L'angolo dello scrittore

Omaggio al Basket…. omaggio a Kobe

pallacanestro 2 3 4 5 6Le prime schiacciate le vidi fare da Doctor J è fu amore a prima vista. Da allora il basket a stelle e a strisce non mi ha mai abbandonato. Incantato dai Sixers del Dottore, di Malone, di Toney, di Cheeks, di Bobby Jones, capii in una notte davanti al televisore, negli ultimi secondi al Garden, nella finale Est tra i Celtic e i Sixers che c’era un avversario, forse un nemico, da battere. Beat LA….Beat LA…. Beat LA…. I tifosi dei Celtic coscienti della sconfitta incitavano i vincitori al passo conclusivo: battere i Lakers. Un ragazzo capiva in quel momento che nel magico mondo NBA ho tifi Lakers o non tifi Lakers. Show Time veniva chiamato. Los Angeles Lakers! Potevano perdere, certo, ma per un anno, massimo due. Larry ha dovuto alterare i principi della biomeccanica per strappare qualche titolo agli Angelini, arroganti, forti, dotati di una struttura che faceva di Pat Riley la fedele rappresentazione della macchina perfetta. Così iniziai la mia personalissima ed intima campagna contro i Lakers. Il messia arrivò da North Carolina. E mentre AC Green incredulo guardava disorientato il volteggiare del 23 in uno di quei canestri che cambiano i parametri delle umane abilità, il sogno si avverava: 4 a 1. Certo i Bad Boys dei due anni precedenti avevano minato quelle certezze, ma l’orizzonte che ti offriva quel giocatore, in quella squadra e con quell’allenatore era diverso. La storia ci racconta di vincitori e vinti, di eroi e di umiliati. “Campioni” li chiamano. Numeri straordinari. Pat Ewing, Charles Barkely, Clyde the “Glide”, Greg Ehlo, e tanti altri. Non sconfitti ma perdenti, se non umiliati. La faccia di Cliff Robinson dopo i 32 nel primo tempo nella finale 92’ ne sono l’emblema. Non riuscii a capire perché ma ne feci una ragione. Un ritiro inaspettato a 30 anni con l’unanime convinzione che in quel momento fosse il più grande giocatore di basket. Poco male. Hakeem the Dream pensò bene di mettere a distanza I gialloviola dal titolo neutralizzando l’immatura arroganza di un giovane e strano umanoide che iniziava ad aggirarsi nella calda Florida. Anno straordinario il 95’. I’m Back. Un ricordo immacolato. Se ne parlava, si mormorava. L’accesso alle informazioni era limitato. Bulls-Pacers, il n. 45 sulla schiena… insolito. Partita di rodaggio, troppa attenzione, forse tensione. Una ventina di punti in una squadra diversa da quella che ha lasciato. Scottie è più forte di prima, BJ no, è arrivato un giovane croato ma l’assenza di Horace Grant si sente. Bastano pochi giorni per cancellare ogni dubbio. Al Garden ne fa 55 e scrive un’altra pagina ma il bello deve essere ricercato dopo che assapori il brutto. Da troppo tempo non perdevi. I lividi che ti dedicò Chuck Daly sono svaniti, adesso i giovanotti di Orlando fanno ancora più male: 4 a 2 e sei fuori. Anno straordinario il 95’. I razzi vinceranno il secondo titolo arrivando in finale dal 6° spot. Gli Spurs che sembravano favoriti riuscirono solo ad adempiere al compito più importante: eliminare i Lakers. The Dream ridicolizzò l’Ammiraglio che riusciva regolarmente a farsi insultare da un altro protagonista, suo compagno di squadra, con i capelli gialli, il numero 10 sulle spalle, il grunge dei Pearl Jam nella testa ma soprattutto con oltre 18 reb a partita in stagione. Sembra che nonostante il parere contrario di Scottie, Phil non esitò nemmeno un minuto ad assecondare il 23. “il Verme deve venire a Chicago, sappiamo come addomesticarlo, …. anzi sappiamo perché non dobbiamo addomesticarlo”. Anche questa è storia. Altri “campioni” altri sconfitti. The Glove, Zo’, Stockton e il Postino. Ci riproverà Ewing, si farà affidamento sulla cattiveria di Reggie Miller. Lo stesso umanoide di Orlando dovrà guardarsi allo specchio più volte per capire perché un Verme tatuato, con i capelli arcobaleno, con una ventina di chili e 15 cm in meno di lui riuscisse a non fargli fare canestro. 