I racconti del Premio letterario Energheia

Nagapattinam_Marco Arnone, Daniele Celsa, Maurizio Cea_Palermo

_Racconto finalista undicesima edizione Premio Energheia 2005_

 

 

Non mi resta che il ricordo. Faccio quasi fatica ad arginare il fiume di immagini che mi sta travolgendo. Devo assolutamente mettere un po’ d’ordine, restituire il proprio posto a ciascuno di questi suoni, parole, pensieri!

La prima immagine è mio padre e la sua aria trionfale, mentre comunica ad una platea di parenti, convocati, apposta, a casa nostra, l’esito entusiasmante del mio esame di diploma:

“Maturo con il massimo dei voti! Non merita un applauso?” I parenti non possono certo esimersi ed egli, rincarando la dose:

Apposta ne ho messo al mondo uno solo, così ho concentrato su di lui tutto il meglio di intere generazioni!”. Qualcuno gli fa notare che per allevare un figlio, di solito, ci vogliono due persone e che, probabilmente, qualche merito l’avrà anche mia madre. “Dettagli!” – risponde – “Non vedete come mi somiglia?”.

Sempre così mio padre: appassionato, esagerato, soprattutto quando si tratta di me. Non mi ha mai fatto mancare nulla, nonostante il nostro negozio di corredi, ormai da tempo, non andasse troppo bene. Papà dice che questo è il motivo principale per cui mamma ha pensato bene che io e lui potessimo ormai cavarcela da soli. E se n’è andata tre anni fa, lasciandosi alle spalle tutto quello in cui aveva creduto, che aveva costruito, forse, con una certa impazienza, eternamente insoddisfatta. Inutile dire che ne sento, spesso, la mancanza. Anche mio padre, lo so, ne soffre molto; ma piuttosto che ammetterlo, si lancerebbe ad alta quota col paracadute, lui, che ha terrore degli aeroplani. Da allora sono andato a trovarla un paio di volte, su al nord, dove è andata a vivere con quell’industriale tessile che ci forniva la merce. Sembra serena: deve aver trovato il suo equilibrio. Per ciò che riguarda me, si dichiara tranquilla perché sa di avermi lasciato in buone mani.

Alla fine della festicciola papà annuncia l’intenzione di regalarmi una mega-vacanza: si tratta solo di decidere dove.

Così tra i parenti si scatena una sorta di competizione storico-geografica, a sfondo turistico. Ognuno, dopo aver sciorinato aneddoti ed esperienze, più o meno divertenti, elargisce il proprio consiglio.

Riparlandone l’indomani, a colazione, sono più confuso che mai. Papà, invece, sembra avere le idee chiare e me lo dimostrerà, dice, quello stesso pomeriggio. Mentre lo aspetto, dopo pranzo, non senza una certa curiosità, cerco di riorganizzare le idee, per potere esprimere anch’io il mio parere. Dopo un po’ non ho più dubbi: mi piacerebbe visitare qualcuno dei luoghi del mondo in cui sono già stato, con la fantasia, seguendo i passi di coloro, di cui ho letto gesta e pensieri. Per esempio vorrei vedere Barranquilla, Bogotà, l’intera Colombia per toccare con le mie mani ed i miei occhi i posti più volte narrati dal grande Gabriel Garçia Marquez, uno degli scrittori che preferisco. Oppure ritrovarmi, piccolo, piccolo, sul fondo di uno dei canyon dove i miei eroi di carta, Tex Willer e Kit Carson mi hanno spesso trascinato, durante le loro stupefacenti avventure. O ancora tra le mitiche vie di alcune delle più belle città della vecchia Europa, come Praga, Vienna, Amsterdam, teatri naturali delle vicende di altri fumetti e racconti letterari di cui ho bevuto anche le virgole.

Ma temo che, almeno per questa volta, dovrò accontentarmi di ciò che mi proporrà mio padre.

