I racconti del Premio letterario Energheia

L’ombra della falena, Patrizia Nives Sanna_Ozieri(SS)

Finalista Premio letterario Energheia 2022 – Sezione giovani

L’auto procedeva senza fretta e il mondo scorreva calmo oltre il finestrino della

piccola utilitaria azzurra, brillante come il cielo pulito di quella mattina di fine aprile.

La vasta pianura di grano non ancora maturo si srotolava oltre l’infiacchito muretto a

secco che costeggiava il rettilineo della vecchia provinciale; giusto alcune siepi di

oleandro ravvivavano il ricordo quasi sbiadito di quel paesaggio nella mente

dell’assorto conducente che, rallentata ulteriormente l’andatura, terminò la sua corsa

presso uno spiazzo che precedeva uno sterrato. Spento il motore fece per scendere

quando vide un’auto nera che, senza troppa cura, si fermò sul margine della corsia

opposta. Traendo vantaggio dalla copertura delle fronde di un ulivo secolare si fermò

ad osservare la scena: una donna sui cinquant’anni, di bassa statura con capelli

corvini, lisci, lunghi alle spalle, a cui la corporatura minuta e l’abbigliamento pratico e

giovanile conferivano un aspetto più fresco di quanto rivelassero i segni sul viso, scese

dall’auto dopo aver preso un mazzo di tulipani rossi per dirigersi poco più avanti:

accarezzò teneramente la foto sulla candida lapide che poi con pietosa premura

spolverò con un fazzoletto estratto dalla tasca; sostituì gli steli ormai anneriti con il

fresco mazzetto di fiori colorati; poi, rannicchiatasi sulle gambe, rimase per qualche

minuto a fissare la silenziosa lastra quasi in un dialogo muto tra anime. Tornata poi a

bordo dell’auto si sfiorò gli zigomi con una mano e, abbassati gli occhiali da sole che

le tenevano fermi i capelli, ripartì lentamente. Nell’incrociarsi delle due auto i loro

sguardi si intrecciarono per una frazione di secondo, ardendo di curiosità.

Interrogando i ricordi soffocati da ruggine e veleno l’uomo scese dall’auto e si diresse

a sua volta verso quel luogo di ricordo e amarezza.

Con afflizione immutata gettò un fugace sguardo sulla fotografia che vent’anni prima

ebbe cura di scegliere di persona per fissare in eterno il sorriso giovane e la memoria

dell’amato fratello, ma in un gesto di rabbia mista a imbarazzo lo distolse, con i pugni

chiusi lungo i fianchi sussurrando qualcosa tra i denti stretti. Una folata di vento

improvvisa accarezzò l’erba e i timidi fiori gialli facendoli oscillare in una danza

armonica che a lui piacque interpretare come un segno di approvazione del povero

Bastiano.

Sfiorò ancora la gelida lastra con lo sguardo perso nel limpido orizzonte e, senza

neppure aver terminato un fulmineo segno di croce, voltò le spalle e ritornò alla

macchina. Decise di inforcare la strada sterrata: conosceva bene ogni anfratto e aveva

bisogno di sentire l’abbraccio della sua terra, di respirarne il profumo, di riviverne i

colori. Percorse qualche decina di chilometri, sostò vicino all’eterna fonte dove il

crosciare dell’acqua limpida e fresca era rimasto immutato come il profumo della

mentuccia selvatica; rivide poi la vecchia cantoniera diroccata che dignitosamente

concludeva la sua esistenza conservando il rosso pompeiano su ciò che restava dei

muri di facciata, e che oggi come allora continuava a trasmettere inquietudine e

fascino; ritrovò il vecchio olivastro sotto la stradina dove poco più che diciassettenne

uccise il primo cinghiale e il ponte di ferro sopra il fiume dove andava a pescare nei

pomeriggi di inizio estate. Con un salto spedito e sciolto balzò sopra la grande roccia

che sovrastava la vallata, compiaciuto nel constatare che né il tempo né l’età gli

avessero fatto perdere la destrezza di quel gesto e, davanti a quell’immensità

abbracciò ancora una volta la sua terra: massiccia di granito, eterna di asfodeli,

coraggiosa di ginestre, semplice e sacra di cisto e lentisco da cui per troppo tempo era

rimasto lontano. Una forza nuova gli fluì nelle vene più intensa della triste

consapevolezza di un passato che non torna.

