I racconti del Premio letterario Energheia

Leila al buio_Veronica Giannini, Roma

_Racconto finalista nona edizione Premio Energheia 2003.

 

Scese dal treno alle 13.43. Intercity Bologna-Roma: dodici minuti di ritardo, come da manuale. Conosceva bene Roma, ci era stato molte volte, per le manifestazioni nazionali. Seguì tuttavia al dettaglio le indicazioni di Leila. Voleva arrivare il più presto possibile.

Prese il 27 al capolinea di fronte alla stazione, trovando subito da sedere. Dopo un accurato esame della fauna locale, scelse una signora dall’aria casalinga per domandare della fermata di p.zza San Giovanni di Dio. Passò una mezz’ora a studiare dal finestrino la città in pausa pranzo, poi decise di chiedere di nuovo, stavolta a un ragazzo mezzo addormentato in piedi, accanto alla macchinetta per i biglietti. Lo scelse perché aveva sulle spalle uno zaino Invicta blu e rosso identico al suo quando andava a scuola. Tra due fermate finalmente sarebbe dovuto scendere. Le pulsazioni cominciavano ad aumentare.

L’autobus lo lasciò di fronte al mercato, dove perse del tempo prezioso a cercare le banane. Le comprò infine piccole e verdi come piacevano a Leila, all’ultimo banco in fondo al primo corridoio, servito da una ragazza con l’accento dell’est, che gli diede le 4 banane e 2 euro di resto.

Seguì, poi, la scia di buste di plastica cariche di frutta e verdura, per la discesa di via Ozanam. Doveva arrivare in via di Donna Olimpia, al numero 35. Si attardò ancora qualche minuto ad osservare un cane che annusava un kiwi schiacciato accanto alla fontanella, e poi una piccola lapide poggiata alla base di un albero. Sulla lapide era inciso: Emanuele Priori, 12 giugno 1961 – 24 novembre 1980. Più di vent’anni e i fiori nel vaso erano ancora freschi.

Il 35 era un condominio a tre scale. Leila gli aveva detto: scala C, IV piano. L’ascensore lo condusse fino alla sua porta.

De Angelis, interno 8. Era arrivato. Si fermò qualche istante sul pianerottolo. Doveva legarsi la bandana. E dare un ritmo regolare ai suoi battiti. I rumori ora sarebbero stati importanti. Ne era consapevole, ed era pronto. Quasi pronto.

Un ultimo secondo per controllare la bandana. Non era stretta forte, ma copriva bene entrambi gli occhi così da non scorgere nulla. Da questo momento, espandere gli altri sensi al massimo.

Raggiunse con la mano il campanello, lo tastò con attenzione, poi suonò.

Nessun preambolo, nessun benvenuto di formalità. Nessuna parola.

Fu preso per mano e condotto dentro. Si lasciò guidare docilmente. C’era incenso nella stanza, pungente e dolce allo stesso tempo. E l’aria sapeva di chiuso e di intimo. Di vissuto.

Si tolse il cappotto, e Leila lo prese per riporlo. Le loro mani si sfiorarono. Per un attimo fu un bambino che aveva sorpreso il papà nascondere il regalo nell’armadio in attesa dell’arrivo di Babbo Natale.

Leila lo aiutò ad accomodarsi su una poltrona: accogliente, braccioli larghi, morbidi, quanto basta a non sprofondarci.

Sembrava coperta da un telo, forse uno di quelli in stile indiano, con disegni intrecciati e colori caldi e scuri. Ne aveva uno anche lui, ma lo teneva disteso sul muro sopra al letto, come un arazzo. Sedersi lo rese meno impacciato.

Finalmente Leila parlò, e la sua voce lo fece sentire a proprio agio. Scandiva ogni lettera, veloce ma ferma. Saggia.

Una leggera inflessione del sud. Al telefono non se n’era mai accorto.

Accettò un tè. Verde al gelsomino. Il suo preferito. Fresco in bocca, caldo nella pancia. Per la prima volta le sue emozioni erano più lente del suo cuore.

Dal tepore della poltrona sentì l’aria muoversi intorno. Leila era andata a prendere il miele per condire il tè. Si muoveva bene nella stanza. Sicura e disinvolta. Leggera. Statura piccola.

Poco peso. Capelli corti. Così l’aveva immaginata in quei due ultimi mesi.

