I racconti del Premio letterario Energheia

Libertà_Olga Di Gesualdo, Chieti

_Racconto finalista diciassettesima edizione Premio Energheia 2011.

 

“Stallone purosangue arabo. Un cavallo perfetto: colore grigio vinellato, sanissimo e di buone genealogie. Molto

resistente e facile da montare. Particolarmente adatto a endurance e trekking”.

Essere un purosangue è la massima aspirazione di noi equini, poiché siamo trattati col massimo della riverenza, sottoposti alle migliori delle cure, forniti del miglior cibo selezionato e possiamo correre in grandi pascoli. Io sono uno di quelli. Dovrei considerarmi l’essere più felice del mondo, anche perchè appartengo ad una scuderia dove sono ben voluto e dove non ricevo maltrattamenti di nessun genere, anzi. Ma c’è una cosa che mi manca, una sola, che non vale il prezzo di tutte le altre messe insieme. E’ vero che “chi troppo vuole nulla stringe”, ma sarei ipocrita a dire di essere felice, come sarei ingrato se constassi di condurre un’esistenza spiacevole.

Ma fremo, fremo nel vedere al di là del recinto cavalli che trottano al tramonto. E’ vero, non sono purosangue, si nutrono di tanto in tanto di quello che la natura offre, vivono in solitudine, ma cosa darei per trovarmi nelle loro condizioni: poter correre e sfidare il vento che scompiglia la criniera, essere baciato dai raggi del sole, assaporare ad ogni metro quella voglia irrefrenabile di non terminare mai la corsa che, oltre alla stanchezza, ti fa assaggiare quel gusto insaziabile ed infinito: la libertà! Ho provato a parlarne con i miei, ma non mi comprendono. Dicono che non c’è esistenza più bella di quella di trovarsi con la propria famiglia, amati dagli umani, ai quali, in cambio, devi solo offrire performance soddisfacenti durante le gare. Ma io non la penso così. E’ per questo che, avendo deciso di non parlarne più con nessuno, perché incompreso, vivo in solitudine, ammirando il tramonto e confidando che un giorno, almeno per un inesorabile attimo, io possa essere libero. I miei padroni sono preoccupati per me, mi vedono triste e solo, così hanno deciso di portarmi da un veterinario, ma, viste le mie ottime condizioni fisiche, hanno mal pensato di tenermi più tempo in scuderia, salvaguardato.

Così, per poter uscire di nuovo, ho dovuto dare in escandescenze. E’ stata la prima volta che mi sono ribellato ai padroni e i miei sono molto infelici per questo, ma non ho potuto farne a meno. Eppure per farmi felice basterebbe così poco: lasciarmi andare libero! Non sarebbe una grave perdita per la mia scuderia, poiché sono sì veloce, ma non vengo impiegato per molte gare. Penso sia ben voluto perchè preso a cuore da Trecy, che passa felice tanto tempo con me. Adoro quella ragazza, sa capirmi ed amarmi, ma non riesco a farle comprendere in nessun modo il mio desiderio. Sarebbe difficile anche per me doverla abbandonare, ma la libertà non ha prezzo. E’ un diritto di cui gli uomini, così come noi animali, devono tutti avvalersi. Così comincia anche oggi un nuovo giorno: sono svegliato dal chiarore della luce e dalla frescura del vento, quasi volesse invitarmi a sfidarlo, così non me lo faccio ripetere due volte. E’ l’ora in cui siamo lasciati liberi, così decido di correre all’impazzata, contro l’approvazione dei miei e sotto lo sguardo sconcertato di tutti, che si limitano a gustare erbetta o a trotterellare all’andatura calma. Io invece scalpito, mi dimeno e nitrisco furente: devo scaricarmi. Così prendo una rincorsa e, passo dopo passo, comincio ad acquistare velocità sempre maggiore: la stanchezza si fa sentire ed è proprio in questo momento che decido di aumentare. E’ una sfida contro il vento, contro la luce, contro la gravità, contro me stesso. Ma proprio nel momento in cui spicco il volo con la mente, ecco l’ostacolo maledetto: la staccionata. So per certo di dover rallentare a tale distanza, sufficiente a poter gradualmente frenare, ma decido di sfidarmi, così mi avvicino… ancora… ancora… fin quando un gran boato si propaga esplosivo in aria, quasi volesse rivendicare la mia libertà. E’ questo l’ultimo ricordo che conservo nella mente, ma devo averla combinata davvero grossa.