Trasportato dall’onda di tanti ricordi si ritrovò all’ingresso di quello che era stato il suo

paese per i primi trent’anni di vita, ma che da venti era stato costretto a lasciare:

qualche briosa palazzina aveva sostituito le piccole case di pietre e fango; le colline

intorno, un tempo vestite di ricchi vigneti, apparivano ora spogliate di incuria e di

essenziale modernità; solo la grande piazza in selciato e i mascheroni in marmo

dell’imponente fontana ottocentesca restavano strettamente fedeli al ricordo visivo

che ora riaffiorava più vivo dalla memoria spenta. Si intristì per il silenzio e la

desolazione che ora vi regnavano, rotti solo dalla presenza di due giovani seduti al

tavolino dell’unico bar, i quali si voltarono a fissare il misterioso forestiero finché non

lo videro sparire tra le viuzze del piccolo paese.

Parcheggiata l’auto sotto un muraglione di pietra, da cui un ramo di caprifico faceva

capolino tra ciuffi di modesta parietaria, scese e si diresse a piedi fino ad un grande

cancello di ferro battuto che le mani di qualche antico mastro ferraio avevano

abilmente forgiato per custodire una grande dimora e la sua gente. Tentò invano di

aprirlo, ma il fermo protettore, fedele al suo ruolo, negò l’accesso a colui che ormai

era divenuto estraneo. Non gli restò dunque che guardare attraverso le sbarre come,

in quegli anni passati lontano, era stato costretto a fare. Una nuova morsa gli

attanagliò l’anima quando, sollevato lo sguardo, rivide il vecchio terrazzino, in passato

immagine sublime di amore materno con la freschezza dei panni stesi al sole e il

profumo delle gardenie rampicanti, adesso divenuto una pallida e spenta fotografia

macchiata dal tempo crudele e dalla sorte ingiusta che non aveva risparmiato neppure

l’Angelo Sacro che per ultimo aveva difeso la sua reggia. A rifinire quel quadro di

desolazione e amarezza il battere cupo e malinconico di un’anta di persiana sgretolata

e spogliata delle sue stecche, che, tra un picchiare e l’altro, lasciava intravedere uno

squarcio simile alla tela di un grosso ragno. Senza mai voltarsi si diresse con passo

spedito giù per la discesa di antico selciato e, girato l’angolo, proseguì fino a una casa

che solo alla vista gli riempì il cuore di un senso di calore che da anni non sentiva. Uno

scampolo di tenda sventolava fuori dalla finestra aperta al pian terreno diffondendo

un invitante profumo di soffritto per tutto il vicolo. Rievocando una confidenza mai

persa, nonostante gli anni trascorsi, bussò dolcemente sul vetro, chiedendo cosa si

stesse preparando di buono. Da dentro un’anziana signora con addosso una vestaglia,

esuberante come il suo modo di fare, sobbalzò facendo sbattere le posate che

armeggiava con maestria; poi si voltò per assicurarsi che la memoria non la stesse

tradendo e, passata in un attimo dal sorriso alle lacrime, corse ad abbracciare

Vincenzo, l’ospite appena arrivato. Zia Maria e suo marito Gesuino non avevano figli

propri, ma la loro affabilità li aveva resi “zii” di tanti ragazzini e in modo speciale dei

fratelli Vincenzo e Bastiano che, in virtù della loro vicinanza di casa, erano venuti su

coccolati dalle buonissime ciambelle e dal liquore al cioccolato di zia Maria nei freddi

