I racconti del Premio letterario Energheia

Malalai Kakar_Giorgia D’Alessandro, Vacri(CH)

_Racconto finalista sedicesima edizione Premio Energheia 2010.

 

Ispirato alla vita di Malalai Kakar, la poliziotta assassinata il 28 Settembre 2008

 

Era una mattina come tante altre. Mi preparai ed uscii di casa, accompagnata da mio figlio. Come sempre, appena aperta la porta, il soffio del pericolo mi sibilò nelle orecchie. Non avevo paura, però mi prese uno strano senso di oppressione al petto. Ma non avevo paura. Camminando per il vialetto, che portava alla macchina sentivo sulla pelle l’aria fresca del mattino. Intorno il cinguettare degli uccelli. Sorrisi a mio figlio. Ricambiò, aprendomi la portiera della macchina.

Mi sedetti. Quando fu entrato anche il ragazzo mettemmo in moto. Poi, vi fu lo sparo. Una ferita rumorosa nella tranquillità mattutina. Gli uccelli smisero di cinguettare e si allontanarono con un morbido frullare d’ali. L’unica cosa di cui sono grata è che non fui abbracciata dall’angelo della morte con nelle orecchie il rombo bellicoso della pistola. Nelle mie orecchie risuonava il frullare delle ali degli uccelli che si erano levati in volo. Leggeri, liberi. Come lo sono stata io oggi e come spero saranno tutte le altre donne domani. Nel momento in cui sentii lo sparo morii.

Tutti hanno sogni. Persino le donne. Ma qui non è permesso, ad una donna, di avere sogni.

Qui, per una donna, i sogni sono come le stelle: irraggiungibili.

Ma per ognuna di noi è bello alzare gli occhi e vedere che sono ancora lì.

Qui, però, i nostri uomini vogliono che quelle stelle si spengano, che vengano inghiottite nel nero della notte.

Qui dobbiamo alzare gli occhi e vedere il buio.

Qui dobbiamo dimenticare quelle speranze, quei desideri e assoggettarci ai nostri padroni, che si atteggiano a nostri protettori.

Bazzecole. Una donna può proteggersi da sola, come un uomo. Una donna vale quanto un uomo.

E io volevo diventare una poliziotta per dimostrarlo.

Era questa la mia stella e la mia speranza.

Mi chiamavo Malalai. Sono stata fortunata. Molto fortunata.

Ero della famiglia Kakar, una delle tribù più antiche, potenti e onorate del Sud dell’Afghanistan e che aveva grandi tradizioni militari La mia era una famiglia “aperta”. Mio padre, i miei fratelli… erano tutti poliziotti e mi hanno sempre sostenuta nel perseguire il mio sogno. Sono stati loro a trasmettermi l’amore per la giustizia e per il mestiere del poliziotto. Mi ero promessa che non avrei permesso, a nessuno, di farmi fare la fine che crolla su tutte le ragazze qui. Non mi sarei mai fatta relegare in casa col burqa, ad assecondare i desideri di uno sposo impostomi, verso il quale non provavo amore.

Ci riuscii. Da bambina studiai perchè erano gli anni in cui regnava re Zahir Shah. Lui permetteva alle bambine di crearsi un’istruzione. Poi, a 15 anni entrai nell’Accademia di Polizia, a Kandahar. Ricordo quel giorno come fosse stato ieri. Ricordo benissimo il tragitto che feci, a piedi, da casa mia all’Accademia. Passai per il centro di Kahandar per arrivare all’Accademia. Le strade erano un formicaio. Nei bazar le persone si affollavano sulle bancarelle, sulle quali erano in bella mostra gioielli, sete, cotone, canapa, datteri, tabacco, cereali, frutta, galline…

