un folle coraggio si insinuò nel suo petto.

“Voi commettete iniquità con il cuore, sulla terra le vostre mani soppesano violenza”.

Un lancinante dolore gli annebbiò la vista, partendo dal punto in cui la frusta in quel momento lo aveva colpito alla schiena, ma ormai la sua pelle e il suo cuore si erano abituati all’ingiusta tribolazione e riconoscevano nel fatale cuoio della frusta una vecchia amica, dalla presenza invadente.

“Sono traviati i malvagi fin dal seno materno, perversi dalla nascita, velenosi come un serpente, come una vipera sorda che non segue la voce degli incantatori1”.

Stavolta avvertì solo il suono della frusta che fendeva l’aria: il dolore non gli apparteneva più, malgrado sapesse bene che, prima o poi, l’avrebbe ucciso.

“Parli troppo”, sentenziò la guardia assestandogli un nuovo colpo.

Era la prima volta che sentiva la voce dell’uomo, benché stesse con lui diverse ore al giorno da ormai molto tempo. Gli parve grave, inespressiva, quasi meccanica… se lo aspettava. Talvolta, per sfuggire al dolore che gli infliggeva, si era soffermato a riflettere, in preda al delirio e febbricitante, su di lui e sul suo compito, che aveva spesso paragonato a quello di un confessore. Infatti, egli accoglieva i segreti e le colpe degli uomini, esattamente come fa un prete, con la differenza che mentre le armi dell’uno erano la parola di Dio e il fuoco del suo Santo Spirito, che colpiscono e purificano l’anima, quelle dell’altro erano forza e violenza contro i corpi. Ma era allora vero ciò che gli eretici andavano predicando? Il dolore aveva il potere di purificare? E, dunque, erano loro i veri eretici, o la Chiesa e i suoi seguaci? Domande vuote, vane, senza risposta gli riempivano la mente durante le torture e lo opprimevano e ferivano più del sangue, che gli percorreva la schiena ad ogni frustata. Ma in quel momento, l’aver scoperto la voce di colui che ormai definiva compagno lo risollevava. “Chi ha una voce ha un’anima”, pensava, e chi ha un’anima può guarire dal male del corpo.

“Non fa così male”, disse il vecchio dopo un lungo silenzio. La barba, non molto lunga, ma ispida e incolta, rendeva il suo volto stanco e abbattuto, mentre nel suo cuore divampava il più indomabile degli incendi. Era una forza, la sua, forgiata dal male che tante volte aveva tentato di annientarlo. Ma, seppure la rassegnazione alla realtà si fosse già insediata in lui da molto tempo, mai era divenuta insoddisfazione, ma forza motrice per il suo solo obiettivo, per il suo fine ultimo, il più importante: riabbracciare i veri superstiti del male sulla terra, i suoi cari.

Il vecchio volse lo sguardo alla sua destra e incontrò, oltre le sbarre, il volto di un giovane prigioniero che, dalla cella vicina, lo guardava cupamente. Il giovane posò lo sguardo sulle sue ferite, che come radici di un arbusto si diramavano in ogni direzione sulla sua pelle. La cella era avvolta da un odore acre di terra bagnata, che impregnato di polvere e sudore, giungeva nauseante alle narici dei due uomini. La fioca luce gettava ombre oscure sulle pareti fredde e ruvide delle due celle, separate l’una dall’altra da una grata di ferro. Il ragazzo serrò i pugni, fino a far sbiancare le nocche e i suoi occhi si accesero di un folle impeto giovanile: un demone ribelle si fece largo nel suo cuore.

“Andrò via da qui”, disse infine, “Non lascerò che mi riducano come te …”.

“Non fa così male”, ripeté il vecchio, interrompendolo, rivolgendosi più a se stesso che al compagno.

“È una questione di abitudine, anche il dolore si ammaestra”.