pomeriggi autunnali trascorsi tra motori e risate nell’officina di zio Gesuino. Da

quando il loro padre se n’era andato all’improvviso, proprio in una di quelle

malinconiche sere di fine ottobre, tradito dal suo cuore buono, quell’omino minuto,

dai vispi occhi azzurro cielo e i baffoni a manubrio ingialliti dal fumo, si era trasformato

da spassoso compagno di mille avventure in scrupoloso mentore di un percorso che

via via sarebbe diventato sempre più irto. Seduto a tavola nel soggiorno della familiare

dimora, dove il tempo sembrava essersi fermato custodendo rumori e profumi del

passato, Vincenzo si sentiva finalmente a casa, coccolato dalle dolci e sincere premure

di zio Gesuino e zia Maria; e come un fiume in piena, dopo vent’anni di silenzi e

solitudine nella sua cella, si lasciò andare mentre i due saggi e attenti consiglieri lo

ascoltavano. Zia Maria, per quanto si sforzasse, non riusciva a trattenere le lacrime e

così, tra una sonora soffiata di naso e l’altra, appallottolava il fazzoletto, lo infilava

nella manica e con gli occhi gonfi e arrossati seguiva scrupolosamente ogni dettaglio.

Zio Gesuino invece con il suo marcato senso dell’umorismo trovava sempre il modo

di sdrammatizzare, ma a un tratto persino lui si arrese davanti a quell’onda di

insostenibile dolore e anche il suo sorriso genuino che si allargava dal cuore agli occhi

si trasformò in immagine di afflizione e rammarico. Vincenzo raccontava di come

avesse trascorso quei vent’anni in carcere, dopo l’accusa disonorevole di aver

assassinato suo fratello Bastiano, di come quel dolore gli fosse servito da sprone nella

durezza delle prime notti, sdraiato su una squallida branda a ripensare a ogni

particolare, alle ultime parole di Bastiano il cui suono, giorno dopo giorno, si

affievoliva come la speranza di dimostrare la sua innocenza. Zio Gesuino provava ad

intentare nuovi intrecci per frantumare il sigillo di rancore e rabbia che in certi episodi

investivano il narratore, mentre Zia Maria, più votata alle indiscrezioni, lo aggiornava

sulla vita di paese, sulle dicerie della gente dopo il suo arresto, su quanto male

avessero provocato alla sua amata madre, aggiungendo dolore su dolore al povero

Vincenzo che stringeva i pugni scarni immaginando la povera donna nella solitudine

della loro casa, ormai esanime di calore e affetti; e non si dava pace al pensiero di non

essere riuscito a proteggere la donna che più aveva amato nella sua vita e di non

esserle stato vicino quando la morte aveva aperto i cancelli, liberando la sua anima

da tutti i pesi della sua triste esistenza. Zia Maria alternava momenti di silenziose

lacrime ad altri di loquacità irrefrenabile e, accortasi di che ora si fosse fatta, tornò

premurosamente tra i suoi fornelli ad impreziosire per il caro ospite quel pranzetto

che qualche ora prima aveva piacevolmente interrotto. Vincenzo approfittò della

lontananza della donna per chiedere a zio Sebastiano le chiavi della sua casa che i due

vicini avevano custodito dopo la morte di sua madre e lo fece in quel modo non

perché avesse motivo di dubitare della lealtà di zia Maria, quanto piuttosto perché

sapeva già che lei si sarebbe risentita se avesse preferito la vecchia e triste abitazione

alla sua accogliente cameretta al piano di sopra, che lei rassettava ogni giorno con

cura come se aspettasse l’arrivo di un ospite inatteso. Ma a Vincenzo ormai la

solitudine era entrata nelle vene, aveva bisogno dei suoi spazi, dei suoi silenzi, dei suoi

oscuri soliloqui e Zio Gesuino questo lo capì benissimo. Così dopo aver rinnovato

l’invito ad andarli a trovare ogni qualvolta avesse voluto, staccò dal mazzo che si

