I racconti del Premio Energheia Europa

Mia Nonna_di Mor Deree, Beer Sheva(Israel).

materaRacconto finalista Premio Energheia Israele 2014.

I venti notturni stanno arrivando. Il mio corpo trema, il mio cuore inizia a battere forte e lo sento esplodere dentro di me. Sto recitando le preghiere rapidamente e pregando tanto, mi faranno passare. Sono già le 18:00, il coprifuoco è iniziato e non so come farò ad oltrepassare le guardie. Mi copro la testa. Sono sicura che mi riconosceranno, ma devo cercare di passare. Entro in un vicolo, sperando che il buio mi nasconda, e nella mia testa sto pensando solo a Yosef, Eliyahu, Charlie e il piccolo David che non hanno mangiato per tutto il giorno. Mi armo di coraggio e cammino verso le guardie. Loro urlano contro di me, ” aji lhina dria! ” (Vieni subito qui!) Uno di loro mi si avvicina rapidamente, la mia testa è proprio accanto alla sua e mi chiede con un grido: “!Barhawat” (Documenti!) Che cosa stai facendo fuori a quest’ora? Sai che non si può passare. Il mio cuore batte forte e io parlo veloce e spiego: sono appena uscita dal negozio di scarpe, vivo nella strada accanto, non sono riuscita ad uscire in tempo, ecco il permesso che lavoro lì. Prende i documenti con rabbia e si dirige verso i suoi amici. Resto in piedi vicino, cercando di ascoltare la loro conversazione, ma parlano troppo in fretta, non riesco a capire. Viene verso di me e sono tesa e nervosa, getta i documenti a terra, passa, ed è l’ultima volta. Entro in fretta e vado a casa della signora Jerby; una grossa pentola è sul tavolo. Le dico grazie, le bacio le guance ed entro a casa mia. Una porta separa la mia casa dalla casa della signora Jerby. Io entro e sento piangere e urlare forte, prendo un respiro profondo che mi riempie il petto e inizio a ripulire il disordine. Tengo David tra le mie braccia. Eliyahu, Yosef e Charlie stanno giocando, Massoud sta facendo le sue cose e mia madre sta cercando di calmarmi. La pentola è sul tavolo, tutti sono seduti a mangiare, è tranquillo nella piccola stanza in cui tutti viviamo. E’ finalmente tranquillo.

David ha vomitato, lo sottoveste si è sporcata, non ho tempo di ripulire. Mi organizzo velocemente, mi metto un vestito, cerco pazientemente di mettere i collant, si sente un grido in sottofondo e smaglio il mio collant. Non importa, non c’è tempo. Mia madre resta a casa con David, io accompagnerò a piedi a scuola Charlie e Yosef e Eliyahu all’asilo. Quando apro il portone, il mio cuore comincia già a battere forte, lo stress si insinua dentro di me e io sono agitata. I miei bambini sono intorno a me tenendomi le mani. È il solito rituale. Ci incolliamo alla strada, cercando di essere invisibili, così da non attirare l’attenzione. Charlie e Yosef sono a scuola, per fortuna. Ora devo solo portare Eliyahu all’asilo. Camminiamo veloce, ho una strana sensazione, e tengo Eliyahu con le mani e commincio a correre. Vedo due persone che litigano; un’intera folla è intorno a loro e uno insulta l’altro. Dalle urla capisco che si tratta di un furto. La punizione per il furto può essere severa ma gli Arabi lo risolvono tra loro stessi, non chiamano la polizia. Per questo ho paura, ho sentito di violenti incidenti quando un Ebreo è stato accusato di un furto giusto per incolpare qualcuno. Io tremo, Eliyahu sente la mia paura e comincia a piangere, cinque altri minuti di cammino e sarò all’asilo.
Il trambusto mi blocca e non riesco a trovare la strada. Le persone cominciano a gridare aiuto, mi guardo intorno ancora una volta, mi fermo per un secondo e mi calmo. Devo andar via da questa confusione. Prendo fiato e cominciò a farmi strada attraverso la folla. Mi avvicino l’asilo, Eliyahu piange e io prego Dio di aiutarmi. Ce l’ho fatta e sono all’asilo. Eliyahu sta bene e io sono più tranquilla. Questa situazione non può continuare ad essere così, la vita a Casablanca non è facile e il corpo è già stanco. Non c’è più modo di restare qui.