Si forzò di cambiare pensiero, e bevve un sorso di tè. Non era nei loro patti, chiedere di vedere. Lo avevano deciso nell’ultima chat.

Tra loro, tutto, era avvenuto in chat.

Sei m o f? Cominciava sempre così. E se volevi, potevi barare.

Non aveva mai barato. O meglio, mai a lungo, mai sino in fondo. Due sole volte aveva risposto f, forse per contraddire Simonetta che, durante le loro liti di coppia navigata, lo accusava di comportarsi da ‘maschio’. Come se non lo fosse davvero, maschio. E così aveva voluto giocare, inventarsi un’altra identità, dare spazio alla sua indole femminile. Non si era divertito come immaginava.

‘Vanessa’, il suo alter ego f, era stata, subito, oggetto di attenzioni non richieste, spavalde, sfrontate. E lui aveva vissuto in prima persona l’irritazione del rimorchio subìto. E aveva capito le accuse di Simonetta. O così credette.

La notte in cui aveva conosciuto Leila, non era molto convinto della sua mascolinità, ma non aveva voglia di essere aggredito. Per cui, scelse il suo classico nick: Ent.

Aveva iniziato lui. F, e tu? Io m.

Si parte, nuovo viaggio, nuova meta. Quella volta ad attrarlo era stato il nick: Leila. Chiaro, dolce, femminile. Non sembrava inventato. Non era ammiccante. Era semplicemente Leila.

Da dove? Da Roma. Io Bologna. Anni? 28 e tu? 33. Superate le domande di rito, ora cominciava il gioco vero.

Ma il gioco non cominciò affatto. Leila lo stupì iniziando a raccontare di come quel pomeriggio aveva dovuto accudire un gattino su cui era inciampata sotto casa.

Capì subito che sarebbe stata una conoscenza lenta e impegnativa.

Ma non era importante, non chattava in quel canale solo per farsi una sega di tanto in tanto. A volte si dava appuntamento lì con persone che conosceva già, a volte si concedeva a nuovi incontri, scoprendo una disponibilità che neanche lui sapeva di sé.

Anche Leila non sembrava nuova alla chat. Scriveva rapidamente, e usava le parole con disinvoltura. Non faceva però uso di tutte quelle abbreviazioni tipiche, cmq, pvt, xò, tvb e varie altre storpiature. Ne fu piacevolmente sorpreso.

Si sentirono spesso, dopo quella prima volta. Quasi ogni sera. Senza mettersi d’accordo, si ritrovavano sul canale ‘Sex’s city’ dopo mezzanotte. Una volta gli era capitato di aspettarla per un’ora, e nell’attesa aveva chattato con una abituale conoscenza telematica, Domitilla, lingua che titilla. Come succedeva spesso erano passati subito alla pratica. Poche parole di saluto, e di assicurazione del desiderio reciproco, e iniziava la descrizione dell’abbigliamento indossato sul momento.

A quel punto lei cominciava a spogliarlo lentamente, mentre lui le carezzava i fianchi e le cosce, risalendo fino a giocare con i seni e i capezzoli. Con una mano digitava sulla tastiera, con l’altra nel frattempo si toccava da solo. Fino a venire.

Saluti di rito, e alla prossima.

Non era sempre così. A volte si chattava e basta. Pura eccitazione descrittiva.

Domitilla era già occupata a chattare con altri, o altre, quando comparve Leila nel canale. Non c’era motivo di raccontarle cos’era accaduto, sono cose che capitano, in quel canale.

Non c’é gelosia, non c’è possesso, non c’è imbarazzo. Eppure lui si sentiva a disagio.

In chat quella sera fu più ciarliero che mai, a giustificarsi.

Le raccontò di come, prima del suo arrivo, Priscilla e Intenso avessero dato spettacolo nella chat pubblica rincorrendosi con una serie di insulti e battute pesanti, e di come si fosse infilato tra loro anche Picchio, denigrandoli entrambi e dando vita ad una piccola orgia sadomaso. Di solito queste cose avvenivano in privato, c’era il master e lo slave. Si metteva un annuncio nello spazio pubblico, e si aspettava che qualcuno rispondesse in chat a due.

Lui invece non era lì solo per praticare. Era curioso, forse per i suoi studi, forse per desiderio di conoscenza di lati umani più reconditi.