95/96, 96/97 e 97/98 anni indimenticabili. Il battesimo del The Great Team Eever si consumava mentre sulle coste del pacifico i Lakers sprofondavano in una insolita mediocrità. Durava ormai da troppo tempo. Qualcosa doveva succedere. Stagione 96/97 il roster dei Gialloviola viene scosso dall’hollywoodiano ingresso dell’Umanoide che lascia le coste della Florida per quelle californiane per la gioia di Jack, che iniziava a dare chiari segni di nervosismo stile Shining. Vlade si allontanerà per qualche centinaia di miglia meditando vendette mentre Eddie Jones insieme a Nick The Quick si ritroveranno nello spogliatoio del Forum un giovane di 18 anni, tonico, ambizioso, proveniente direttamente dalle High School, figlio di un giocatore “all around the world”. Space Jam fece il resto. Be Like Mike non era solo uno spot. 20 secondi alla fine. Malone in post marcato dal Verme. Jazz avanti di un punto, la coscienza che in game 7 Scottie non ci sarà: ha la schiena a pezzi. 17”, 16” …. ed ecco the Steal, 10”, 9”, Bryon è incollato, nessuno si distrae, 8”, 7”, 6”… Bryon in ginocchio 5” The Shot e poi… il ritiro. A 35 anni il più forte di sempre si ritira. 98/99, 99/00 anni bui, il ritiro, la fine di una stagione che sa di “generazione”, il lockout che faceva da colonna sonora per tutto l’inverno del 98. Si riprende, nulla è come prima. L’Umanoide cambia i connotati al gioco che ne esce tumefatto. Ci grazia di una variabile che Don Nelson trasforma in regola: Hack a Shaq. Due luci all’orizzonte, completamente diverse ma luminose quanto basta per trovare una improbabile ancora di salvezza: la prima illuminerà San Antonio in un esercito guidato da un indigeno slavo, la seconda si calerà su Phila lasciandosi dietro macerie personali ma offrendo una chance non solo ai Sixers ma ad una intera fascia di rifiuti generazionali a stelle a strisce. Gli Spurs vinceranno nel 99 ma il percorso era segnato, Phil ha sciolto le riserve. Qualcuno doveva pur farlo. Quel maggio del 2000 fu indimenticabile. La mia Portland, l’esempio più evidente della chimica di squadra domina, disintegra, umilia e bastona l’Umanoide e il suo “fedele alleato mai compagno”. Ed è lì ad un minutodalla fine del terzo quarto di game 7 della finale di conference, che succede qualcosa. 71 a 55, si parte da lì. Niente sarà come prima. Scottie ultimo eroe a cui aggrapparsi è l’ultimo a cedere, Rasheed, prototipo futuristico di ala-grande, vedere sciogliersi come neve il vantaggio 84 a 89 e io che già gustavo la sfida contro l’odiata ad est sento lentamente, con una progressione assordante Beat LA …Beat LA … Beat LA …. Una finale, quella del 2000 che ti mortifica nell’anima. Larry riesce ad iniettare nei Pacers, dopo game 1, dosi di sporca vitalità che da speranze. Speranze sostenute da un infortunio alla caviglia del “fedele alleato e mai compagno”. Game 4 è un gancio alla mandibola che vuoi dimenticare. O’Neal fuori per falli, adesso i gradi sono suoi. Quel giorno ho riconosciuto Kobe Bryant. Il giocatore che vuole far credere al mondo di essere il più forte o semplicemente più forte del mio, mai dimenticato, 