1-Riferimento a Salmo 58, ai giudici iniqui

Il giovane si accasciò al suolo, nel momento in cui quel chimerico demone abbandonò il controllo sulle sue membra. Appoggiò la schiena contro le sbarre che lo separavano dall’uomo e prese a fissare il vuoto, quasi cercando di dare voce ad un pensiero ancora inconsistente, ma vivo dentro di lui. Il vecchio sospirò, si guardò le mani: rugose e piene di calli, segni di una vita intera vissuta nel lavoro, ardua, mai spensierata, poche volte felice, ma non per questo meno bella.

“Non fa così male, basta tenere a mente che, adesso, loro sono al sicuro”, disse infine, con serenità, l’anziano uomo.

Il giovane sussultò e si voltò verso di lui, stringendo con forza le sbarre con le sottili dita. Ma la sua curiosità fu costretta ad assopirsi, in accordo con le forze vitali del vecchio, che alla fine del giorno trovarono pace, seppur per poco.

Le notti erano brevi istanti per recuperare il fiato, prima di immergersi nuovamente negli abissi d’un mare placido e silenzioso, di una serena inquietudine, di una glaciale esistenza, che lambiva minacciosamente le coste di un’isola piccola e fragile, la libertà. Ciò che facevano i torturatori, gli inquisitori, le mura stesse di quel luogo, era, infatti, non attentare ad una vita, ad un respiro, al battito di un cuore, ma convincerti di sbagliare, di essere sbagliato, di aver sbagliato ogni cosa in pensieri e opere sin dal giorno della venuta al mondo. Tutto, ogni parola pronunciata dalle melliflue labbra di quegli uomini, ti convinceva di nuove verità, svuotandoti d’ogni credenza, d’ogni certezza. Quanto aveva mentito tra quelle mura, quanto di falso aveva confessato! – pensava il vecchio- Ma era poi tutto falso? Sicuramente qualcosa di male aveva fatto, per trovarsi in quel luogo. Ma no, aveva inventato tutto. Era innocente, o no? Come poteva saperlo? Si era perso, tra quelle parole e quelle percosse. L’unica certezza era la notte, essa gli rivelava quella verità che ad ogni alba dimenticava, o doveva dimenticare per compiacere il suo buon torturatore.

Il vecchio riaprì gli occhi d’improvviso, ma il buio non scomparve dalla sua vista. Neanche la luna sembrava voler degnare d’uno sguardo quel luogo, attraverso le sbarre che serravano la finestra, quasi desiderando ritrarsi dalle indicibili violenze che si perpetravano tra le sue mura. Un sospiro giunse al suo orecchio: come lui, il ragazzo era sveglio, forse incapace di abbassare la guardia anche solo per qualche ora notturna. Il vecchio respirò profondamente, quasi cercando di prendere forza dall’aria che a fatica inalava dall’esterno, poi, con calma, disse: “Si preannunciava già una notte terribile da tempo, secondo i miei compagni, ma io non credevo a tutti i simboli che loro vedevano ovunque, scrutando gli astri, sfiorando il vento, osservando il volo degli uccelli”. Il giovane tese l’orecchio: la sua curiosità si riaccese.

Quasi nulla sapeva di quell’anziano prigioniero, anche il suo nome gli era ignoto. Ad unirli era sufficiente la loro presenza in quella prigione, la condivisione delle torture e del dolore, il ricordo di un insopportabile passato, il vivo desiderio di un avvenire migliore, più giusto, più umano. Il giovane aveva però compreso quanto l’uomo fosse legato al suo passato, come se lì avesse lasciato qualcosa di importante, un pezzo della sua stessa anima. In ogni suo discorso, in ogni sua affermazione, il vecchio parlava delle sue disgrazie, di un enigmatico ieri che cercava di trascinare con sé nel presente, con tutte le forze, come se non potesse farne a meno.