Infatti, eccolo arrivare con la sua pila di depliant turistici di stupende località balneari: Caraibi, Baleari, Grecia… Ho dato un’occhiata un po’ distratta, poi ho provato a coinvolgerlo con i miei desideri. Tutto inutile! Decisione già presa: dopo tanto studio ho bisogno di mare e di sole per rilassarmi e riprendere un po’ di quel colore che l’impegno sui libri mi ha tolto. Per il resto c’è tempo! Forse ha ragione lui, come sempre. In effetti, sento proprio il bisogno di non pensare più a nulla d’impegnativo, voglio solo sciogliermi al sole e all’ozio selvaggio! E magari fare nuove amicizie, conoscere qualche bella indigena da portarmi appresso nel cuore e nei pensieri quando tornerò a casa per concentrarmi sul mio avvenire. Così accetto la proposta e lascio a lui il compito di decidere il posto, tanto per me è uguale: l’importante è rilassarsi e divertirsi, ovunque sia. La scelta cade su una località orientale dal nome impronunciabile, con partenza fra due settimane. Ho appena il tempo di sistemare un paio di faccende in sospeso.

La mattina seguente eccomi già impegnato nella inconsueta tournèe di saluti che mi sono ripromesso e, durante la quale, il mio amico Mario “il campana” (detto così a causa del suo terrificante orecchio musicale) mi ha dato sospetta dimostrazione di grande affetto, restandomi a fianco per tutto il tempo.

Così siamo passati a salutare per primo il maestro Caracolli, direttore della banda del paese, nella quale mi onoro di suonare (si fa per dire) la grancassa: “Mi raccomando, ragazzo, divertiti, ma soprattutto mantieniti in piena forma perché per il mese di ottobre ci aspetta un mare di lavoro, a cominciare dalla festa per la Santa patrona del nostro paese; e sai bene che senza di te la banda è allo sbando!”. E giù risate per il gioco di parole che il maestro ha trovato particolarmente divertente.

Poi è la volta della Biblioteca. E a questo punto, come ogni volta che mi accompagna, al “campana” cominciano a manifestarsi i più incredibili disturbi: sudorazione azzerata e brividi di freddo, anche se, dalle nostre parti, l’estate è particolarmente afosa; salivazione abbondante al punto da rendere necessaria una frenetica deglutizione; dolori improvvisi a tutti i muscoli del corpo, alquanto strani per uno che pratica il pentathlon, il parapendio e chissà quanti altri sport.

Disturbi che si accentuano ad ogni metro e che raggiungono il culmine appena ci troviamo di fronte a Federica, la bella bibliotecaria di cui, ormai è chiaro, Mario è perdutamente innamorato, e che è anche il motivo, ora ho capito, della sua generosa disponibilità, nel farmi compagnia. Con una scusa mi chiama in disparte e mi confessa di non aver mai avuto il coraggio di dichiararle i suoi sentimenti. E’ disperato, devo fare qualcosa. Ci penso un po’, poi ecco l’idea: “Ascolta, Mario, in questa busta c’è una sorpresa per Federica: un rarissimo disco 45 giri dei Genesis, il gruppo di cui è letteralmente fanatica. Me lo sono fatto spedire da un mio amico di Londra; mi è costato quasi un occhio ma Federica se lo merita: non hai idea di quante volte ha rischiato il posto per avermi prestato di nascosto quei libri antichi di cui l’intero paese è orgoglioso. Quando io me ne andrò, dopo averla salutata, tu rimarrai col pretesto di consultare un libro. Poi le dirai che hai saputo da me della sua passione per i Genesis e che ti sei fatto mandare un disco dall’Inghilterra apposta per lei. Da questo momento in poi, dovrai sbrigartela da solo: non pretenderai che ti spieghi per filo e per segno cos’altro fare?”. Negli occhi di Mario c’è un misto di stupore, paura e gratitudine che non dimenticherò più.

Mi accorgo che s’è fatto tardi, perciò saluto entrambi e mi avvio verso casa ormai è quasi ora di pranzo, non voglio fare aspettare papà. Sullo spazio sterrato davanti all’ingresso di casa trovo ad aspettarmi, come quasi ogni giorno, il piccolo Punjat con il suo pallone. Punjat ha sette anni ed appartiene alla famiglia indiana della casa a fianco. Nonostante i ripetuti richiami della madre non rientra in casa se non ha giocato un po’ con me a calcio. È una piacevole abitudine alla quale mi presto volentieri, tanto che penso, ne sentirò la mancanza al villaggio turistico.