E per la prima volta con Leila parlarono di sesso. Il gioco stava cominciando. Se ne accorsero entrambi. I toni della discussione si facevano più ammiccanti.

Leila: oggi sono stanca, ho le ossa tutte rotte.

Ent: dovresti andare a riposare.

Leila: si, hai ragione. Mi metti a letto tu?

Ent: volentieri 😉 però prima ti devi mettere la camicia da notte. O dormi nuda?

Leila: nuda, ovviamente. Ci vuole meno tempo, basta spogliarsi, e si è pronti per infilarsi sotto le coperte.

La spogliò e la mise a letto. Poi, si accoccolò accanto a lei.

Era eccitato, ma in maniera differente dalle altre volte. Pensò che fosse per il fatto di essere già venuto poco prima, nel veloce round con Domitilla.

In seguito, mentre carezzava Leila dolcemente, si rese conto che Domitilla non aveva nulla a che fare con la delicatezza della sua eccitazione. Era Leila, il suo modo di fare, come si lasciava andare guidandolo al tempo stesso, mossa per mossa.

Leila: prima dovresti levare la maglietta. Lentamente, a far uscire la testa.

Ent: e sfilare le maniche una ad una.

Leila: alzando prima un braccio, e accompagnando la stoffa elastica con la mano, a scivolare sulla pelle.

Ent: posso baciarla, questa pelle morbida?

Leila: sfiorala con le labbra… a farmi venire i brividi. Mi piacciono, i brividi sulla pelle.

Leila: posso giocare con i tuoi capelli? Sono così belli, lunghi e morbidi, che si arricciano sulle punte. Adoro i capelli lunghi nei ragazzi. Mi piace passarci la mano attraverso, e sentire come si districa tra uno e l’altro.

Ent: la sento, la tua mano. Ora è arrivata dietro l’orecchio, e scende rapida fino al collo.

Quella sera accarezzò Leila a lungo, e si fece accarezzare.

Non era la prima volta che gli capitava un rapporto virtuale di tenerezze reciproche, carezze, sfioramenti, sensualità. Senza arrivare al piacere estremo. Sentiva però un coinvolgimento maggiore, con Leila. Non si stava innamorando, no, questo non era possibile. Per quanto se lo fosse chiesto molte volte, si era dato sempre la stessa risposta. Amava Simonetta, ma questo non gli impediva di vivere in chat avventure di vario genere. Intriganti, profonde, intime. Tutte di sesso. Con Simonetta faceva l’amore, in chat praticava sesso, e conosceva persone simpatiche.

Ormai era chiaro però che Leila non era semplice sesso telematico, per quanto divertente e liberatorio, o passionale e frenetico, o freddo e programmato.

Leila era qualcosa che coinvolgeva più sensi.

Le sere successive la chat non gli bastò più. Raramente gli era capitato di desiderare andare oltre la chat, con qualcuno conosciuto sul canale. Forse una volta, con Arale Chan, una tipetta disinvolta e vivace che lo aveva perseguitato per settimane, tanto da fargli temere di essersi preso una cotta. Poi tutto era stato smorzato da una consegna di lavoro imminente che lo aveva costretto a restare in studio fino a tardi quasi tutte le sere. I loro rapporti in chat si erano diradati, e la distanza geografica aveva prevalso. Lecce era veramente troppo lontana.

La prima telefonata con Leila fu un disastro. Per lui.

Rideva, si scherniva, cercava di ritrovare i toni dolci e sensuali della chat, ma gli usciva solo un insieme di parole una dopo l’altra senza una meta precisa.

La seconda telefonata, qualche giorno avanti, fu come fosse la prima vera telefonata. Finalmente riuscì a essere sé stesso.

Paradossalmente la presenza di Simonetta nell’altra stanza gli fu d’aiuto. Doveva parlare a voce bassa, per non essere ascoltato, e questo gli permise di mantenere una tranquillità e una serietà maggiori, a vantaggio di una conversazione più intima e calda.

Sentiva che Leila riusciva a leggere ogni tono, ogni sfumatura, ogni inflessione della sua voce. E invece di metterlo in ansia, questa capacità di Leila lo rassicurava. Sapeva di essere compreso. Era una sensazione piacevole.