Il negozio di scarpe è piccolo; Massoud si siede e saluta i clienti. A volte la sua faccia è serena e a volte è arrabbiata. Lui non ispira nè affetto nè affidabilità ed è arrabbiato la maggior parte del tempo. Io gli spiego: “Essere gentili con i clienti è il nostro sostentamento”. Ci sono giorni in cui non viene neanche, semplicemente scompare, e io mi siedo e saluto i clienti. Io non sono in grado di assisterlo nel lavoro, non sono una calzolaia, tutto ciò che faccio è mettere le scarpe nelle scatole e ripulire. I suoi attrezzi da lavoro sono così sporchi. Un giorno gli dissi solamente: “Massoud pulisci i tuoi attrezzi, non sta bene, c’è così tanto sporco!” e lui mi rispose arrabbiato: “Non dirmi cosa fare. Lo so benissimo. Un buon calzolaio è uno i cui attrezzi sono usurati. Dimostra che fa un buon lavoro. Mi piace lo sporco, non toccare!” A volte, quando non guarda o quando sparisce, io segretamente pulisco gli attrezzi e ho paura che mi scopra. Lui non capisce che questo posto è il nostro sostentamento.

Noi abbiamo un cliente che viene una volta ogni due settimane, mister Jalame, e ha dodici figli e due mogli. Massoud e lui possono stare seduti e parlare per ore del fatto che mister Jalame ha due mogli e ne vorrebbe di più, ed io vedo nello sguardo di Massoud come gli piace il pensiero. Io penso che lui vorrebbe un’altra moglie, ma non accadrà mai. Un venerdì ci affrettammo a chiudere presto prima dell’arrivo dello Shabbat. Un momento prima che chiudessi la porta di metallo del negozio, mister Jalame arrivò con il suo figlioletto il cui ginocchio sanguinava. Il sandalo che Massoud aveva sistemato era completamente strappato. La faccia di mister Jalame era rossa e respirava pesantemente e gridava a Massoud: “Aspetta! Non chiudere, le scarpe si sono rotte a causa tua e il bambino è caduto e si è ferito! Cosa hai fatto? Come hai lavorato? Le hai aggiustate mentre eri ubriaco?” Massoud non sapeva cosa dire. Era stupito della veemenza di mister Jalame ed io ero spaventata che volesse rispondergli con rabbia. Io provai a calmarli entrambi, muovendo la mano sulla schiena di Massoud e dicendo a mister Jalame: “Mi dispiace, non si preoccupi, mi dia il sandalo, e si prenda questi gratis, sono nuovi. Torni domenica a mezzogiorno a riprendersi i sandali che saranno come nuovi.”

Domenica mattina arrivò e mister Jalame fu il primo ad entrare in negozio. Non disse una parola, prese le scarpe e se ne andò. Passarono due settimane e lui non veniva. Passò un mese e un altro ancora e io capii che lui non sarebbe più ritornato. Ero preoccupata che anche gli amici di mister Jalame non sarebbero ritornati più. Massoud cominciò ad essere arrabbiato, a scomparire dal negozio più spesso. I soldi stavano esaurendosi. Non avevamo pagato l’affitto mensile e il proprietario del locale era venuto a richiedere i soldi. Sono rimasta ferma sorridendo: “Rada ana nachles, rada yakono li laflosh” (Domani pagherò domani avrò i soldi). Comunque, sapevo che sarebbe arrivato il giorno in cui il sorriso non sarebbe bastato. Alcuni giorni dopo sono arrivata al negozio più presto del solito e ho visto tre o quattro uomini arabi buttare la merce fuori dal negozio e lanciare ogni cosa per terra. Io stavo in piedi lì vicino, osservando e senza riuscire a muovermi. Ero spaventata, non avevo soldi, un sorriso non mi avrebbe più potuto aiutare. Sono tornata a casa e ho realizzato che non avevamo più modo di guadagnarci da vivere e cercare un lavoro era pericoloso. Non sapevo cosa fare.