Nel pomeriggio chiamo mamma, per metterla al corrente della novità. Ma mi risponde il suo compagno e, siccome non ho voglia di parlarci, chiudo frettolosamente la conversazione.

È il momento buono per andare a salutare i miei cari nonni paterni, che sono sempre in cima ai miei pensieri, anche perché con loro ho trascorso i primi anni della mia vita. La nonna, affettuosa come sempre, mi stringe e mi bacia come se fossi un piccolo bambino che ha tanto bisogno di coccole; però devo ammettere, che non mi dispiace, affatto, e fra le sue braccia mi sento al sicuro, non cambierei queste affettuosità con niente al mondo. Il nonno è sempre stato un uomo di poche parole; stavolta, però, anche lui mi fa un po’ di festa. Nonna è preoccupata perché devo prendere l’aereo (in questo riconosco mio padre), ma sa che non può farci niente, così, può solo promettermi che, da buona cristiana, accenderà una candela benedetta e pregherà che tutto vada a meraviglia. “Tieni qui 150 € e soprattutto goditi il viaggio e, se mi pensi, inviami qualche foto o qualche cartolina”. Li saluto affettuosamente ed esco, fischiettando come un usignolo.

Sulla via di casa incontro gli amici al solito angolo dove passiamo quasi tutti i pomeriggi estivi, allegramente intenti ad elencare i fatti accaduti in cinque anni di scuola, comprese le brutte esperienze e le interrogazioni terribili con la prof. Di lettere. “Ehi raga, come va?”, mi risponde Isidoro: “Compà! Sei pronto a partire per il tuo viaggio a dir poco mondiale?”. Avrei voluto passare l’estate con loro, e a un certo punto sembrava che si fossero decisi a seguirmi, ma all’ultimo momento si sono tirati indietro. Forse per questo, nutro per loro, una sorta di risentimento che mi porta a rispondere da antipatico: “Sapessi, Isidoro, che itinerario! Mi hanno detto che il mare è stupendo e le ragazze sono delle autentiche sirene. Peccato che tu non possa venire, ti saresti sicuramente divertito, non credi?”. “Penso proprio di sì – risponde – ma cosa posso farci, ormai vado con la mia ragazza e gli altri a Parigi”. Taccio per non ribattere in modo ancora più velenoso. A questo punto Giuseppe mi propone: “Vuoi giocare stasera dalle nove alle dieci a calcetto? Dai, facciamo l’ultima partitella prima delle vacanze e fra un mese ci rivediamo”. L’idea non è male, quindi appuntamento per tutti a questa sera. Tornato a casa, ho appena il tempo di consumare una cena leggera, prepararmi il borsone e via di corsa verso il campetto. Le squadre sono fatte, io, come al solito, sono il portiere di una squadra veramente ridicola.

Infatti, perdiamo dieci a due quando, sull’ennesimo attacco avversario, esco a valanga sui piedi di Ruben e lui, involontariamente, mi dà un calcio sulla gamba. Credo che le mie urla di dolore le abbia sentite tutto il vicinato! Il ginocchio si è gonfiato quasi subito ed io non riesco neanche a camminare, ma per paura di rinviare il viaggio decido di non dire niente a mio padre. Ma non si tratta di una botta da nulla, perciò non posso nascondere a lungo la sofferenza. “Andiamo subito in ospedale. – Esclama allarmato papà – “Sì, così non potrò più partire!”. “Avrai tempo. – Risponde adirato -“Prima la salute e poi tutto il resto”. Al pronto soccorso, come temevo, mi ingessano la gamba, ma il colpo più duro lo subisco quando ci comunicano la prognosi: tre mesi salvo complicazioni, che significa addio vacanza-premio, addio intera estate e addio chissà quante altre cose. Che sfortuna! Mio padre, anche se avvilito forse più di me, cerca di darmi coraggio e mi promette che il viaggio è solo rimandato, fosse anche in inverno. Il suo contagioso entusiasmo mi induce a vedere la cosa dal lato positivo: quando gli altri a Natale saranno seppelliti sotto maglioni di lana, io me ne starò su una sdraio a bere latte di cocco sotto il tepore del sole, mentre una bella ragazza mi fa un massaggio rilassante… “Yuuuh!”