In chat ritrovò la stessa familiarità di sempre, con un tono in più di complicità. Le due forme di comunicazione si distinsero col tempo in modo netto, avvantaggiandosi a vicenda l’una dei saperi acquisiti dell’altra.

Al telefono le raccontava di sé, le domandava della montagna che sapeva, amava tanto, del cibo che preferiva, dei suoi gusti musicali. Nessuna quotidianità, nessun accenno a persone o cose reali e presenti.

In chat ritrovava la compagna di giochi affascinante e tenera, con cui condividere, emozioni e piacere, sottile e diffuso.

Ormai i pudori erano svaniti, e il rapporto con Leila si andava delineando, con sempre maggior precisione, senza per questo perdere di intensità.

Anche l’ultimo timore di poter innamorarsi di lei era svanito.

Leila non avrebbe messo mai in discussione il suo amore per Simonetta, e non si sarebbe mai legata a lui più di quanto necessario.

Sapeva, e ne era cosciente anche Leila, che una volta si fossero incontrati, e avessero riconosciuto i loro odori e i loro umori, una volta che i loro corpi avessero compreso l’intimità che li univa, una volta che il loro desiderio avesse ottenuto una risposta sensibile, e anche il tatto, il gusto, l’odorato, la vista fossero stati coinvolti, una volta accaduto tutto ciò, si sarebbero salutati.

No, la vista no. Accettò la proposta di Leila. Era un modo di proseguire il gioco. Aveva conosciuto Leila senza vederla, attraverso parole scritte su uno schermo. Ciò che gli piaceva di lei non era il suo aspetto fisico, ma la sua serenità, la sua sicurezza, la sua capacità di intuire e capire quasi ogni sua emozione, quasi ogni suo pensiero, soprattutto la complicità che riusciva a trasmettere nel descrivere ciò che vedeva.

Era cresciuto circondato da ragazze belle e appariscenti, con sua sorella che lavorava in un’agenzia pubblicitaria per modelle, abituato a godere di ogni forma di fascino estetico, tette piccole, tette grosse, mani affusolate e sottili, culi a mandolino, culi a pizzo, pance piatte e occhi grandi e fascinosi.

Non era quello che cercava ora in una donna.

Le propose dunque di raggiungerla a Roma il sabato successivo.

Leila lo rimandò alla domenica, sabato non poteva.

Nei giorni successivi qualcosa cambiò. Si sedeva al computer, impiegava più tempo del solito a selezionare gli mp3 per la colonna sonora della serata, variando tra Chet Baker e Bjork.

A Simonetta, indaffarata nei preparativi per la tesi di laurea, disse che andava a Firenze a trovare Gibbo, che stava giù per via della separazione con la moglie. Avrebbe dormito lì e sarebbe rientrato il lunedì mattina, in tempo per l’appuntamento delle 11. Non dovette dare altre spiegazioni.

Domenica mattina si alzò presto. Il primo pensiero da sveglio fu ricordarsi la bandana.

Lavarsi, sbarbarsi accuratamente, scegliere dopobarba, mentolato o aloe, vestirsi, fare colazione, preparare borsa con libro per il treno, bottiglia d’acqua, maglione in caso di freddo imprevisto, cd di Chet Baker. Ricordarsi bandana.

Si lavò, si sbarbò, dopobarba aloe, più dolce. Cambiò tre volte pantaloni, bevve solo un caffelatte, preparò la borsa, Popinga di Simenon, acqua del rubinetto, bottiglia piccola, felpa rossa con cappuccio, cd. Si ricordò la bandana.

Ora, seduto sulla poltrona, con Leila che parlava e intanto giocherellava con le dita della sua mano, per un istante sperò che quella bandana scivolasse via dagli occhi e tornasse a Bologna nel secondo cassetto dell’armadio bianco, in camera da letto.

Il calore delle mani di Leila tra le sue lo riportò a Bologna.

La bandana era ancora lì. Leila, anche. Dal vivo. Palpabile, annusabile, bellissima, anche attraverso gli occhi dell’immaginazione.

Si accostò a lei, le cinse i fianchi, la tirò a sé sulla poltrona.

Finalmente baciò le sue labbra reali, e le scoprì sottili e sporgenti.

Una delizia. Sentì la lingua umida di lei muoversi tra i denti, disinibita. Sapeva di fresco. Come primo assaggio non era male.

