I racconti del Premio letterario Energheia

Oltre la tempesta_Angela Giordano, Matera

_Racconto finalista seconda edizione Premio Energheia 1995.

 

Ero bagnato… bagnato, ma sfoggiavo ancora una sottile ironia, fottuta. Bagnato non era la parola più giusta per indicare un uomo che aveva passato la notte sotto la grandine battente, ininterrotta. Un uomo che aveva lottato contro il vento e le furie del tempo per mantenere o cercare di mantenere, ancorate al suolo le sue adorabili piante… legare fradice piante che ti scappano via scivolando dappertutto… nell’acqua. Quello avevo fatto io, quella notte… che ormai stava passando, sopra di me… sopra tutta quell’acqua!

Erano due ore che non cadeva più grandine. Una fitta pioggia continua e snervante aveva preso il suo posto, ed io ero ancora fermo sotto l’acqua, nell’acqua… inzuppato fradicio fino alle ossa e forse anche di più. Tremavo, ma non per il freddo, quello lo avevo già vinto ore prima. Vinto… solo mi ci ero abituato, sì, semplicemente abituato. Quando?

Quando l’acqua gelida aveva trasformato tutto in un pantano ghiacciato. Già, il freddo di notte… tu che sei immerso in un mare di fango… E duro da superare.

Ripensavo che, ironia della sorte, pochi giorni prima avevo pregato Dio… che piovesse sulla terra arsa, sulle piante… che… bé, amen!

Tremavo, ancora tremavo. Tremavo perché avevo paura, paura come un bambino… il terrore di alzare di nuovo lo sguardo. Pensai: “Quant’è che sono fermo così?”. Già, quant’era che ero fermo così? Non so… non lo ricordavo più… ero immobile, gli occhi sbarrati, fissavo le scarpe, il fango che vi si era incrostato sopra disegnava strane figure… rombi… ma non ero io che osservavo le fottutissime cose, ma tutti quei particolari, curiosi, che attiravano la mia attenzione. I miei occhi, come calamite, guardavano, cercavano… anche oltre le cose, le scarpe, oltre il fango, l’acqua… oltretutto… cercavo, cercavo…

“Non sei più un bambino”. Non sembrava mio quel pensiero, ma una sorda eco che rimbombava pesante nella mia testa. Già, ma non ero più un bambino davvero e dovevo staccare lo sguardo dal niente… dovevo farlo, e lo feci… da uomo, lo feci!

Stancamente sollevai il capo, e lenti i miei occhi cercarono un punto preciso, lo fissarono e si aprirono… timorosi…

Era tutta lì davanti a me la mia terra… quello che rimaneva di mio… e non rimaneva granchè!

Fermo, osservavo insensibile giacere perdute quelle che erano state le mie piante… i miei frutti… i miei fiori… miei… insensibile, perché?

Perché ero fermo, sotto l’acqua… l’acqua mi aveva portato via tutto… anche gli odori della mia terra, i profumi a me cari… e ora non avevo davvero niente, niente di mio!

Mio, mio, mio… sì, mio!! Ero sempre stato solo io, con il mio lavoro, e ora in mezzo a tutta quelliacqua galleggiavano i resti di imioi… resti sparsi… bagnati… perduti!

Resti di quello che avevo avuto, tutto ciò che era stato mio e… cercavo… cercavo…

 

Il freddo scroscio battente si trasformò in tiepida pioggerellina, e questa prese a carezzarmi gli orribili segni sul viso… sì, la grandine per tutta la notte. Aguzzai lo sguardo come un falco… scrutando intorno… La nebbia compatta era opprimente, ma lentamente prese a diradarsi… lentamente, lentamente… poi scomparve di colpo!

Che straziante visione, provai un dolore acuto al petto, povero cuore. Il dolore era grande, lancinante… insopportabile… Strinsi forte i denti, ma questo mi svuotava la mente…

Fermo lì, ed ora anche incapace di pensare… statua di ghiaccio mentre sentivo un fuoco bruciare dentro, incontrollabile… madido e lurido… lurido…

Riuscii a pensare di nuovo, e pensai: venti anni passati con le spalle ricurve sulla terra. Pensai alle mani, le mie… grandi e sporche, segnate dal tempo, dalla fatica, mani sgraziate, possenti. Io le ho fatte entrare nella terra, la mia adorabile terra, con la stessa dolcezza e passione con cui un uomo innamorato tocca la propria donna… con tenerezza. Adorabile donna la mia terra…

La guardavo, era avvolta in un attonito bianco… apatico e dominante… odiavo quel colore… lo odiavo!