Intanto, pero, in attesa di tempi migliori, a godersi l’estate sarà il mondo intero, tranne me!

Durante la degenza ho avuto modo di rivedere parenti e amici perduti per strada, secondo le crudeli regole della vita, e quasi dimenticati. Ho dovuto sorbirmi i lamenti del maestro Caracolli, gli sfottò degli amici di sempre e dei compagni di scuola, i rimbrotti di mio padre; ma ho anche ricevuto a tutto spiano le amorevoli cure della nonna con annessi regali e qualche soldino. E soprattutto, mamma è venuta a stare qualche giorno a casa con noi per potermi stare vicino e dare una mano a papà che da solo, fra me e il negozio, sarebbe scoppiato nel giro di due settimane.

Naturalmente hanno dormito in letti separati, e l’industriale del nord ha telefonato a mamma almeno dieci volte al giorno, però non vedevo “quei due” in tale sintonia da quando ero alle elementari. Una volta è anche capitato che, al mio improvviso ingresso in una stanza, si siano allontanati di scatto l’uno dall’altra con evidente imbarazzo. In quei giorni ho pensato spesso, a come eravamo e a come potrebbe essere se le cose tornassero come prima. Intanto mamma è dovuta tornare nell’umidità della pianura padana; ma da allora telefona più spesso e, talvolta, parlando con lei, papà abbassa il tono della voce, si gira di spalle e mette la mano davanti alla cornetta, come fa il ragazzino con l’amorosa.

Papà ha mantenuto la promessa a Nagapattinam, si farà lo stesso e in un periodo insolito ma affascinante: il Santo Natale. La partenza, infatti, è fissata per il 23 dicembre.

Lui, però, non potrà venire: è, praticamente, impensabile chiudere il negozio in un periodo commercialmente importante.

Mi ritrovo, così, a vivere da solo la curiosa esperienza di salire a bordo di un aereo sotto una gelida grandinata e di discenderne alcune ore dopo sotto una calura estiva: piuttosto che un viaggio nello spazio mi è sembrato un viaggio nel tempo!

Mi guardo intorno e quello che vedo mi fa intuire che la scelta del mio vecchio è stata felicemente azzeccata: già fuori dall’aeroporto ti senti calato in un’altra realtà. Ogni cosa su cui si posano i miei occhi esplode di luce. I colori sono vivaci e gioiosi così come le facce che incontro. Nessuno ha l’aria imbronciata o il passo nervoso di chi deve urgentemente fare chissà che. E sono tutti gentili, dal tizio a cui chiedo un’informazione, al tassista che mi conduce all’imbarco per il villaggio.

Del tragitto via mare non mi sono quasi accorto perché con la mente sono già proiettato verso ciò che mi attende nelle prossime ore. Forse non dovrei esagerare con le fantasticherie e le aspettative, anche solo per evitare cocenti delusioni qualora alcune di queste non dovessero realizzarsi.

Ma come si può rimanere indifferenti a una tale esplosione di contagiosa allegria? Come si può osservare l’avvicendarsi di immagini, come cristallino splendore del mare e la festosa accoglienza dei bambini del luogo all’arrivo al porticciolo, restando impassibili e freddi nel timore che prima o poi qualcuno venga a comunicarti che sei su Scherzi a parte? Come si può, soprattutto dopo aver trascorso nella pressoché totale immobilità, prigionieri di un impietoso gesso, una fettina importante della tua vita?

Anche all’interno del villaggio si respira un’atmosfera che non riesco a paragonare con nulla abbia mai provato. Si trova in riva al mare ed è composto da una trentina di capanne attorno alle quali danzano, al ritmo di una musica irresistibile, belle indigene dentro gonne coloratissime e con in testa le classiche corone di fiori.