I venditori strillavano a gran voce la superiorità delle loro merci rispetto a quelle della concorrenza. Ricordo ancora il profumo dell’aria pieno dell’odore delle spezie: cannella, zenzero, sesamo, coriandolo… meraviglioso. Finalmente le porte del mio avvenire s’iniziavano a schiudere sul futuro che avevo scelto io stessa per me. Ma non scorderò mai neanche tutta la frustrazione che provai quei giorni. Nell’Accademia ero l’unica donna in assoluto. Ero circondata da uomini. Alcuni mi squadravano sfacciatamente dalla testa ai piedi, gli occhi colmi di disprezzo, scherno e superiorità. La maggior parte, invece, mi lanciava occhiate in tralice, magari quando si trovava a passarmi accanto, gli occhi che mi dicevano cosa ne pensassero della mia presenza lì. Ma quelli che mi irritavano di più erano quelli che hanno finto di non vedermi. Al mio posto c’era l’aria. Preferivo gli sguardi sprezzanti e alteri a quella fredda indifferenza forzata. Mi faceva sentire impotente. Era quello l’atteggiamento degli uomini di un’intera regione nei confronti delle donne. Non esistevamo. Se non per assecondare i loro piaceri o per essere battute. Quelli che mi guardavano con disprezzo ammettevano che esistevo, che contavo qualcosa… la mia vicinanza li toccava in qualche modo. Era il loro sdegno a conferirmi importanza. E diversità dalle altre donne.

Era dura cozzare con tanta aperta ostilità, sebbene in quanto donna ci fossi abituata. Il primo giorno fu il più duro. Vissi come un’emarginata nell’Accademia. A volte sola nella mia stanza, l’unico suono a farmi compagnia era la cantilena del mullha che, dal minareto, richiamava i fedeli alla preghiera.

Fu dura. Ma ero testarda da sempre. Se così non fosse stato avrei mollato subito. Anzi, probabilmente non sarei neanche entrata in Accademia. Per procurarmi il posto, mio padre aveva dovuto combattere contro una mentalità chiusa e dei pregiudizi secolari. “Non permetteremo che una donna appesti questa sacra roccaforte maschile. Le donne non hanno nessun diritto. E ora lei vorrebbe far entrare una ragazza nel corpo militare… i militari sono solo uomini. Dovrebbe saperlo.

Anche lei ha fatto questo mestiere. Perchè noi uomini siamo più intelligenti e soprattutto più forti. Poi ci sono l’onore… la decenza. Sua figlia non riuscirà mai a farcela”. Ma alla fine mio padre ce l’aveva fatta. Era molto influente e nessuno poteva ignorare l’altissimo grado che aveva ricoperto nella polizia, durante la gioventù. Senza di lui non ce l’avrei mai fatta e gli sarò debitrice finché avrò vita.

Grazie papà.

Riuscii a diplomarmi. Dirigevo il dipartimento contro i crimini sessuali sulle donne. Mi trovavo ogni giorno di fronte a casi orribili, ma il mio amore per la giustizia e il desiderio di un futuro migliore per noi donne mi sostenevano. Sapevo dall’inizio che la mia era una posizione molto pericolosa.

Ero una donna che si stava ribellando. La concretezza di ciò arrivò una mattina. Aprendo la porta, vi trovai attaccato un foglio. Era una minaccia. Mi intimavano di tornare a portare il burqa e di licenziarmi. Non fui invasa dal terrore. Neanche dalla paura, ma da qualcosa che un pò le somigliava. Essere senza timori sarebbe stato da stupida. Chi non teme nulla va incontro alla distruzione. La paura è un’amica preziosa, come un campanello d’allarme. Se la sai controllare ti salverà, se le permetti d’impadronirsi di te ti condurrà alla tua fine. Ignorai le minacce. Poi però decisi d’indossare il burqa durante il lavoro.

Non era per piegarmi alle minacce che ricevevo giornalmente.