portava dietro un anello con due chiavi e segretamente glielo porse. Vincenzo le fece

sparire dentro la tasca dei pantaloni; poi, come ricordatosi all’improvviso, si rivolse al

suo interlocutore con un tono di voce che si faceva via via più basso, fino a divenire

un mormorio ovattato, interrogandolo sulla misteriosa donna che aveva visto quella

mattina presso la lapide di suo fratello. Zio Gesuino non impiegò tanto tempo a capire

che quella descrizione poteva corrispondere a una sola persona e tra stupore e

incredulità pronunciò il nome di Maddalena, ma davanti all’espressione interrogativa

di Vincenzo, a cui questo nome non ricordava nulla, alzò il tono ricordandogli che si

trattava della moglie di Antioco Corvu. Zia Maria che aveva l’udito allenato a captare

con abilità ogni possibile motivo di chiacchiera, arrivò di soppiatto come attratta da

una forza oscura e, asciugandosi le mani su un lembo della vestaglietta, si fece un

segno di croce, quasi a volere ricacciare nell’inferno il demone appena nominato.

Nella stanzetta parve che persino il sole si fosse eclissato al suono di quel nome

infausto. Corvu in realtà era un soprannome che ben descriveva il temperamento di

quel personaggio squallido come la sua vita. Si era arricchito facendo i soldi dalle

disgrazie altrui, compresa quella della famiglia di Vincenzo. Quando suo padre morì

improvvisamente l’onere della gestione delle tenute ricadde sua madre, che, già

estenuata dal dolore, si ritrovò in breve tempo sommersa dai debiti derivati, oltre che

da una conduzione inadeguata, anche da una cattiva annata del raccolto. Ed ecco che

nelle loro vite entrò la figura di Corvu che ben presto, svestiti i panni di amorevole

benefattore, si palesò in tutta la sua disumana e ripugnante essenza: nel giro di poco

tempo si impadronì di ogni loro terra e, non pago, calpestò anche l’ultimo brandello

di dignità della sua famiglia, riducendoli a lavorare alla stregua di servi in quelle terre

che vilmente aveva sottratto loro. L’anzianità si dice che smorzi anche gli spiriti più

infuocati, ma, stando a quanto raccontava zia Maria, non aveva affievolito l’avidità di

Corvu, che, attaccato com’era alle sue ricchezze, pare avesse scatenato i più famosi

avvocati per diseredare l’unico figlio che la giovane moglie gli aveva dato, che, per

fortuna, nulla aveva ereditato dal carattere di suo padre; e, proprio a causa di questa

diversità, era stato allontanato da casa da Corvu e costretto a cercare impiego nel bar

del paese, mentre Antioco, suo padre, gli faceva terra bruciata intorno per indurlo a

lasciare la piccola comunità e allontanarlo da sua madre che, per il dispiacere, pare

fosse invecchiata di colpo. In effetti quel dolore l’aveva provata perché, per quanto

Vincenzo si sforzasse, non riusciva proprio a ricollegare il volto visto quella mattina

alla bellissima e giovane moglie di Corvu, di cui conservava l’immagine triste e solitaria

di un’icona di infelicità, venduta a Corvu dai suoi genitori per saldare qualche debito.

In tutto questo parlare si terminò di pranzare che erano già le cinque del pomeriggio

e Vincenzo si congedò dicendo che un amico in un paese vicino lo stava aspettando e

che con tutta probabilità avrebbe scelto di dormire da lui quella notte. Zia Maria lo

abbracciò un po’ contrariata, mentre zio Sebastiano alle spalle di lei gli strizzò l’occhio.

In effetti qualcuno che lo aspettava c’era per davvero, anche se lui non lo considerava

un amico ma l’unico ponte per la verità. Tornato da dove era venuto, riprese l’auto e

si allontanò. Aveva bisogno di lucidità: rientrare nella sua vecchia casa dopo tutto quel

tempo sarebbe stato straziante; e poi la meta era un po’ lontana ed era meglio

avviarsi.