Mi viene indicata quella che sarà la mia abitazione per le prossime settimane; ma non ho nemmeno il tempo di sistemare i bagagli che vengo travolto dalla vitalità e dalla frenesia di animatori che non conosco ancora e che mi portano quasi di forza sulla spiaggia. Vorrebbero coinvolgermi nelle danze, ma io non ho grandi esperienze in merito, non mi piace ballare, preferisco osservare amici e amiche quando vengo da questi trascinato in discoteca. Ma il ritmo della musica è davvero incalzante e le gambe cominciano a muoversi da sole. E poi, come si fa a dire di no ad una sensuale e formosa mora dalla pelle scura che ti invita a ballare? Mi pare si chiami Stella… sinceramente non ho prestato molta attenzione al nome!

Al risveglio, l’indomani, ho la testa confusa e non ricordo quasi nulla. Suppongo mi abbiano riportato a letto di peso, dopo ore di danza sfrenata e chissà quanti cocktail tipici del luogo a cui non sono abituato. La testa sembra l’interno di un alveare, è vero, ma ho la sensazione di essere felice, anche se non ho ancora capito perché. Senza rendermene conto scosto le tendine della finestra e, poco distante, vedo chi inconsciamente, ma prepotentemente, desideravo vedere: Stella. Sta parlando con un’amica, ride, e solo vederla mi procura una stretta allo stomaco. Mi ritraggo d’un balzo, perché all’improvviso mi assale qualcosa di simile alla paura. I ricordi della serata precedente sono poco nitidi, ma ho l’impressione che tra noi ci sia già un certo feeling, una certa intimità. Però, che sfiga, ragazzi: forse ho trascorso una notte di Natale da sballo e non mi ricordo niente! Praticamente è come se non l’avessi vissuta. Spero solo di non aver combinato qualche guaio!

Dopo un’indispensabile doccia eccomi pronto per una nuova, entusiasmante, giornata. La cosa più sorprendente è che vado scoprendo, minuto dopo minuto, lati del mio carattere che nemmeno immaginavo.

Il mare è calmo, nel cielo nessuna nuvola ha trovato il coraggio di frapporsi tra questo spicchio di paradiso ed il sole, del quale avverto tutta la benefica potenza sulla pelle. Sto proprio bene, e forse è per questo, che il mio pensiero corre a mio padre.

Sono sicuro che in questo momento è accovacciato davanti alla stufa: lui patisce il freddo più di me e di certo vorrebbe trovarsi qui anche lui. Più tardi lo chiamo e… “Buongiorno, come stai?”. “Oh, ciao Stella! Bene, soprattutto adesso!”. “Ti sei divertito la notte scorsa?” . “Sì, anche se non… non…”.

Il mio imbarazzo deve essere molto evidente, ma non posso esternarle i miei dubbi, le mie paure. Riesco solo a dire: “Sì, mi sono divertito molto”.

Il programma odierno promette bene: Giorgio, il capo-animatore, mi propone un’esperienza che, difficilmente, potrò più ripetere: la pesca subacquea. Lui è calabro, mediterraneo come me, così bastano pochi minuti per capire che posso affidarmi tranquillamente alle sue cure. Qualche ora di preparazione e sono pronto per la mia prima immersione in apnea, armato solo di una certa trepidazione e di un semplice coltello da sub.

Semplice, come la vita di questa gente. Giorgio è troppo forte!

Ed è anche un gran chiacchierone. Lo ascolto volentieri mentre racconta a tutti le sue mirabolanti esperienze fra coralli e pesci di svariate specie. Più tardi approfitto della sua loquacità per avere informazioni su Stella e scopro che è nata da queste parti e, dopo essersi laureata in lingue all’Università di Nuova Delhi, ha lavorato nel settore turistico continuando a vivere qui per potere accudire gli anziani genitori. Ecco perché parla tanto bene l’italiano.

D’improvviso mi rendo conto che Stella è ormai diventata il sottofondo costante dei miei pensieri e che non vedo l’ora di ritrovarmi nuovamente immerso in quei due occhini da cerbiatta. Non trovandola in giro torno alla mia capanna. Lei è lì, mi stava aspettando. Ci osserviamo in silenzio e, come nella scena più emozionante di un fi lm, eccoci ad un centimetro l’uno dall’altra, in attesa che accada quel qualcosa che potrebbe aprire la strada ad un sentimento forse più grande di noi stessi, ad un’emozione che porteremo dentro quando, lontani da noi e da qui, ripenseremo a questo incantevole, unico momento. E accade: il bacio più lungo e travolgente della mia vita che prelude ad una di quelle notti che la vita te la possono cambiare.