L’anziano uomo si fermò per qualche istante, cercando le parole adatte a rivelare se stesso a qualcuno. In quel momento fu assalito dal timore che il ragazzo, suo unico ascoltatore, potesse giudicarlo. Si sentiva ridicolo nel provare tale sentimento, ma non riusciva a fermare questa così forte e greve avversione, questo timore di confessare il proprio fallimento davanti al giovane, davanti a se stesso, che lo opprimeva ad ogni respiro, rendendogli difficile anche solo guardare il suo interlocutore, tanto che ringraziò Dio per il buio della cella. Tuttavia, sentiva di dover rivelare a qualcuno la sua verità, che così a lungo aveva celato a chiunque, nel tentativo di dimenticarla. Ma il passato non si può nascondere per sempre, un così grande dolore non può essere dimenticato, soprattutto quando si vive un buio presente. Così, quell’immensa tristezza e quell’immane dolore, che il ricordo del passato aveva generato, fuggirono dal cuore del vecchio attraverso le labbra, con parole cariche di amarezza.

“Di certo, mai avrei osato immaginare sarebbe finita così”, disse infine con un sospiro.

“Ho trascorso la mia vita a peregrinare tra lande desolate e infiniti esuli, tutto per sfuggire ad una persecuzione ordita contro la mia stessa nascita. Perlomeno, gli altri, morendo, si sono liberati di tutto il peso sulle loro spalle, ma io sono ancora qui, senza più una famiglia, senza amici e compagni di viaggio, privato di una casa, di una patria, di me stesso, privato d’ogni cosa ma non della vita”.

L’uomo posò la mano destra sul petto e subito le sue dita, facendosi spazio tra il leggero tessuto della logora tunica, si strinsero attorno ad un piccolo ciondolo: una croce di legno, appesa ad un sottile filo, attorno al suo collo. Il giovane non si accorse del movimento oltre le sbarre e impaziente aspettava che egli riprendesse il suo racconto, come se da ciò dipendesse la sua stessa vita, come se ascoltandolo la sua anima potesse purificarsi. È, forse, la compassione per il dolore altrui a spingere gli uomini ad ascoltarsi e a confortarsi tra loro, con un atto di cura, di guarigione. L’ascolto, solo farmaco per lo spirito e la mente, rimargina non solo le ferite di colui che con angoscia racconta, ma anche dell’ascoltatore, che accoglie nel suo cuore il segreto dell’altro e riscopre se stesso attraverso errori e timori altrui.

Il vecchio riprese lentamente, dicendo: “Abitavo in un piccolo villaggio fra mille altri nella regione che la Chiesa distrusse per volere di Dio, per sterminare gli eretici, ma anche noi fummo puniti, nella nostra retta condotta da Cristiani. ‘Puri’ si facevano chiamare coloro che la Chiesa cercava. Essi vagavano predicando la povertà da ogni cosa terrena, da vesti pregiate, da abitazioni sfarzose, dallo stesso cibo, e cercavano ogni giorno di uccidere i propri corpi rifiutando abiti caldi e ogni genere d’alimento, nel tentativo di fare vivere la propria anima; ma essi ignoravano che Dio non ci avrebbe donato un corpo mortale e fragile se esso non fosse stato mezzo essenziale per la vita del nostro spirito. Diventavano più numerosi di giorno in giorno, tentarono di convertire anche noi, che tuttavia il Signore mantenne saldi di fronte alla straordinaria persuasione del male. Divennero troppi, per non essere notati e temuti”.

Chiuse gli occhi e il ricordo si materializzò davanti a lui, nel suo vivido orrore e un brivido percorse la sua schiena. Riaprì gli occhi e il buio del luogo lo tranquillizzò.