Charlie ha già 12 anni, Casablanca non è più un posto sicuro per lui. Non sta crescendo bene e temo per il futuro della mia famiglia. Lui è il maggiore, è grande – mi dico. Saprà come gestire tutto ciò. Vado da lui e gli dico dei miei piani; non obietta o discute con me. É abbastanza intelligente per capire che è già difficile per me così come è. Gli spiego quello che so e lui mi fa molte domande alle quali io non ho una risposta: “Quando ti vedrò, mamma? E nonna? Dove sarai? Come ti ritroverò quando mi laureerò? Dove mando le lettere?” Io non ho nemmeno una risposta chiara da dargli. Lo abbraccio e gli dico: “Vladi, felhar ikbol, ana tithabek” (figlio, ci saranno giorni migliori, ti voglio bene). Ho preparato la sua borsa; siamo pariti la mattina presto, ho portato alcuni documenti con me e lo abbiamo accompagnato agli uffici Youth Aliyah. Non ho capito molto, mi hanno detto che avrebbe studiato in Francia, in un Ulpan. Sono felice. L’ho lasciato lì e sono ritornata a casa.

Qualcosa è cambiato nell’aria. I vicini stanno chiudendo le avvolgibili presto, la strada diventa silenziosa alle 17:55, e la paura si fa sentire nel silenzio della strada e delle case. Comincio a sentir parlare di Yosef Kadosh: “E’ un uomo buono, quello. Aiuta gli ebrei a raggiungere Israele, ha un sacco di potere.”. Riusciamo a contattarlo, ci hanno spiegato cosa fare e portare. “Prima di tutto bisogna firmare un documento che dichiari che vi impegnate a non tornare in Marocco”, ha detto Yosef. Da parte mia, ho accettato subito. Non potrò mai aver voglia di tornare qui. Yosef ha detto che ci contatterà lui quando saprà di più. “Nel frattempo andate a casa e aspettate”. È già tardi, i miei piedi sono stanchi, e lo stomaco mi ricorda che ho mangiato nient’altro che pane e margarina al mattino. A Massoud in realtà non importa che cosa ci accadrà e che cosa faremo, che marito ho avuto.

Non abbiamo lasciato la casa per una settimana. Stiamo tutti insieme in una stanza. Non riesco a respirare e sto soffocando. Abbiamo chiuso il negozio, perché non siamo riusciti a pagare l’affitto e Massoud va e viene senza dire una parola. Mia madre, i bambini e io stiamo a casa e non andiamo da nessuna parte. Sono rimasta con David, Yosef e Eliyahu e presumo che Charlie è già sulla sua strada per la Francia. Io non li mando a scuola e all’asilo perché è diventato troppo pericoloso camminare per le strade. Il mio stomaco mi segnala che avremo presto buone notizie e cerco di essere ottimista. Sono trascorse due settimane dall’ultima volta che ho sentito Yosef Kadosh e cerco di tenere occupati i miei pensieri. Nella mia mente immagino Israele e tutte le sere racconto ai bambini del viaggio che stiamo per fare, cercando di prepararli ad ogni scenario, anche se nemmeno io so nulla veramente. Cerco di essere paziente e i miei pensieri navigano verso la terra del miele, nel luogo dove potremmo vivere tra Ebrei, amici, pensando alla pace che riempirebbe la mia vita nel luogo dove potrei crescere i miei figli con dignità.

Ho trovato un bigliettino giallo piegato sotto la porta che qualcuno ha infilato rapidamente ed è andato via. Comincio a leggere: martedì 2:00 di mattina arrivate alla vecchia torre in pietra, sulla destra c’è una grande porta di legno. Vi aspetteremo là. Portate solo una valigia per non attirare attenzione indesiderata. Per favore memorizzate i dettagli e bruciate questa nota dopo averla letta. Dio vi benedica, Yosef Kadosh. Una grande sensazione di sollievo ed insieme di stress si riversa su di me. Sussurro i dettagli a mia madre; li memorizziamo e bruciamo la nota. Non c’è tempo, oggi è già lunedi e domani partiremo. Tutti i nostri beni resteranno qui, tutti i vestiti che mia sorella mi ha mandato dall’America non entrano in valigia. Prenderò solo un paio di cose che mi ricorderanno dei bei tempi in Marocco e lascerò i brutti alle spalle. Ho preso i gioielli che ho ricevuto il giorno del mio matrimonio e alcuni vestiti per i bambini e noi. Ho preso una valigia per cinque persone e ho lasciato alle spalle 29 anni di ricordi. E’ tempo di nuovi ricordi.