Al tramonto arrivò al luogo dell’appuntamento: in un bar all’entrata di un grande

paese, che fiocamente iniziava ad illuminarsi di mille lampioni, avvenne l’incontro con

Saverio, un frizzante ragazzo di corporatura esile e slanciata, un tipo enfatico e

singolare, dai mille segreti e dalle mille storie tra realtà e fantasia, la cui passione per

le scommesse e il gioco d’azzardo l’avevano reso assiduo frequentatore del carcere.

Il suo atteggiamento espansivo e forse l’eccessiva loquacità lo rendevano spassoso e

scomodo al tempo stesso e così, in più occasioni, durante quelle sue puntate in

carcere, Vincenzo lo aveva tirato fuori dai guai appena in tempo. Saverio sapeva di

avere un debito con lui e da leale scommettitore avrebbe fatto di tutto per saldarlo e

questa era l’occasione. In una vecchia casa in cima ad una collinetta che sovrastava

un grande paese, un uomo sulla sessantina li aspettava seduto su un gradino. Dopo le

presentazioni con lo scambio di una fugace e fredda stretta di mano, l’invito muto ad

accomodarsi dentro: una mescolanza di odori indefiniti si propagò dalla stanza non

appena la porta si spalancò su una cucina disadorna e lercia; la luce pallida di un

lampadario a piatto che pendeva sopra il tavolo occultava in parte il dissesto di quella

stanza. Il padrone di casa si diresse subito verso un frigorifero cadente che, tra le

chiazze di ruggine, mostrava ancora tracce di un originario smalto bianco, e tirò fuori

tre bottiglie di birra che poi, con un’abile e rude mossa, stappò aiutandosi con

l’estremità di una forchetta. Con le mani tozze sgomberò il piano del tavolo da altre

decine di tappi della stessa bevanda che poi porse ai suoi ospiti mentre già tracannava

la sua. Saverio con la sua vivida fantasia iniziò a colorire la descrizione di Vincenzo,

lodandone le gesta all’interno del carcere, mentre lui a fatica reprimeva il suo umore

non proprio atto a spassose bicchierate con quell’individuo e nervosamente faceva

roteare la sua bottiglia tra le mani nell’attesa che l’alcool iniziasse a fare effetto.

Saverio, conoscendo vizi e debolezze del personaggio, gli offuscava la mente con

alcool e ricordi per portare la conversazione dove lui voleva. Così dopo un paio d’ore,

quando l’aria in quella stanza, impregnata dal puzzo di fumo e di alcool, era diventata

irrespirabile, la lingua del padrone di casa iniziò a sciogliersi e, ignaro dell’identità

della persona che gli stava davanti, cominciò il suo mostruoso racconto, sfoderando

una freddezza disumana non legata all’ebrezza, ma a un senso di sordida

soddisfazione che lo pervadeva quando raccontava le sue tristi imprese di una vita da

sicario. Vincenzo impietrito ascoltava anche i dettagli più piccoli che, con una lucidità

inaudita, venivano forniti dal narratore: parlava dello studio attento dei giorni

precedenti l’esecuzione, del pedinamento costante per conoscere ogni abitudine

della vittima, della scelta, poi, del momento e del luogo più adatto per colpire, e infine

dei dettagli più specifici di quella particolare occasione in cui il compito di sparare era

spettato al suo collega, mentre lui si occupava di nascondere una scarpa da donna tra

le sterpaglie e un orecchino dentro l’auto. Saverio, per quanto avesse già sentito quel

racconto dal suo vecchio amico, deglutiva nervosamente e sudava freddo; Vincenzo,

livido di rabbia e dolore, avrebbe voluto scaraventarsi addosso a quell’essere

immondo e chiudergli la bocca per sempre, ma a lui premeva sapere il nome

dell’ideatore dell’omicidio di Bastiano; così nervosamente gli chiese chi lo avesse

mandato e quello, dopo qualche pressione, mugugnò un nome inequivocabile e

sinistro: Antioco Corvu! Per la seconda volta in quel giorno quel nome risuonò intorno

a Vincenzo, squarciando il drappo che avvolgeva un dolore mai sopito.