23. Mi rimette in sintonia con il gioco, ho dei riferimenti adesso. Tocca a The Answer. Lo adoro, potrebbe essere il mio eroe. E’ sufficientemente cattivo e i Lakers non hanno nessuno per marcarlo. Il violento arresto della trionfale marcia che stava accompagnando i Lakers nei playoff di game 1 è più di una speranza. Kobe vs Allen, Shaq vs Dikembe è credibile. Ma i Lakers hanno killers che possono mettere a dura prova qualsiasi “punto d’unione”, Horry, Fischer, Fox, insieme oltre il 50% da tre. Anni duri. Three-peat. Il 2001 lo ricorderò come l’estate del ritorno. Il 23 ha deciso di darmi una speranza, minata dalla cattiveria di un giovane teppista durante la Summer league che decide di farsi conoscere al mondo con il nome di Ron Artest. Gli romperà due costole. Il 30 ottobre, con il 23 dietro la canotta dei Wizards per ricordare al mondo che si può giocare anche in una squadra di brocchi, sarà in campo al Madison. La favola continua. Obiettivo playoff mancato. 16 aprile 2003, una colonna sonora importante della mia vita finisce di suonare. A Phila si consuma il ritiro definitivo. Due mesi prima a 40 anni metteva 43 a referto con 10 reb 4 ast 4 steal contro i Nets. Tre mesi prima, nell’ultimo All-Star game del 23, capisco che Kobe ha un miraggio: offuscare la stella e prendere in mano la Lega giocando una partita con una cattiveria mai vista prima. In soccorso arriva Jermain O’Neal che pensa bene di fare un fallo inutile su Kobe a pochi secondi dalla fine e mandarlo in lunetta per il supplementare. Vittoria Ovest e niente MVP per il 23. Bastardo, pensai. Da allora ogni singola partita ogni singolo movimento dell’8 veniva da me vivisezionato per intercettare debolezze e, soprattutto, quanto diversi fossero i due. Ben Wallace, Rasheed, Billups, Prince, Hamilton mi regalano una delle più belle stagioni. Non basta l’innesto di Malone e The Glove, i Pistons dominano i Lakers nella finale 2004, il maledetto canestro di Fischer a 0,4” dalla sirena contro gli Spurs sarà solo un ricordo e quell’estate sarà la più bella dal 98. Ma Kobe è lì. Shaq andrà via. Prova a vincere adesso … se sei capace! Ci riuscirà il maledetto. Il teppista Artest acchiapperà il rimbalzo giusto e Nash, Howard, Amare, Kidd, Miller, il Barone dovranno trovare posto tra i losers. Fortunatamente respiro. The Thruth ed un giovane Rajon troveranno alla loro corte Kevin ed He got Game ed insieme riusciranno a zittire il maledetto con il 24 alle spalle. Posey diventerà il mio eroe. Il maledetto si riprenderà la rivincita e sarà l’ultima. Con enorme gaudio vedo il nuovo, the King, Dwayne, il Tedesco e gli immortali Speroni buttano giù dalla torre i Lakers che provano a risalirla senza più riuscirci. Inizia un nuovo rapporto con il Basket. Nuovi eroi, nuove storie, nuove battaglie. Loro non ci sono più ma i Box Scores del 24 sono sotto la mia attenzione, sempre pronto a sostenere che il 23, come in matematica, viene prima del 24. Non pensavo che negli interstizi della mia giovinezza perduta quella mattina dell’aprile del 2003 ci fossero ancora degli ormoni vivaci. Che tu sia dannato Kobe. Ti ho odiato come nessuno nel mondo a stelle a strisce. Ti ho odiato per quello che volevi essere. Oggi capisco che ti ho odiato per quello che sei stato. Che tu sia dannato Kobe. Continuerò ad odiarti ma adesso ho una ragione in più, hai umiliato i miei sentimenti più intimi e nascosti. Che tu sia dannato Kobe. Ti odio ancora di più perché con te se ne va un’altra fetta della mia esistenza. Grazie Kobe per le emozioni che ci hai regalato.