Un istante, serrai gli occhi che divennero due fessure, due lame taglienti. Mai era stata così, così… bianca, terra senza sole, senza colore, senza odori… senza niente, un fottutissimo niente… Albeggiava… Le nuvole si muovevano frettolose, scomposte. Irreale quella luce bianca… irreale la mia terra, un aspetto quasi lunare, ma anche allora la trovavo bellissima, misteriosa e adorabile. Cercavo, fin dove mi arrivasse lo sguardo… cercavo…

Impotenza! Crebbe dentro assumendo uno spessore quasi fisico, che m’impediva di muovermi… già!

Odiai questa terra che mi faceva così e odiai me stesso, un uomo che non riusciva più a muoversi e che guardava la sua terra consumarsi. Ero vinto… pesante, e pesanti erano le braccia… il corpo… i pensieri… il respiro. Gli abiti fradici m’inchiodavano al suolo, quasi mi spingessero più in basso, sempre più giù… Un istante, e mi ritrovai indietro nel tempo, in un ricordo orribile… quello spettacolo davanti ai miei occhi divenne un volto, e il viso scavato da rughe profonde divenne un nome dal suono dolcissimo… li ho davanti: mia madre…

Vorrei poterla sfiorare, ma riesco solo a guardarla… i suoi occhi spenti, persi nel vuoto “Mai!”, il sorriso tuo amaro, l’aspetto malmesso… il mio primo amore… “Mai!” Vorrei carezzarti… bellissima, volgare figura nel corpo tuo vecchio… vorrei carezzarti… te che ricordo così da sempre… dolcissima vecchia, da sempre… sfatta com’era la mia terra… femmina sfatta, consumata dal tempo. Ho il respiro affannato, quasi un rauco lamento, ho voglia di urlare, ho voglia di muovermi, di non pensare piùa niente… ho l’amaro in bocca… ho voglia di… sì, una fottuta voglia di bere… bere!

Provai a sollevare un piede, provai… li avevo immersi nell’acqua fino alle caviglie. Erano pesanti, non ci riuscii. Mi guardai le gambe. Ma dov’ero finito? Già, dov’ero finito?

In un’enorme pozzanghera ma, diversa dalle altre. Perché? Perché nelle altre affogavano le mie piante, i dolci miei sogni, mentre in questa morivo io? No… no, non era per questo… era diversa… già, era densa e aveva uno strano colore, familiare. Involontariamente mi piegai, attratto, per toccare quel marciume melmoso… caldo… era caldo, ma lo avevo già fatto! Già…

E’, il ricordo, un istante veloce che corre senza comando. Respiro con difficoltà, ansimo… il mio cuore è un tamburo che scandisce il tempo frenetico. Io sono curvo su… sul sangue. Tutto quel sangue. “Pulisco… pulisco io, mai!”. Ho gli occhi carichi di lacrime, quasi ci affogo nei miei lacrimoni… “Pulisco io, mai!”. Ha lo sguardo perso nel nulla, cerca i ricordi della sua vita, lontani… sereni… cerca, cerca! Intorno vedo angeli… imprigionati in grosse lacrime; bocche spalancate emettono lamenti indecifrabili… “Pulisco io, mai!”. Non riesco a dire nient’altro… sono solo un bambino e penso al sangue che è caldo… il sangue è caldo… già…

Le facce si riconfondono tra loro nella nebbia… facce uguali… angeli bianchi… benevola nebbia…

Lentamente il ricordo sbiadiva come le vecchie foto di famiglia, lasciandomi solo quella sensazione di impotenza che ormai era diventata la mia natura. Fermo, inutile… nella terra… fermo, anche davanti a mia madre che mi guardava… cercando oltre me, come io… oltre lei… fermo… “Mai!”… fermo…

 

Mia madre prolificava come la mia terra…

Mia madre, dignità perduta… come la mia terra…

Mia madre subiva… come la mia fottuta terra…

Che notte… Sudavo anche con il freddo… o gli abiti inzuppati. Mi persi nuovamente nel bianco… lo avevo ovunque; provavo invano a spostare il corpo, spingendolo in avanti… uno stacco d’atleta, per oppormi ai ricordi che mi tiravano indietro, fisicamente… e con forza!