L’indomani accanto a me c’è lei, splendida anche appena sveglia. Il mio futuro più prossimo assume un sapore dolcissimo.

Non lascerò inquinare questi attimi dal pensiero di un inevitabile addio: la felicità è adesso, è qui, è lei! Ad ogni ora, di questa destabilizzante creatura scopro cose meravigliose.

Ridiamo e parliamo molto, le insegno alcune parole in siciliano e lei fa altrettanto con la sua lingua, stiamo insieme il più possibile.

Devo chiamare i miei amici: ho bisogno di raccontare a qualcuno di lei, e loro sono le persone che mi servono.

Lascio Stella ad aspettarmi distesa sulla battigia e mi avvio verso il bar del villaggio che è fornito di un apparecchio telefonico per le chiamate internazionali. Lungo il tragitto vedo venirmi incontro un bambino e non riesco ad evitare che un nome affiori alle mie labbra: Punjat! Il piccolo si ferma e mi guarda incuriosito. Non è Punjat ma potrebbe essere il suo gemello, tanto gli somiglia. Mi chino per fargli una carezza ma, nel momento in cui incrocio il suo sguardo, un improvviso brivido mi gela la schiena: nel suo viso, in un istante, la leggerezza dell’infanzia ha ceduto il posto ad una maschera di puro sgomento. Non guarda me, ma alle mie spalle, da dove, solo ora lo sento, arrivano grida allarmate e un cupo, continuo, incalzante, terrificante rumore. Di scatto mi giro con l’istintiva intenzione di chiamare Stella, ma il suo nome mi rimane soffocato in gola giacché i miei occhi vedono solo un enorme muro color fango che prima non c’era. Ho solo il tempo di capire che non è immobile come dovrebbe essere un muro: sembra vivo, si muove, se allungassi una mano potrei toccarlo! L’attimo dopo niente intorno a me è più lo stesso: i suoni, le voci, tutto è come ovattato! E non ci sono più i colori vivaci, luminosi, felici che poco prima mi circondavano! Un solo colore predomina, il marrone. Prima del buio! L’ultima cosa che avverto è un grido, una parola, una parola urlata da più parti che non conosco, forse perché appartiene alla lingua locale, ma il cui suono è talmente chiaro che continua a rimbombarmi nel cervello, nonostante questo improvviso, lacerante stordimento:”Tsunami!… Tsunami!”. Cosa vorrà dire Tsunami?… e perché, adesso, non sento più nulla, più un rumore, più una voce, più un respiro? E perché, all’improvviso questo orribile buio?

Non mi resta che il ricordo, in questo pesante, immenso “niente” che mi circonda. Il ricordo di una vita, nel beffardo spazio di pochi attimi: secondi lunghi una vita, una vita che ormai durerà secondi. E poi silenzio, torpore. E tristezza: non provo dolore o sofferenza, ma tristezza: per chi non vedrò mai più, per ciò che non sarò mai più.

Ma la situazione, sta mutando ancora: il vorticoso alternarsi di pensieri, immagini e sensazioni sembra ora affievolirsi. È dunque questa la fine? È dunque così, senza speranza alcuna, nella più fitta delle tenebre, che l’essenza di un uomo si esaurisce?

Un momento! Lì, proprio di fronte a me, mi sembra che… sì, ora ne sono sicuro: un debole chiarore si fa largo nell’oscurità da cui sono avvolto!

Tutti i miei sensi sono in allarme. Cerco di percepire qualcosa, qualsiasi cosa: un rumore, una voce, un sentimento…

Un sentimento, sì… sento che qualcosa torna a nascere dentro, da qualche parte. Qualcosa di simile alla paura!… O forse no?… Non ci capisco nulla più nulla! Sono spaventato… ma incredibilmente attratto da quella luminosità, là in fondo!

E adesso l’unica cosa che so è che voglio, anzi, devo andare a vedere!… E sia quel che sia!