Siamo arrivati alla vecchia torre in pietra e siamo entrati dalla porta. Ci sono molte persone. Ci rannicchiamo in un angolo e ci continuano a sussurrare di stare in silenzio. Dopo qualche ora, i bus sono arrivati e ci hanno portato alla nave. Casablanca è ancora buia. Il sole sorgerà in poche ore. Ho paura di ciò che la luce porterà e preferisco le tenebre. Tutti salgono a bordo della nave; è alta quattro-cinque piani. Dormiamo su materassi, tutti insieme, vicini l’uno all’altro. La nave salpa e io ho inizio a respirare di nuovo.

Massoud ed io vogliamo andare fino al ponte perché l’oceano lo fa stare male. Anche Eliyahu comincia a mostrare sintomi di malattia. Mia madre resta con Eliyahu. Yosef, David e noi andiamo fuori a prendere aria. Iniziamo a farci strada attraverso la folla. Tutto è affollato, materassi ovunque e cerco di non disturbare nessuno. Iniziamo a camminare in fretta, i bambini corrono davanti a noi e Massoud è leggermente indietro. Continuo ad andare, supponendo che tutto andrà bene. Tutto d’un tratto, sento una voce che mi chiama: “Alice! Alice! Aji Alhana!” (Alice! Alice! Vieni qui!) Vedo Massoud urlare e farmi gesti di andare verso lui e io non capisco cosa stia succedendo. Mi avvicino a lui e lui mi fa cenno con le braccia, guardo. Sono scioccata. Charlie è a bordo con noi! Sembra così esausto. Io pensavo che fosse già in Francia. Massoud, in modo insolito, va a prendere il tè alla menta e accarezza le guance di Charlie per calmarlo. Gli dice: “Mamma e papà sono qui, non aver paura”. Charlie sorride, non riesce a capire cosa sta succedendo, sorseggia il tè e si addormenta calmo.
Il sole di cui avevo paura brilla luminoso e io brillo con lui. C’è una sensazione di una nuova era in aria. L’odore dell’oceano mi elettrizza e il vento mi scompiglia i capelli. Sembra una scena di un film e io sono la stella. Oggi è venerdì e il sentimento di Shabbat mi commuove. Siamo tutti seduti attorno a un tavolo improvvisato del venerdì, una tazza Kiddush di plastica e Massoud ripete la cantilena della preghiera della notte del venerdì. Mangio riso insapore bianco scondito con un pesce dall’aspetto rosato in salsa piccante, ma non mi interessa, mi sembra un pasto da albergo a cinque stelle. La nave ormeggia in Francia, dove Charlie scende insieme a dozzine di giovani che vanno a studiare l’ebraico nella scuola religiosa per ragazzi. Non ho potuto prendere Charlie con me, non ho i documenti e la guida Youth Aliyah che scorta i ragazzi mi ha convinta che sarebbe meglio per lui studiare in Francia per qualche anno e poi tornare in Israele. Sono d’accordo con lei e ho detto addio a Charlie di nuovo. Non è stato facile. Scrupoli e pensieri sull’aver fatto la scelta giusta mi perseguiteranno per sempre. Passano i giorni. Ho perso la cognizione del tempo e non riesco più a tenere il conto di quanti giorni siamo sulla nave.

Urla mi svegliano. Le mie mani tastano in giro, alla ricerca dei bambini, e non riesco a trovare i miei occhiali. Sono sicura che li ho messi sotto il cuscino e continuo a cercare. Le mie mani accarezzano Elyihau, che sta ancora riposando, nonostante le grida, niente lo sveglia. Yosef è già sveglio, non riesco a vedere la sua faccia e comincio ad accarezzargliela solo per scoprire gli occhiali sul suo piccolo naso. Yosef! Ti ho detto di non giocare con gli occhiali, non sono un giocattolo! Non riesco a vedere niente senza. L’agitazione continua e la gente sta correndo verso il ponte. Massoud è andato e mia madre tiene in braccio David. Riunisco tutti e andiamo fuori. Spero che non ci prendano e ci rispediscano in Marocco. La gente continua a urlare e io ancora non capisco. Ci stiamo avvicinando al ponte, i raggi abbaglianti del sole mi accecano. Ho ricevuto un po’ di luce diretta, ho chiuso gli occhi, mi sono alzata e ho fatto un respiro profondo. Le grida continuano e si trasformano in calde, piacevoli parole – Siamo giunti in Terra Santa, Israele! Restiamo lì insieme, Massoud ci ha raggiunto e la nave si è ormeggiata nel porto di Haifa. Un caldo sentimento mi riempie mentre lasciamo la nave. Mi lascio cadere a terra, bacio la terra ferma e le mie lacrime bagnano il duro terreno. Sono a casa, Baruch Hashem (Grazie a Dio).