No. Avevo capito che indossando il burqa, avrei potuto aiutare di più le donne. Sarei potuta entrare in più luoghi, avrei potuto investigare meglio. Avrei ritorto contro gli uomini un’arma che normalmente veniva usata contro noi donne. Gli uomini iniziavano a temere il modo in cui lavoravo. Ero brava ad investigare, a seguire le piste; spesso avevo ottime intuizioni ed il mio istinto era eccezionale. E le mie prede erano gli uomini prepotenti.

Ma dopo meno di quindici anni, fui costretta a un autoesilio.

I Talebani s’imposero al potere ed io fui costretta a fuggire.

Fui accolta come profuga in Pakistan con altri tre milioni di afgani. Lì restai dal 1996 al 2001. Fu durante quest’esilio che l’amore bussò alla porta del mio cuore. Non fu un colpo di fulmine. Io non davo molta confidenza agli uomini. Non è che fossi prevenuta nei loro confronti, ma avevo visto e sentito troppo per fidarmi subito. Per me sposarmi era sempre equivalso a sottomettermi alla volontà di qualcuno che non avrebbe rispettato i miei diritti e il mio pensiero. Per il quale non sarei valsa niente. Non appena sarei sfiorita mi avrebbe affiancata una nuova moglie, giovane e bella ed io sarei finita a fare da balia ai loro figli. Per questo, fin da ragazzina mi ero sempre detta che non avrei mai unito la mia vita a quella di qualcun altro. Ma il ragazzo che incontrai era diverso da tutti quelli che avevo conosciuto fino a quel momento. Lo conobbi perché frequentavamo lo stesso ambiente: la base militare.

Lui era un dipendente ONU. All’inizio lo spinse verso di me la curiosità. Era molto inusuale trovarsi a lavorare al fianco di una donna in divisa mimetica, dentro una base militare.

S’interessò a me quando iniziò a scoprire il mio carattere. Gli piaceva molto. Ero decisa, non mi sottomettevo a nessuno, non avevo paura. Provai in tutti modi a dimenticare il suo sorriso meraviglioso, i suoi capelli castani morbidi e un pò lunghi, le sue mani grandi e forti che cercavano sempre di sfiorare le mie, la sua espressione dolce, il suo modo buffo di farmi sempre ridere. Ma ogni volta che lo vedevo, la pancia mi si riempiva di farfalle e gli occhi mi brillavano. Inoltre era un “uomo moderno”, non aveva la mente annebbiata da stupidi pregiudizi sulle donne. Alla fine, dopo un lungo corteggiamento mi arresi. Ci sposammo e andammo a vivere in una modesta casetta. Dal nostro amore nacquero sei meravigliosi bimbi. Poi, nel 2001 la svolta. Il governo dei Talebani crollò.

Noi tornammo a Kandahar, dove ripresi il mio posto nella centrale di polizia. Iniziai ad occuparmi anche dei traffici di droga. Riuscii a sventare molti di questi giri e più investigavo e smascheravo, più i miei nemici aumentavano. Ogni mattina trovavo appesi alla porta messaggi minacciosi. L’unica cosa di cui mi preoccupavo era di strapparli via, prima che uno dei miei figli potesse vederli.

Poi un giorno le minacce presero forma. Ero per strada e tornavo a casa dal lavoro. Era sull’imbrunire. Le strade non erano molto affollate. Poi, d’un tratto, mi accorsi che qualcosa non andava. Mi scivolava addosso la strana sensazione che si ha quando si è osservati di nascosto. I miei sensi si fecero più vigili, la mia percezione si dilatò. Calcolai velocemente ogni via di scampo in caso d’attacco. Erano quasi nulle. Ero in una strada dritta e non molto affollata. Di colpo un uomo , che veniva nella direzione opposta alla mia, lanciò un urlo ed in mano gli si materializzò una pistola. Il grido era rivolto a qualcuno alle mie spalle. Capii subito che i miei nemici si erano sagacemente posti a triangolo attorno a me, accerchiandomi.