Io mi sforzai… mi sforzai… mi sforzai, ma persi anche quella battaglia.

Violenta tempesta, mi aveva ridotto nel corpo e nelle intenzioni, solo il dolore non s’era attenuato, serrai i pugni di scatto. Volontariamente? Non so…

Le immagini erano ancora confuse: mia madre… la terra… vinti e rassegnati tutti… indifesi amori… indifesi…

 

Rabbia incontrollabile riprese a fluire nel mio corpo mischiandosi con quello che ancora mi teneva in piedi, in vita… I battiti più forti, il profondo respiro di chi si carica… pronto allo scontro. Nella mente i ricordi ripresero veloci… più veloci… Ingrossai le vene, vene da uomo, guardai le mani, erano livide, serrate… contratte da tempo, volontariamente!

Un urlo strozzato si bloccò in gola, sì, ero pronto!

Un istante, impercettibile istante, e mi ritrovai scaraventato lontano in una violenta tempesta. Sapevo dove ero, stringevo i pugni facendo appello alle mie ultime forze. Non volevo ricordare… non volevo questo… volevo solo correre, correre via da lì, volevo andarmene, forse volevo solo respirare di nuovo… allentare la tensione… slegare i pugni… volevo smettere di tremare… sì, lo volevo… lo volevo… ma non potevo! Ah, non riesco piùa mentire, tempesta voglio te, ti voglio adesso qui davanti a me, ora che non sono più un bambino, ora che ho le braccia da uomo… da uomo!

Non riesco a respirare, e non riesco neanche a controllare le mie emozioni che impazzano dentro… dentro la testa, il cuore… dentro le mani. Dentro… ti rivedo ogni giorno e non sono mai pieno, mai così pieno. Mi sembra di riesumare un fantasma… sì, un fantasma che spaventa solo me. Violenta tempesta, sei tu… tu… mio padre! Mio padre…

“Pa’!” Eccoci ancora, pa’! Come ogni notte…

Padre, il nome che tramuta l’acqua che mi serve sul campo in devastante tempesta. Padre, la tua enorme figura toglie la luce al sole. Potente sovrasti mia madre, minaccioso sui miei fratelli. Padre… questa notte… come la tempesta sulla terra… già… “Pa’!”…

Io faccio quello che posso, ma sono solo un bambino…

Vorrei poter fare di più, di più… ma mi guardo le mani e sono piccole mani, da bimbo… non possono niente, niente… Ah, sì, vorrei averle più grandi e lavorare più in fretta, vorrei fare tutto da solo…

Se solo potessi… “Pa’!”… se solo potessi…

Terra… terra… terra. La fonderei con le mani, pianterei le sementi sputandole in aria, mieterei il tuo fottutissimo grano staccandolo a morsi… ma non posso, sono un bambino… la colpa è mia, lascia stare mia madre… è colpa mia, lascia stare i miei fratelli… lasciateci stare tutti… Si soffoca qui dentro, non riesco più a respirare… né a pensare, già… aprite la finestra perché brucio, io brucio. Rabbia è il fuoco che mi arde, mentre intorno ai miei occhi, come in una giostra, girano veloci: la terra, le piante, la casa… mio padre, i miei fratelli, mia madre. Io sono al centro della dannatissima giostra e non riesco a tener fermo niente… “Stai bene ma’?” Senza aria la casa… Non vedo più… Non penso più… Ti prego… Afferro stretto la prima cosa che trovo e ti prego… non toccare mia madre; ti prego… non toccare i bambini. Ti prego “Pa’!” fermati, basta… basta. Le lacrime, i singhiozzi, le grida, niente ti ferma Io sto pregando e neanche so farlo, ma niente ti ferma… niente… “Pa’!”… Non ti vedo… “Ma’!” non vedo il tuo bellissimo volto… scomparsi i miei adorati angioletti… vedo solo la tua faccia bianca in mezzo alle tue lacrime… faccia che mi scivola avanti, mi cade tra i piedi… bianca… Ci guardiamo un istante, tu ed io … finalmente intorno la giostra si ferma… solo i tuoi occhi fissi sui miei… “Pa’!” Che ho fatto? “Pa’!” Tu non ti muovi… tu non ti muovi più… Dovevo fermarti… “Pa’!”… potevi ascoltarmi… Hai smesso di fare tempesta, hai smesso… Ah! Hai smesso!… ed io ho smesso di essere solo un bambino. “Pa’!”…