*

Venerdì è arrivato ed è una vacanza per me. Sto cercando l’autobus numero 33 che mi porti ad Ofakim. Mi siedo nel bus leggermente affollato, sperando di sedermi per conto mio, ma oh no – un adolescente di quindici anni si siede accanto a me. Inizia a giocare con il suo Iphone e suona musica senza cuffie. Mor l’insegnante sta per venir fuori e dargli una lezione sulle buone maniere. Raccolgo la mia pazienza e gli ringhio: “O abbassi il volume o indossi le cuffie, per favore”. Per fortuna, il mio tono di voce mi è di aiuto e il ragazzo indossa le cuffie. Ci si impiegano circa 20 minuti d’auto da Beer-Sheva a Ofakim, ma dato che gli anni passano e io divento più vecchia, mi sembra più breve. Non mi dispiace stare sul bus per un’ora, anche se io di solito odio i mezzi pubblici. Qualcosa di me si è assuefatto al paesaggio desertico.

Il viaggio a casa della nonna è accompagnata da una eccitazione inspiegabile. A volte ci si sente come innamorarsi per la prima volta e le farfalle nel mio stomaco traboccano. Forse è perché questa città segna per me la mia prima casa e la storia della famiglia di cui non sono del tutto a conoscenza. Ogni volta che arrivo in città sono sopraffatta dai ricordi d’infanzia da cui non riesco a staccarmi: sono nel cortile di mia nonna alla guida di una piccola bicicletta di ferro blu, intorno a me ci sono strisce verdi di erba. Sto pedalando sul sentiero stretto che conduce alla macchia di assenzio, prendo alcune foglie e le metto nel cestino sul retro della bicicletta. Sulla via del ritorno prendo un paio di anemoni e metto anch’essi nel cestino. Busso alla porta di ferro marrone, che è bollente per il sole. Mia nonna è in piedi di fronte a me con un grande sorriso sul suo viso, “vieni dentro y’binti, perché hai raccolto di nuovo gli anemoni? Lo sai che è proibito”, sorrido timidamente, che la riconcilia rapidamente. “Non importa y’binti, ti farò un po ‘di tè con l’assenzio”.

Ogni volta che torno a casa sua, i ricordi arrivano e vengono sostituiti immediatamente dalla realtà che mi fa male alla pancia. L’erba è stata sostituita da cemento freddo che copre l’intero cortile, perché è difficile per la nonna pulire e rimuovere l’erbaccia. Ha chiesto una superficie di cemento dritta, liscia così che fosse facile camminare con il suo girello. Gli anemoni sono finiti e lei compra l’assenzio dal fruttivendolo. Busso un paio di volte e nessuno risponde alla porta. So che lei è lì; apro la finestra accanto alla porta e la chiamo. Lentamente arriva e apre la porta. Mi chino verso di lei e le bacio le guance morbide. “Nonna, sono io, Mor”.
“Lo so, avevo la sensazione che saresti venuta. Cosa posso farti da mangiare? Da bere? C’è una bevanda alle erbe in frigo”. “No, nonna, non voglio nulla. Prendo qualcosa da bere tra un minuto”. Tuttavia, lei non la smette. “Mangia qualcosa, bevi qualcosa”, e fino a quando non lo faccio l’intera conversazione sarà sul cibo. Vado al frigorifero, apro una bottiglia della bevanda alle erbe, la verso in un bicchiere e mi siedo accanto a lei. Cerco il suo orecchio sano e, come sempre, sbaglio. Attraverso il suo orecchio sano, conversiamo. La mia mano le accarezza la schiena e posso sentire l’enorme arco sulla sua schiena. I suoi capelli sono avvolti in una sciarpa che copre i grigi, fluenti capelli. Sul suo naso, ha grandi occhiali marroni che coprono quasi tutto il suo viso dolce, e un lungo vestito viola avvolge il suo corpo, nonostante il caldo. “Non hai caldo, nonna?”