Andò via da quel posto senza una sola parola. Per tutta la notte vagò senza meta,

mentre i dettagli di quel racconto risuonavano pesanti come macigni nella mente

convulsa come in preda ad un attacco di febbre. Stremato si fermò in una piazzola che

sovrastava le luci di un piccolo paese e per qualche ora perse i sensi. Si risvegliò con

l’aria pungente di un giorno che stava iniziando e quell’alba sembrò donargli linfa

nuova. Fece ritorno a casa e, giunto davanti al cancello, trattenne il respiro per

qualche secondo prima di entrare: sapeva che oltrepassare quel varco significava fare

breccia in un’anima ricucita, era un salto imprudente nel baratro dei ricordi. Poi un

suono di cardini arrugginiti aprì la scena e all’improvviso tutto parve colorarsi di vita

nuova: rivide suo padre seduto all’ombra del vecchio noce, Bastiano ancora bambino

che inseguiva le galline e la figura sinuosa di sua madre che gli veniva incontro con la

cesta in mano, mentre persino il profumo semplice e rilassante dei panni stesi al sole

pareva inebriargli i sensi. Poi un fulmine improvviso lo ridestò da quel sogno ad occhi

aperti e tutto intorno a lui tornò smorto e spettrale. Si ritrovò davanti al portone ad

arco, di legno antico e borchie arrugginite che, nella fervida immaginazione dei suoi

sogni di bambino, aveva sempre paragonato all’ingresso di un inespugnabile castello

medievale. I tarli e l’inclemenza del tempo lo avevano spogliato del suo antico vigore

e anche i leoni dei battenti in ottone pareva avessero perso la loro fierezza. Aprì la

porta ed entrò lentamente: un tanfo di muffa e chiuso aveva preso il posto del

profumo ancestrale e del calore di casa. Tutto era in un ordine ovattato: sulla consolle

in radica, tra la polvere e gli argentei riflessi dei fili di una ragnatela che si diramavano

dalla specchiera ovale, tra il portapenne e l’agendina, dormiva l’apparecchio

telefonico, ormai staccato da anni. Con un gesto lento lo sfiorò e un brivido gelido gli

corse lungo la schiena: gli parve di risentirne lo squillo nel cuore della notte, rivisse la

corsa giù dal letto, lo sguardo gettato all’improvviso alla camera di Bastiano mentre

attraversava il corridoio, il letto ancora intatto, il triste presagio e poi la conferma da

una voce sconosciuta e cupa che gli comunicava di recarsi in quella strada maledetta.

Continuò a guardarsi intorno, tutto era come lo ricordava, tutto parlava ancora di

quotidianità: i bicchieri impolverati nella vetrina, la tovaglietta sulla tavola e al centro

il piatto portafrutta. Alcune scatole di farmaci stavano impilate sopra il mobiletto della

macchina da cucire posto a lato del camino in mattoni rossi, supremo emblema della

casa, con due ceppi anneriti, abbozzati e mai esauriti dal fuoco come la vita trascinata

in quella dimora. Sul piano della vecchia credenza, davanti a un lumino, la cui fiamma

aveva smesso di ardere da tempo, spiccavano infine le foto di Bastiano e di suo padre.

Confuso dall’incalzare delle forti emozioni si diresse al piano di sopra. Attraverso la

porta aperta guardò verso la camera di suo fratello, anche lì tutto era immutato: la

scrivania sotto la finestra e al lato del letto una mensola dove, sepolte da una coltre

di polvere, continuavano a primeggiare le coppe e i vari trofei vinti alle gare di tiro,

passione che entrambi avevano ereditato dal padre. Sorrise per un attimo a quel

tenero e lontano ricordo, poi proseguì fin dentro camera sua, aprì la finestra e

spalancò le persiane: un raggio di sole ormai alto in cielo andò a riflettere sul vetro

del mobiletto porta stereo posto ai piedi del letto. Osservò fuori verso la campagna

che circondava il retro della casa, mentre quella vista gli rievocava l’ultima alba che

trascorse in quella casa, tinta di lampi blu e squarciata dal fischio delle sirene.