“Mia moglie e io aspettavamo un bambino: sarebbe nato da lì a pochi giorni, ma già un altro figlio allietava la nostra schiva, misera vita. I guerrieri di Cristo giunsero di notte, a cavallo, nessuno li sentì arrivare, se non quando era già troppo tardi. Tenevo mio figlio per mano e tenevo l’altra mano sulla schiena di mia moglie, accompagnando il suo passo, tentando di procedere quanto più veloce possibile tra le fiamme che voraci si facevano strada tra capanne e recinti. Ovunque urla e pianti sembravano squarciare spazio e tempo, tanto che i miei spiriti vitali, distratti dal frastuono e dal panico, cessarono di comunicare tra loro e solo le mie gambe continuavano a muoversi incessantemente, capaci solo di rispondere al terrore del mio cuore”. Come sentendosi chiamato in causa, il cuore del vecchio cominciò a battere forte contro lo sterno, togliendogli il fiato, sicché passarono diversi minuti prima che la sua voce giungesse nuovamente alle orecchie del giovane.

“Mi fermai solo quando non avvertii più il passo di mia moglie di fianco al mio, né la mano di mio figlio nella mia. Stavo fuggendo. Da solo. Li stavo abbandonando, in preda al peggiore dei mali, la viltà. Mi voltai, riprendendomi d’improvviso e, come svegliandomi da un sogno, tornai a ragionare lucidamente. Mi guardai intorno. Un soldato aveva gettato al suolo una donna e si avventava su di lei sollevando in aria un bastone. Mi avvicinai a lui correndo e, afferrata una pietra, lo colpii alla testa, di spalle. L’uomo cadde al suolo, adagiandosi tra sabbia e rocce con un movimento lento e scomposto; salvai la donna, mia moglie, che in lacrime si alzò da terra e si strinse a me. Di mio figlio nessuna traccia.”

Il ragazzo abbassò il capo giungendo le mani davanti alle labbra per riscaldarle con il fiato. Quella gelida cella portava memoria di milioni di uomini, tormentati e uccisi più dalle sue fredde mura che dalle atroci torture inflitte quotidianamente. Nessuno ne usciva mai vivo, a meno che la Chiesa non ordinasse di liberare i propri ubbidienti benefattori, poco importava se essi fossero innocenti o meno: l’importanza della verità cessa di esistere, quando la libertà può essere comprata. I nemici di Dio andavano puniti e annientati con ogni mezzo. Così, come tante volte era accaduto in passato, anche quei ‘puri’, di cui il vecchio parlava, furono eliminati, insieme ai ferventi credenti nella retta dottrina di Cristo, di cui la Chiesa era vessillo e baluardo, che per triste fatalità vivevano con loro. Gli eretici, infatti, spesso si riunivano in villaggio con i seguaci del ‘vero dogma’, spinti dalla miseria e dalla fame, che si abbattevano sugli uni come sugli altri, senza tener conto, come la morte, di lignaggio o credo. E allo stesso modo i cavalieri, segnati da una croce sanguigna, facevano razzia degli uni e degli altri, fermamente convinti che i giusti, ingiustamente uccisi, nulla di male avrebbero ottenuto dalla morte, al contrario degli eretici, che morendo avrebbero liberato il mondo dalla piaga della loro esistenza e ricevuto eterna condanna nella città di fuoco.

La cella era così silenziosa da sembrare vuota, malgrado fosse piena dell’ineffabile presenza delle anime degli uomini che vi avevano trovato la morte. Esse si muovevano languidamente davanti agli occhi del vecchio, il quale non aveva ancora la capacità di vederle, poiché il tempo le scagliava troppo lontane da lui e lo spazio non permetteva che la fragile fattezza dei corpi viventi potesse sfiorare l’eternità della loro condizione. Così l’uomo, guardando davanti a sé, dipingeva il buio della cella con i colori dei suoi ricordi, colori che, tuttavia, poco si distanziavano dai cupi toni del luogo.

“Non trovai mai mio figlio”, riprese dopo un po’ il vecchio, con voce stanca.