Un leggero alito di vento mi riportò sul campo. Padre, troncassi il ricordo che ho di te, l’acqua dove annego farebbe meno male. Le lacrime si persero nella pioggia… la rabbia si esaurì, come veleno, ma io ero ancora immobile a fissare il vuoto.

Dio, perché non riuscivo ad andar via? E lo volevo davvero… Terra adorata, terra… terra, ah…

Terra. Mi faceva piùmale averla che perderla; avrei voluto voltarmi senza rimpianti o rimorsi, mandare tutto a farsi benedire o meglio… darle fuoco!

Sì, ai rami spezzati, ai frutti immaturi… promesse mancate… i colori perduti, agli odori… i miei odori, smarriti…

Quante volte avrei voluto bruciarmi e non sono stato capace di farlo, mai! Impotente, anche su questo!

Dio mio! Dannazione… e allora, cosa so fare? In cosa io non resto fermo? Cosa riesco a… toccare senza distruggere o veder morire, senza osare sfiorare? Odio il colore in cui mi sono costretto per anni, odio questo apatico bianco, che si confonde con il bianco di sempre.

Avrei voluto incontrarti quella mattina sul mio campo e farti vedere che razza di uomo era diventato quel bambino… gridartelo in faccia, segnartelo in faccia, sì… in faccia!! Ah, Dio mio… Assurdo, pensavo davvero di poter fare a pugni con Te… forse vino ciò che era piovuto per tutta la notte. Sì, era vino ed io ero solo ubriaco… ubriaco fradicio.

Quanto mi avrebbe aiutato fare a pugni con Te, che mi hai fottuto la terra, così come io mi sono fottuto il cervello… già…

Sono fermo in un campo allagato, mi parlo a gran voce e aspetto che venga giù Dio per sfogare un po’ di rabbia o per soddisfare l’eterna mia voglia… di dar via la mia terra. Che notte, stanotte!

Cosa non avrei fatto pur di andarmene, ma ero inchiodato al suolo, i piedi nel fango della pozzanghera densa come sangue… e quasi radicavo anch’io come le mie piante… radicavo senza saperlo, senza volerlo… fu come un segnale, radicavo? Il segnale che aspettavo da tempo… radicavo… Mi guardai meglio, attento ed incredulo… non avevo più braccia ma rami, non avevo più piedi ma radici, non più capelli ma fronde scomposte… e composte…

Ero in mezzo a quel campo l’unico albero vivo, sopra tutto quello scempio! Vivo… sull’apatico bianco, vivo… con il verde fogliame, verde!

Avevo cercato dappertutto nella mia terra senza trovare niente, ma non avevo mai guardato me, ed ero sempre stato lì! Non mi riconoscevo o solo non mi ricordavo così… così… io, ero io… già!

Le ultime nuvole lasciavano il posto al primo raggio di sole, dopo tanto tempo, e il primo segno di vita soavemente cadeva proprio sulla mia terra, proprio su di me… uomo cieco, sordo e muto che ero stato. Ah, fottutissima pianta che sono!

Mi sorpresi pianta capace di sopportare ancora tempeste, e mi convinsi a radicare nel campo o radicai senza saperlo? Non so! Sapevo solo che non sarei riuscito ad abbandonare la mia terra, già… non volevo riuscirci… già!

Mai avrei scommesso una lira bucata, finii nella terra sfidando la morte e mille bufere, mostravo quel giorno la vita… solenne, oltre l’ennesima dannata tempesta!

Solenne… lontano nel tempo…

Solenne, parola fatta d’aria e vuota… mi sviliva questo oggi, come la parola impotente mi sviliva da sempre… già.

Intorno si sparse un fresco odore liberatorio, io ripresi a respirare profondamente e non mi pesava più così tanto… era tempo ormai. A pieni polmoni… ah!