Tutto accadde in una manciata di secondi. Con la velocità del fulmine estrassi da sotto la veste la mia Beretta. Sparai a quello alle mie spalle. Non guardai neanche se fosse caduto al suolo. In queste situazioni se non si ha fiducia nelle proprie capacità si soccombe. Sentii solo un urlo e il rumore tonfo del corpo svuotato che cadeva a terra. Dalla pistola di uno degli altri due uomini partì un colpo, poi un altro ancora. Mi mancarono.

Prima che i due potessero ritentare la mia buona stella sparai ancora. Due urli e due tonfi. Non scorderò mai quelle urla. Erano raggelanti, dentro vi era tutto il terrore e tutta la consapevolezza di uomo che sa che si sta spegnendo. Ancora oggi mi chiedo come abbia fatto ad uscire viva da uno scontro ravvicinato, da sola contro tre avversari. Immagino che quando un essere umano avverta la propria vita in pericolo, tornino a galla gli istinti animali. Il primo istinto di ogni animale è la sopravvivenza. Così anche uno degli uomini più pacifici, trovandosi in serio pericolo abbatterà automaticamente il nemico. Riflesso incondizionato controllato dal cervelletto.

Verità scientifica e terribile.

Guardai per qualche secondo i tre uomini che avevo ucciso.

Erano riversi al suolo e sotto di loro si allargavano piccole pozze di sangue scarlatto. Ero contro la violenza. Ma in quei casi non vi era altra soluzione. Sapevo che quelle morti sarebbero pesate per sempre sulla mia coscienza. Ovviamente non me ne pentivo, perché sapevo che non avrei potuto comportarmi altrimenti, se non li avessi uccisi sarei stata io al suolo. Tuttavia soffrivo, com’è giusto che sia, per quelle morti. Sapevo che quel giorno una madre, magari delle sorelle, delle spose e dei figli e delle figlie, avrebbero pianto e mi avrebbero maledetta.

Ed era giusto. Non bisognerebbe mai uccidere perché coloro che uccidiamo sono stati messi al mondo al par nostro, fra l’amore e il dolore della loro madre. Ma facevo questo lavoro, appunto, perché nessuna donna in futuro si potesse trovare nella situazione di uccidere o essere uccisa. Penso che una donna non dovrebbe mai togliere la vita, perché è lei a donarla.

Nessuna donna dovrebbe mai spargere sangue. Con che mani toccherà poi i suoi bambini? Anche per questo combattevo.

L’episodio dei tre assassini mi procurò una vasta notorietà anche nell’Occidente. Ed iniziarono le prime interviste, sempre con giornalisti occidentali. Non molti però. Incontrandomi, diffondendo le mie idee, mettevano in pericolo loro stessi. I taliban li minacciavano, li consideravano colpevoli quanto me.

Durante le interviste non indossavo mai il burqa ma andavo sempre fieramente a volto scoperto.

Una delle mie prime interviste fu con “Marieclaire”.

<<Il mio non è un lavoro facile o comodo. Ma è importante che lo facciano le donne. Le cose che faccio io, gli uomini non le farebbero mai. Io sono forte come un uomo>>.

Le mie parole fecero il giro del mondo. E giù altre interviste.

<<Mi dica, come si comportano i poliziotti nei casi di violenza sulle donne?>>.

<<I crimini sulle donne sono reati su cui i miei colleghi maschi non vogliono investigare. Ricordo di quella volta che scoprii una donna e sua figlia incatenati al letto. La donna era vedova e i familiari l’avevano passata in moglie al cognato che, però, l’aveva legata al letto per dieci giorni a pane e acqua. Ho liberato molte donne dalla schiavitù dei loro uomini e questo mi è valsa una certa notaritetà tra le donne che mi amano e mi fanno sentire forte, contro le minacce di morte>>.