“Nessuno lo aveva visto, nessuno lo aveva cercato, nessuno… e alla fine smisi di cercarlo anch’io”. Contrariamente a quello che il giovane pensava sarebbe accaduto, l’uomo non piangeva, neanche una lacrima gli rigava il volto, né gli occhi si inumidivano o le labbra tremavano. Niente. Niente avveniva in lui al ricordo di quel bambino scomparso, magari, anzi sicuramente, ormai lontano dal mondo terreno e vicino alla madre e al fratello, già salvi in un regno che l’autorità imperiale e il papa non sembravano aver interesse nel contendersi, accecati dalla melliflua aurea delle ricchezze terrene. Il vecchio sospirò e si mosse sul pavimento della cella, raddrizzandosi a sedere più comodamente, per quanto possibile. I suoi occhi erano stanchi, ma non il sonno essi cercavano, bramavano invece un riposo più profondo, che lo avrebbe saziato in eterno d’ogni desiderio più semplice e vitale, della fame, della sete, del desiderio di salvezza, poiché esso stesso sarebbe stato salvezza dal mondo.

“Ci spostammo ad est, verso una nuova terra, radunando superstiti ed esuli, miseri, nullatenenti, esclusi dagli uomini e uomini noi stessi, più fragili forse, ma ugualmente degni di vivere, tutti diversi per credo e origini; accomunati dalla privazione dell’essenziale, giungemmo in una regione illuminata dal sole, dopo dieci giorni di cammino. Sembrava avessimo trovato la pace. Avevamo trovato buoni rifugi e disponibilità di risorse. I bambini crescevano, noi invecchiavamo, col timore d’esser scoperti. Ogni giorno giungevano notizie di stragi e violenze inaudite, di aspre persecuzioni, di catture, morti; Le voci, che da ogni dove ci raggiungevano e atterrivano, diventavano sempre più numerose, sempre più pesanti da sopportare, e i nostri cuori si stringevano in uno solo nella paura. Quando mia moglie mise al mondo il mio secondogenito, non fu la gioia o la speranza a riempire il mio cuore, ma un rinnovato timore, un opprimente senso di colpa per aver offerto una nuova vittima al male del mondo; d’altra parte il bambino non ebbe neanche il tempo di fiorire: la sua vita fu subito mietuta insieme a quella della madre”. Il vecchio rise rumorosamente per un tempo che parve infinito.

Il giovane si riscosse dai suoi pensieri, spaventato da quell’improvvisa follia, e si scostò di scatto dalle sbarre. Poi, puntando gli occhi su quelli dell’interlocutore, il vecchio quasi urlando disse: “Uno dei nostri ci tradì. Nulla gli importava di noi, solo adesso me ne rendo conto. Ci ha venduti come bestie, per una manciata di monete d’argento. Ci ha gettati nel fuoco dell’inferno senza il minimo scrupolo, ma il vero inferno lo attende già”. Malgrado la sua rabbia, il vecchio intuiva però la verità, in cuor suo, ed era giunto ormai il momento di ammetterla, a nulla gli avrebbe giovato il rancore. Egli sapeva bene, infatti, che mai quell’uomo li avrebbe traditi, se non per restare fedele a se stesso o ai suoi cari e che mai egli avrebbe accettato di patire ciò che il vecchio ormai da tempo pativa, sapendo la sua famiglia vittima d’un male forse maggiore, o di un destino incerto dal quale sarebbe stato escluso. Forse avrebbe fatto la stessa cosa anche lui, nell’ignota situazione in cui quell’uomo si era trovato. Ma ormai che senso aveva pensarci? Il suo animo stanco desiderava solo avere pace, dopo tanto tempo e l’odio era diventato un fardello troppo pesante per le sue vecchie spalle. Il vecchio si coprì gli occhi con le mani. Pianse, immerso nel buio più profondo, silenziosamente, solo per poco. La moglie e il bambino, nato da pochi mesi erano stati uccisi, senza alcuna pietà, in seguito a quel tradimento, e con loro mille altre vite furono rubate, le vite di coloro con cui tanto a lungo si era nascosto. Egli tuttavia era riuscito a fuggire e per vent’anni fuggì, correndo incessantemente lontano da un’ingiustizia che, prima o poi (e lo sapeva bene), lo avrebbe colpito con tutta la sua forza. La vecchiaia cominciò pian piano a farsi sentire e con lei il rimorso di un’esistenza senza vita. A nulla serviva cercare di sopravvivere, se nulla più lo legava alla terra, così decise di arrendersi, nel tentativo di accorciare la distanza con la moglie e i figli. Il ricordo dei suoi cari e la speranza di poterli presto rivedere in un luogo migliore sciolse la paura di soffrire la pena della cattura, così con coraggio, o follia, si consegnò alle autorità ecclesiastiche spontaneamente, con il vivo desiderio di abbracciare un eterno riposo, quello che, ormai, stava per avvolgerlo.