Propose di mettere un po’ di musica. E percepì una fitta di dolore al distacco del corpo di Leila dal suo, quando lei si alzò per cercare nella borsa il cd.

Poi Leila lo prese per mano, lo aiutò ad alzarsi e lo condusse da qualche parte che non riuscì a intuire. Tra loro solo la voce pastosa di Chet Baker.

Sbatté contro qualcosa di morbido e basso, e fu spinto a cadervi sopra. Con tenerezza, con decisione.

Cominciò a capire solo quando Leila gli si sdraiò accanto, a far combaciare le curve del corpo con il suo. Le cercò il viso. Lo trovò. Ne disegnò i tratti con le dita, seguendo angoli, avvallamenti e rotondità, più o meno, sporgenti. Aveva il naso piccolo, zigomi non rimarcati, sopracciglia folte. Non riuscì a non darle un colore dalla tonalità scura, marrone o nero, non importava. Comunque caldo.

All’improvviso fu preso dal panico. Leila gli stava sciogliendo la bandana dagli occhi.

Nero. Solo nero. Completamente nero. La stanza era immersa in un buio totale. Nessuna ombra, nessuna infiltrazione luminosa, nessuna luce. Impossibile vedere qualcosa.

Finalmente la sua pelle, il suo odore, il tepore del respiro.

Le tolse la maglietta. Seni piccoli, ognuno riempiva una mano.

Leila non parlava, sbottonandogli i pantaloni. Prima una gamba, poi l’altra. Lentamente.

La amò a lungo, con dolcezza. I sensi, più che il piacere.

Parole sussurrate, a non disturbare Chet, complice lontano.

Poi, esausto, la tenne stretta, e tratteggiò il suo ritratto.

Aveva ceduto. Aveva rotto il patto stretto con Leila in chat: non cercare di vedere. E invece lui aveva visto. Nell’immaginazione, ma aveva visto.

Si sorprese quando Leila lo baciò teneramente sulla fronte, e dipinse il suo volto, le sue espressioni, il suo sguardo, come se la stanza fosse illuminata da un sole chiaro, o da una lampada senza paraventi. Nessuno lo aveva mai descritto con tanta precisione, con tanta corrispondenza e profondità. Anche Chet, aveva smesso di cantare. Ascoltò il silenzio, stringendo Leila a sé.

Fu tempo di andare. I treni non aspettano. Simonetta neanche.

Radunò le sue cose, aiutato da Leila. Non si muoveva bene, aveva di nuovo la bandana sugli occhi.

La salutò sulla porta, con un abbraccio, un bacio sulla guancia, un senso di vertigine continuo.

Appena fu solo, in ascensore, si tolse la bandana. Il lungo buio lo aveva disabituato alla luce, e fu piacevole ritrovarsi in un ambiente piccolo e poco illuminato. Piegò la bandana e la infilò nella tasca dei pantaloni. Sentì che c’era qualcos’altro nella tasca. Cercò con la mano, e trovò un foglio di carta, ripiegato in quattro e ora un po’ sgualcito. Lo guardò. Carta più spessa del normale, come quelle da disegno a carboncino.

Non era suo. Non lo aveva mai visto prima e non sapeva cosa ci facesse nella sua tasca. Poi pensò a Leila. Pensò a uno di quei gesti che raccontati sanno di troppa romanticheria, ma a viverli scaldano e danno una sensazione di tenerezza. Lo aprì, una piega dopo l’altra, mentre l’ascensore arrivava al piano terra. Non c’era scritto niente. Lo girò, dietro, davanti, da un lato e poi dall’altro. Si accorse che l’ascensore era fermo, e uscì. La luce forte della mattina lo colse impreparato. Però, fu utile per guardare meglio il biglietto di Leila.

Sembrava letteralmente vuoto. Solo alcuni puntini in rilievo, a formare segni incomprensibili. D’istinto li sfiorò con i polpastrelli, lentamente e in sequenza. Era braille, lo capì subito, pur non riuscendolo a interpretare. Leila al buio. Leila e il suo gioco a non vedersi.

Sorrise. Ripiegò il biglietto, e si avviò alla fermata dell’autobus.

Forse, un giorno o l’altro si sarebbero risentiti, in chat. Visti, di certo, mai.