<<È una realtà dura quella con cui si viene a trovare ogni giorno. È raro che una donna sappia reggere tutto questo. Qual è la situazione più orribile che si è trovata davanti?>>

Avevo visto molti casi orrendi, mentre li rivivevo con la mente i miei occhi si andavano spegnendo.

<<Non mi scorderò mai di Anara Gul… una ragazza… era ancora più giovane di te ora… Era stata coraggiosa. Aveva rifiutato d’indossare il burqa e aveva chiesto il divorzio dal marito, perché la picchiava. Lui non aveva accettato l’oltraggio.

L’aveva presa, chiusa in casa e torturata per venti giorni.

La trovai grazie ad una soffiata dei vicini. Era sull’orlo della pazzia. Legata con catene arrugginite in un’alcova buia, nutrita di scarti. Ogni giorno il suo ex marito la percuoteva usando il piatto di un grosso coltello, un cavo elettrico o con le sue mani finché non sveniva>>.

A quei ricordi mi corse la pelle d’oca lungo le braccia.

<<Mentre mi raccontava tutto questo, Anara sbatteva la testa contro il muro e si copriva le orecchie, quasi sentisse ancora sulla pelle il dolore, nel cuore la turpitudine… non mi vergogno ammettendo di aver picchiato il marito… pugni, calci, schiaffi… in casa… poi di nuovo in centrale altre botte… ero così arrabbiata, così furiosa… mi sono contenuta però, se avessi usato il manganello, sarebbe morto>>.

Il ragazzo rimase un attimo zitto, forse non si aspettava quell’ultima parte. Si riscosse.

<<Sergente Kakar, lei è un simbolo del riscatto femminile, un’eroina. Cosa pensa dello sfortunato bisogno di eroi del suo paese?>>

Fu questa la domanda che una volta mi rivolse un giovane giornalista britannico. Mi soffermai sui suoi riccioli biondi, gli occhi che non abbandonavano il mio viso. Era molto giovane. Non doveva avere trent’anni. Lo guardai indulgente, scuotendo bonariamente la testa.

<<Non sarò mai convinta che un Paese che ha bisogno di eroi è sfortunato. Credo, invece, che sia fortunato l’Afghanistan, perché anche oggi ha dimostrato che è pieno di eroi, maschi e femmine, pronti a dare la vita>>.

<<Lei si considera fra questi?>>.

<<Non m’importa… ma tanto alla fine è il mondo che decide, sempre e comunque. Che ci piaccia o meno assegna a tutti un’etichetta, a seconda delle nostre azioni… e dai punti di vista>>.

Era vero. In Occidente ero un simbolo di liberazione. Nel mio Paese l’incarnazione del peccato. Ero una doppia peccatrice. Ero diventata poliziotta e avevo rifiutato il burqa. Da bambina avevo visto molte donne lapidate per strada per molto meno. Ormai ero fuori dalla religione, considerata un’eretica.

Non mi sottomettevo agli uomini, mi ritenevo loro pari, mi mescolavo a loro, non mi coprivo…

Per qualcuno che non ha vissuto la realtà che ho vissuto io, l’assurda situazione in cui si trovano le donne è inimmaginabile.

Le finestre delle case erano oscurate per non permettere agli uomini di vedere le donne all’interno. Le donne c’erano, ma era come se non esistessero. Mi chiedevo spesso, se davvero gli uomini pensassero che il burqa servisse a qualcosa. Un uomo poteva anche immaginare; non serviva a niente trincerare un’innocente in una prigione. Ma bisognava difenderci dagli sguardi maschili. Poi c’era la totale sottomissione che ogni moglie doveva al marito. Ogni uomo poteva picchiare a piacere la moglie, lo facevano quasi tutti. A volte anche davanti agli amici. Nessuno aveva da ridire. Anche loro a casa lo facevano. Le donne per adulterio venivano lapidate.

Gli uomini una volta stancatisi della loro moglie potevano prenderne un’altra, gettando la vecchia via, come un vestito smesso. All’inizio non capivo, la logica di questi fatti. Poi capii che non capivo perché non vi era una logica.