L’uomo prese tra le dita la croce che aveva appesa al collo e con un movimento deciso se la sfilò e la gettò oltre le sbarre in direzione del giovane.

“Tieni figliolo, non ne ho più bisogno ormai … porta inciso il nome di mio figlio, quello che il destino mi prese per primo. Vorrei dirti di tenerla come portafortuna, ma, come vedi, a me non ne ha portata molta. Ma magari ti ricorderà di me”. Le sue parole si trascinavano una dopo l’altra, con fatica, accompagnate da un pesante respiro. “Finalmente li rivedrò”, disse infine.

Un fievole bagliore rischiarò la cella, quasi d’improvviso. Una luce violacea si insinuò con timida superbia tra le sbarre che serravano la finestra. L’alba, finalmente, arrivava. Il giovane che per simile causa divideva pena simile con il vecchio, chiuse gli occhi e sospirò: presto le torture sarebbero ricominciate. Prese la piccola croce dal pavimento. La rigirò tra le dita per qualche secondo, poi la guardò con più attenzione. C’era un’incisione sul legno ruvido di cui era fatta. Si alzò in piedi e si avvicinò al debole cono di luce che dalla finestra entrava nella cella. Si leggeva un nome. Eaco.

Il suo nome.

Ventiquattro anziani si posero davanti agli occhi lattiginosi del vecchio, seduti sui loro seggi. Essi, alzatisi con grazia, si prostrarono faccia a terra, rivolgendosi a qualcuno alle sue spalle. Il vecchio si voltò e vide, laddove poco prima si stagliava il muro della cella, un assiso, vestito di luce. E vide gli astri comparire accanto a lui e prostrarsi al cospetto di quel Sovrano. Si voltò versò l’entrata della cella, ancora buia e non illuminata dai colori dell’alba. Migliaia di cavallette si riversarono nella cella attraverso le fessure della porta, tra le sbarre. Queste avevano capelli di donna e i loro denti erano in tutto simili a quelli dei leoni. Avevano il torace come corazze di ferro e il rombo delle loro ali era quello di carri trainati da cavalli lanciati all’assalto, avevano code come gli scorpioni e aculei2. L’uomo cominciò a tremare in preda al terrore così, con forza, gridò: “Signore, vieni in mio aiuto”.

Nulla di ciò vide il giovane. Il vecchio si calmò improvvisamente. Le sue pupille tornarono a distinguere i deboli colori e le forme della cella. Si voltò alla sua destra, a guardare oltre le sbarre. Eaco era ancora in piedi. I suoi occhi vagavano incerti sull’incisione. Si avvicinò alle sbarre e si inginocchiò accanto al vecchio. I loro occhi si incontrarono, le loro anime si riconobbero. Le labbra dell’uomo si incresparono, quasi volesse sorridere, ma una nuova tristezza lo avvolse: stava per abbandonare suo figlio. Di nuovo. In quella terra amara. Una candida luce lo avvolse e lo portò via da quella prigione fatta di carne e ossa. Il ragazzo strinse la croce al petto e rimase fermo a guardare i vuoti occhi del padre, in silenzio.

2- Riferimento ad Apocalisse 9: 7-11

E così il tempo passa, le stagioni mutano, tutto pare fuggire da una primordiale forza cosmica, che rincorre tempo e spazio, lasciando posto solo ad un apocalittico nulla.