Abbandonò anche quella stanza; con un senso di vuoto e desolazione diresse i suoi

passi verso la camera di sua madre e lì un dolore immenso, un quadro di morte e

pianto, gli si delineò davanti: intorno al letto di ferro nero alcune sedie disposte

ordinatamente ricordavano ancora l’ultimo viaggio di sua madre. Si sedette su quella

più vicina al capezzale e, poggiata la testa sul guanciale, pianse in ritardo le lacrime

più amare che per anni aveva soffocato, mentre gli angeli sull’ inserto in madreperla

della testata sembravano volerlo pietosamente consolare. Quando il pianto si fu

attenuato, come spinto da una sensazione improvvisa, si avvicinò con gli occhi ancora

annebbiati di lacrime al comò e, aperto il primo cassetto, sopra i vestiti ripiegati con

cura, trovò una busta di carta da cui sbordavano ritagli ingialliti di giornali. Una penosa

sequela di eventi dolorosi gli corse davanti: la notizia della morte di Bastiano, il suo

arresto, le varie tappe dei processi; e, tra questi frammenti, la foto di Elena, sotto un

articolo che parlava della sua misteriosa sparizione, riaccese il ricordo ormai sopito di

una giovane donna che aveva conosciuto per caso o per sbaglio, pochi mesi prima che

il destino si accanisse contro di lui, in un locale mai visto prima di allora, alla fine di

una serata maledettamente scialba e malinconica. Pur avendo consapevolezza che

non sarebbe mai stata la donna con cui avrebbe desiderato metter su famiglia, si era

trascinato dietro quella storia il tempo necessario per permetterle di cambiargli

inesorabilmente la vita. Quella ragazza dai capelli stropicciati e lo sguardo assente e

malinconico, che tanto gli ricordava la Venere di Botticelli, lo aveva spinto nel

precipizio, raccontando di essere stata all’interno dell’auto quella notte insieme a

Bastiano, e che proprio la scoperta della loro relazione avesse infiammato d’ira

Vincenzo fino ad ammazzare suo fratello e che lei stessa fosse riuscita

miracolosamente a mettersi in salvo dileguandosi nell’oscurità della notte.

Quella storia assurda per vent’anni, oggi si contornava di una luce nuova, ma ancora

non tutto era chiarito. Vincenzo non capiva il perché di tanto odio da parte di Corvu:

si era preso tutto ciò che era loro, li aveva umiliati, ma che scopo avrebbe potuto

avere ad accanirsi così tanto? Forse la risposta a questo enigma non esisteva o forse

risiedeva semplicemente nel cuore crudele di quel losco personaggio che il destino gli

aveva fatto incontrare, ma adesso a lui poco importava. Scappò dalla camera, dai

ritagli, dalla vita perduta e, aperta la vecchia porta che dava sul retro della casa,

attraversò gli ormai incolti orti, poi si diresse verso la rada boscaglia di acacie già

fiorite e davanti a un ciliegio spelacchiato e cadente ritrovò l’imboccatura di una

vecchia grotta, nascondiglio protetto dal patto di sangue tra fratelli. Smosse un grosso

macigno parzialmente occultato da un groviglio di arbusti e, messe le mani dentro

un’ampia incavatura, tentò di smuovere un ingombrante pacco; nei vari tentativi un

cofanetto di legno cadde sul primitivo pavimento: una pioggia di lettere si sparse per

l’antro. Ne lesse alcune: parlavano chiaro di un amore sofferto, consumato in segreto.