Sembravo rigenerato, rifiorito a nuova vita, non cercavo più niente, avevo le mie fronde scomposte e ormai vedevo solo queste, verdi, verdi… Io adoro il verde…

Verde, il colore della terra quando questa esplode con vigore e t’insegna una nuova stagione… Ricominciare dal verde… L’unico colore dove mi perdevo felice da bambino. Verdi gli occhi di mia madre… Verde il suo vestito, quel giorno, alla fermata, per separarci… E ricordavo verde anche l’odore che portava sempre indosso… tra i capelli, sui vestiti… L’odore e il colore si confondevano tra di loro ad ogni nostro abbraccio, e a me parve si confondessero con me quella mattina… già. Un odore particolarmente verde mi risvegliava.

Smise di piovere, il sole di forza irruppe sul mio campo illuminandolo, colorandolo… Io respiravo…

Sparì il bianco lunare e il mio adorato fogliame prese a danzare allegro. Io respiravo. Si aprì un brillante arcobaleno, divenne una scala da salire per uscire da quel pantano… io la seguii… Respiravo… Mi muovevo lentamente, ma senza difficoltà, ero fuori e camminavo e respiravo. Sereno, mi rividi ragazzo correre nel prato verde, correre incontro a mia madre… correre oggi incontro alla vita. Non c’erano più nubi sulla mia terra. Da quando? Non so… Per quanto? Non m’importa, non questa mattina. Camminare è tutto quello che voglio… già!

Sono preso da strane emozioni, che sembravano perse. Mi guardo e guardo la mia terra con occhi diversi… m’infiamma il cuore, mi ridà… la vita… dappertutto: nelle mani, nel corpo ancora addormentato, e il nuovo colore mi riaccende lo sguardo… e quell’odore, già, stranamente quell’odore liho ovunque… copre la puzza d’impotenza, dei ricordi… ed io respiro… respiro…

Un freddo suono metallico mi fece morire il sorriso sulle labbra, di colpo aprii gli occhi, la luce del sole già alto quasi mi accecò. Era giorno di nuovo? No, era giorno davvero, era giorno anche qui… già!

Mio Dio, era passata solo una notte… e che notte… come tante altre mie notti, già! Avevo confuso gli innumerevoli ricordi, le tempeste, avevo mischiato tutto, rivisitato i miei incubi, cercando cosa? Ciò che avevo perso di mio, pregando invano di perdere la mia terra. Ancora mille domande stanotte e nessuna risposta… un unico viaggio per l’ultima notte che trascorrevo in quella bianca cella che mi aveva strappato alla terra per tanto tempo.

 

Ancora quel suono metallico!

“3.317” Ero io, avevo il bagaglio pronto da tempo, vicino al mio letto, dovevo solo prepararmi. Io, già… solo io… Era strano dopo una notte così, ritornare alla mia realtà. Sembrava entrare in un quadro che non mi apparteneva, ma la realtà oggi aveva un sapore speciale, era un giorno speciale, lo sapevo e si vedeva, da tutto, anche dal mio viso. Mi guardai allo specchio, il mio era finalmente un volto sereno, quasi un uomo. Mi erano passate le orribili rughe, lo sguardo perso e il cruccio perenne. Avevo pagato ogni colpa!

Stamattina io sono diverso… non cerco più niente… niente… Finalmente vedo tutto chiaro e so, dove mi sono perso… nel mio sogno… già, l’incubo che ho chiamato ricordo per troppo tempo.

Io sono la pianta, la terra è la mia vita e non devo più rimproverarle niente, neanche le tempeste che mi sono accadute, perché io, fottutissima pianta senza nome, sono qui, vivo, ancora vivo e non vinto, non ancora spezzato! A dispetto di tutto quello che mi è stato tolto, promesso e non mantenuto. A dispetto di tutte quelle tempeste… già! A dispetto anche di me stesso…non darò via la mia terra!

“3.317, allora… pronto?”

Sì, e da tempo, da tanto tempo. Questa è l’ultima volta che rispondo a un numero. Vado in un posto, dove non esiste nientialtro che il verde… la mia terra; vederla adesso che inizia una nuova stagione, non c’è niente che dia più piacere agli occhi, al cuore. Toccarla, non penso che a questo… il piacere alle mani… alla mente… niente più della mia terra… niente più della mia… adorabile vita… già…