Dopo l’episodio dei tre killer mi trasferii in un complesso residenziale dell’esercito, per alzare un pò il mio livello di sicurezza. Ero accompagnata a lavoro da mio fratello, successivamente dai miei figli. Non era per “decenza islamica” , ma sempre per la mia sicurezza. Ero attenta, certo, ma non vivevo nella paura. Vivere nella paura è come non vivere. Meglio morire, che essere in ogni singolo giorno della propria esistenza nella stretta delle ganasce dell’angoscia e del terrore. Ogni volta che uscivo dalla porta di casa avvertivo il soffio freddo ed eccitante del pericolo alitarmi in viso. No, non avevo paura.

Il pericolo mi caricava di adrenalina. E al resto pensava il mio orgoglio. Non mi sarei mai fatta prendere dal terrore, perché è quello che blocca tutti gli ingranaggi. Durante il mio lavoro ricevevo molte donne che subivano violenze e le denunciavano.

Ma, molto spesso, loro si presentavano solo davanti a me. Poi toccava a me convincerle a raccontarmi tutto. Erano troppo terrorizzate al pensiero di accusare i loro mariti, i loro zii, i loro padri. La stragrande maggioranza di donne non si ribellava. Non veniva in commissariato. Aveva troppa paura.

Chissà quante ragazze erano morte sotto le percosse dei mariti

e i loro corpi erano stati semplicemente gettati in un fiume.

Molte donne invece, ormai rassegnate alla loro posizione, si erano infine convinte di aver davvero bisogno della protezione degli uomini. Alcune trovavano rassicurante il burqa perché le proteggeva dal desiderio degli altri uomini. Altre pensavano di essere davvero inferiori ai mariti…

Sapevo che per iniziare ad ottenere risultati concreti dovevo convincere le donne ad uscire di casa. Dovevano credere in loro stesse. Dovevano credere che le cose potevano cambiare.

Presi a girare, casa per casa, cercando di convincerle. Minimizzavo i rischi ed esageravo il salario. Ma dovevo farlo, questo lavoro era importante per noi, ma ancor più per tutte le donne che finalmente aiutavamo. Perché fra donne c’è più solidarietà.

Troppo spesso le donne erano ignorate dai poliziotti maschi.

Avevo visto molte ragazze morire sul luogo di incidenti. Potevano benissimo essere salvate, ma non potevano essere toccate se non da parenti e a nessuno importava veramente salvarle.

In tribunale la testimonianza di una donna non contava nulla.

Liberai molte donne-schiave e furono soprattutto loro ad unirsi a me. Riuscii a mettere in piedi un divisione di sole donne. Fra le prime a legarsi a me fu Bibi, una ragazza che avevo salvato dalle violenze dei parenti. Si presentò a me finalmente libera, ma coperta di cicatrici che le avrebbero ricordato per sempre gli abomini subiti. Si unì alla mia ristretta squadra per fare le pulizie negli uffici delle novelle poliziotte.

Le donne sono magiche. Solo loro possono dare la vita.

Dovrebbero essere protette e rispettate, libere e felici. Non sottomesse ed emarginate. Eppure la situazione delle donne era sempre stata paradossale, anche in Occidente in passato.

Le donne erano sottoposte e protette, deboli e potenti, disprezzate e rispettate. Poi, però, le cose si risolsero per il meglio, in Occidente. Qui no. Ovviamente anche in Occidente ci sono alcuni pregiudizi, alcuni costumi e convinzioni legati alla superiorità degli uomini, ma sono meno lampanti rispetto a quelli che sono in Afghanistan. L’unica cosa che devo ammettere a malincuore è che spesso gli omini sono superiori rispetto alle donne su un unico fronte: la forza fisica. Per questo riescono a tenerle sottomesse nella maggior parte dei casi. Ma verrà il giorno in cui la forza non basterà…