A fugare ogni dubbio, tra i fogli ingialliti, una sbiadita fotografia di Maddalena, la

moglie di Corvu, insolitamente ritratta sorridente e felice; sul retro una dedica che

non lasciava spazio a tante interpretazioni: “Al mio amore segreto, Maddalena”.

Raccolse nervosamente le lettere e, ricostruito il malridotto cofanetto, le richiuse nel

silenzio di quel nascondiglio.

Fece ritorno in casa portando addosso, insieme ad un altro involucro misterioso, il

peso di una verità che non gli dava la pace tanto sperata. Scartò convulsamente il

pacco che per anni un patto di lealtà e attaccamento tra fratelli aveva custodito,

dissotterrando insieme alla vecchia arma del nonno il ricordo di un’antica stirpe e del

suo pregio. Si sistemò prima di uscire di casa. Doveva fugare un ultimo dubbio per

completare la soluzione della sua dolorosa storia.

Si diresse al bar davanti alla grande piazza, attraversò la linea di tavolini semivuoti

posti all’esterno; una volta dentro il locale una voce tra le altre lo fece trasalire,

risvegliando un nostalgico ricordo suffragato dai limpidi occhi blu cobalto del giovane

barista. Senza dire una sola parola le due anime entrarono in connessione come

attratte da un misterioso legame che scorreva loro nelle vene. Restarono muti ad

osservarsi per qualche secondo, poi sorrisero come se si conoscessero da sempre

prima di iniziare a parlare con familiare naturalezza mentre Vincenzo consumava il

suo caffè. I profondi occhi del giovane barista, dello stesso blu cobalto di quelli di

Bastiano, si illuminarono della stessa luce quando tra i tanti discorsi, con grande

sorpresa, scoprirono di condividere la stessa passione per le gare di tiro. La semplicità,

la leggerezza e la complicità istintiva di quella conversazione lo riportarono indietro

di vent’anni, mitigarono la rabbia, il dolore; e anche l’idea che tutto fosse perduto

venne fugata da quell’ultimo tassello dagli occhi blu cobalto che gli brillavano davanti.

Tornò a casa e si richiuse nel suo dolore mentre i due giorni appena trascorsi gli

scorrevano davanti agli occhi come fotogrammi sbiaditi. Rimase in silenzio ad

aspettare la notte tra l’incedere delle ore, misurate sdraiato sul vecchio letto della sua

camera, quando ad un tratto un tenue crepitio infranse il silenzio: una grossa falena,

attratta dalla tenue luce della candela, volteggiava confusa facendo sbattere le fragili

ali frastagliate sul vetro. Osservò con tenerezza e appagamento la danza di quella

misteriosa creatura che si posò nella parte alta dell’intercapedine tra la finestra e la

persiana. Gli tornò improvvisamente alla mente una falena identica a quella, che tutti

gli anni, da quando era bambino, in una notte di fine aprile, bussava alla finestra della

sua camera; risentì i lontani racconti di sua nonna, di fate, streghe e anime di antenati

che tornavano prendendo quelle misteriose sembianze. Non aveva mai saputo il

motivo delle visite di quelle magiche creature, ma a ogni risveglio la falena era sparita,

lasciando in lui un senso di serenità leggermente velata di malinconia. Chiuse gli occhi

cullato da quel dolce ricordo.

Quando il cielo, non toccato dai raggi del sole, era ancora stinto, uno sparo squarciò

il riposo del piccolo borgo: il corpo di Corvu giaceva sul pavimento di ciottoli tra la

grande piazza e la vecchia fontana con le braccia spalancate. Sulla candida camicia un

solo squarcio orlato di rosso gli aveva trafitto il cuore, duro come i ciottoli che si

tingevano del suo sangue caldo. Solo ai suoi occhi muti, volti a un cielo che per lui non

si sarebbe più acceso, fu dato vedere l’aspetto di chi lo aveva derubato della sua

anima avida e feroce, mentre l’ombra pallida di una falena danzava sul suo corpo

esanime.