Mi trovo, ora, a sentire strane chiacchiere e ad essere toccato in un punto dove non sento nulla, ma che sento appartenere a me stesso. Non so perchè ho gli occhi chiusi, ma una strana stanchezza e pesantezza prende il sopravento su me, ancor più di ogni volontà. Non voglio cedere, non voglio cedere.

Così riesco a svegliarmi, non so dopo quanto tempo, ma un dolore mi trafigge le zampe, oltre che l’anima. Sono accanto a Trecy che, di tanto in tanto, mi rivolge una timida e compassionevole carezza. Devo essermi rotto le zampe anteriori. Così mi ritrovo a passare il resto dei giorni in questa condizione: sollevato da terra, solo e malconcio. Il mio scalpito è inutile, tale è il dolore. Così decido di arrendermi. Sì, mi arrendo. Ho passato la vita a rincorrere un ideale, del quale mi sono privato con la mia stessa forza. E’ inutile, il destino ha voluto questo per me e decido di farmene una ragione. Dopotutto non avrei dovuto pretendere troppo, dal momento che vivevo in pace e in salute. Ma nelle buie e gelide notti il mio martellante, ossessivo ed unico pensiero e scopo sono il vento, la luce e la gravità; quasi mi chiamassero insistentemente. Così, non potendo raggiungerli, mi lascio andare. I miei padroni sono davvero preoccupati: sono ormai magro, stanco e passivo. Un giorno sento la porta della scuderia scricchiolare e vedo entrare Trecy. Grano i suoi lunghi capelli, calore le sue gote, vento il suo respiro. Così immagino la libertà, come Trecy, che dolce mi accarezza. Ma questa volta non sembra accarezzarmi, anzi mi tocca le zampe. Mi scioglie le corde. Mi pone lentamente a terra. Mi libera. Sento di impazzire! Per un attimo sono incerto se fuggire via o rimanere, ma la condizione dei miei arti non è delle migliori. Nei giorni seguenti io e Trecy andiamo spesso al pascolo, finché un giorno ritrovo la mia condizione ottimale.

Ero quasi felice, avevo capito che le cose che si hanno non si apprezzano fino a che non ce ne troviamo privati. Ma lei, ad un certo punto, fece una cosa stranissima: aprì il recinto davanti ai miei occhi. Se mi fossi trovato in questa condizione tempo fa non avrei esitato un solo attimo a fuggire, ma non lo feci. Guardai negli occhi Trecy. Uno sguardo profondo, pieno di comprensione. Una grossa lacrima scese lenta sul suo candido viso e, guardandomi negli occhi, mi fece segno con la mano di uscire da lì. Aveva capito. Così avanzai verso di lei e docile abbassai il capo per un ultima carezza, dopodiché scalpitai, nitrii e abbattei i confini della mia vita: la libertà!

Vento, luce e gravità sono ormai le mie uniche risorse di vita e corro all’impazzata, nella speranza di riuscire a raggiungere il tramonto, ma non ho fretta. Una sola volta tornai indietro, alla scuderia, ma lo feci dopo tanto tempo. Vidi da lontano tanti cavalli, una delle quali doveva essere mia madre. Nonostante il tempo passato rimane sempre bella, nel suo candido manto.

Ma ecco che vedo una donna: grano i suoi lunghi capelli, calore le sue gote, vento il suo respiro. Trecy! Si voltò verso di me e si bloccò, mi riconobbe. Si avvicinò, distante quel solo metro in cui era piantata la staccionata. Tese una mano verso di me. Per un instante ebbi paura che volesse tenermi con sé, ma quando incrociai il suo sguardo compresi: era lo stesso di quel giorno in cui scelse di donarmi la libertà. Continuo la mia vita con lo stesso scopo, affiancato da un altra bellissima compagna che ha deciso di seguirmi nella rincorsa al tramonto.

Quanto sentirete il vento tagliente che muove docile il grano, ricordatevi di me, perchè il mio spirito vive eterno in quell’elemento. Prezioso elemento: la libertà!