“per niente. Mi piace in questo modo”

“nonna, cosa hai fatto oggi?”

“cosa ho fatto? niente di speciale. Mi sono svegliata presto, ho mangiato, ho fatto qualche esercizio nel letto, ho schiacciato un pisolino, ho parlato con tua madre e dopo sei arrivata tu. Come stai? Come va la scuola? e il lavoro?”

“E’ tutto magnifico. Sto passando un bel periodo. Nonna dov’è la tua scatola rossa?”

“Nell’armadio a muro, in fondo, sulla stessa mensola delle magliette”

Io vado verso l’armadio a muro come una bambina che deve trovare un tesoro. Guardo verso le mensole, non è dove ha detto, continuo a cercare e la trovo. Mi siedo a fianco alla nonna, le passo la scatola. Lei la mette sulle sue ginocchia e con la sua speciale delicatezza toglie il coperchio e mette le mani nella scatola. Dentro ci sono delle fotografie in bianco e nero, vecchie pagine fatiscenti. Noi guardiamo tutte le fotografie e mia nonna mi dice “questa è la signora Jerby. Era la nostra vicina in Marocco, una brava donna. Era davvero una santa. Povera donna. Non è mai riuscita ad arrivare in Israele e fu assassinata in Marocco”. Il suo tono di voce cambia quando parla della signora Jerby. Non è la prima volta che mi parla di lei e ogni volta qualcosa nella sua voce cambia. Rimane a guardare le foto finché non trova quella che stava cercando e mi domanda “li riconosci?” io guardo da vicino ma non riesco a capire chi sono. Si toglie gli occhiali, mette le foto più vicino ai suoi occhi e indica con le sue dita “questi sono Elyahu, Josef, Charlie, David, nonna Itto e Massoud. Questa è prima che mandassi Charlie a scuola a Parigi”. Io vedo le lacrime riempire i suoi occhi e lei le pulisce via velocemente. Le porto un fazzoletto e lei lo tiene stretto nella sua mano.

Cambia argomento e passa ad altre fotografie “guarda questo è il negozio di scarpe dove lavoravamo, questi sono i clienti abituali. Questo era un buon amico di tuo nonno, il signor Jalame. Lui veniva spesso al negozio, lui e il nonno si sedevano intorno a un tavolo per ore, parlando, bevendo arak e ridendo. Se non mi sbaglio, ricordo che un mese o due dopo che fu scattata questa foto venimmo in Israele.

“Nonna, perché sei venuta qui? Non ti manca il Marocco?”

E lei inizia a parlare in marocchino, parla così veloce che non riesco a capire tutte le parole. La fermo. “Nonna, più piano, non capisco”. Quando è così eccitata capisco che le ho toccato un nervo scoperto.

“Y’binti” la vita lì non era facile, e ho vissuto preoccupandomi tutto il tempo. Quì è meglio e sono felice che siamo venuti qui. Non ho lasciato niente lì e non mi manca. Hai fame? Posso prepararti qualcosa per pranzo?” Quando parla di cibo significa che non vuole parlare di qualcos’altro. Colgo il suggerimento.

“No, nonna, preparo qualcosa io”. Apro il frigo, vedo del cibo nelle scatole e riscaldo delle polpette di carne e riso. Ci sediamo a tavola. Nonna sta giocando con il suo cibo; la sua forchetta tocca la carne e cade indietro nel piatto. “Nonna, mangia, perché non stai mangiando?’”

“Sto mangiando non ti preoccupare”.

Qualcuno bussa alla porta ma nonna non lo sente. Chiedo chi sta bussando e vado ad aprire la porta. E’ la vicina di casa, la signora Bitton, che è venuta a trovare la nonna. La signora Bitton entra, le chiedo se vuole unirsi a noi a pranzo e lei dice che ha già mangiato. Lei va verso la nonna, le bacia entrambe le guance e si siede accanto a lei. “Alice, akes bark? (Alice, come stai?’)”

“Ana mejiiana, akes bark madam Jerby?” (Sto bene, come stai tu, signora Jerby?)