I racconti del Premio letterario Energheia

L’albero capovolto_Giorgio Ricci, Alessandria

_Racconto vincitore sedicesima edizione Premio Energheia 2010.

Quando lui mi ha lasciato si è preso la mia voce.

Ho sentito un risucchio nella gola, poi sono sparite le parole.

La gente al funerale mi guardava e attendeva.

Si aspettavano una minuscola frase di dolore, una risposta agli abbracci, un grazie sussurrato. Macchè, niente.

Non mi usciva niente.

Lui anni fa mi diceva: spero di morire un giorno prima di te. Gli sembrava inconcepibile vivere anche un solo minuto di lutto, di sofferenza. Una notte di solitudine se la figurava come una tortura. Forse ci siamo amati troppo. Ci siamo accarezzati ogni istante del nostro tempo.

Dovrebbe essere il mio turno, quindi. Ma ho il terrore che la mia ora non giungerà mai, una paura che stringe le viscere e che mi invade il cuore con il più grande dei dubbi.

Un giorno dopo l’altro vengo a sedermi qui, sul bordo di un canale che in questo punto si allarga un poco e si tramuta in microscopico lago. Un giorno dopo l’altro sono qui a depositare il mio silenzio e a guardare un albero capovolto.

Era la sua foto preferita.

L’acqua immobile, la riva che disegna una piccola curva, una fila appena disordinata di pali di legno immersi a metà, l’albero che si specchia, la sua copia reale che non appare.

Era un’immagine che un poco infastidiva, che ad un primo esame, quello di un’occhiata sbrigativa, sarebbe potuta apparire incomprensibile. Qualcuno la guardava e ammetteva: scusa non capisco. Ma come non dare ragione a chi l’aveva scattata, quella fotografia. Sembrava un dipinto. Chissà dov’è finita. Sarà stata eliminata come tutte le altre. Durante una vita i quadri si appendono e si staccano troppe volte. Ora che è vietato usare macchine fotografiche noi vecchi cono sciamo il tremendo rimpianto, si avverte il rimorso collettivo di non aver sottratto alla distruzione milioni di ricordi.

Lui voltava le spalle alla finestra, si appoggiava al davanzale e mi guardava.

Io stavo al computer, di fronte a lui, a un metro da lui.

Mandavo notizie alle amiche lontane.

La rete non esiste più da anni e a me sembra così strano aver fatto alcune cose, aver vissuto certi momenti. Scrivevo a persone che abitavano altrove. Alzavo gli occhi e gli sorridevo.

Lui mi guardava e mi passava la sigaretta.

Ne fumavamo una al giorno, dopo cena, mezza sigaretta a testa. Durante il passaggio le nostre dita si sfioravano, e quello era l’istante in cui mi confessava che gli stava girando la testa. Eppure ogni sera respirava un pizzico di nicotina, quindi spostava il peso verso il davanzale per non barcollare ed evitare un vago ma immediato senso di nausea. Calava un silenzio impregnato di fumo, lui girava lo sguardo verso il quadro che incorniciava il suo albero specchiato e diceva: quella è la mia foto più riuscita.

Poi aggiungeva una domanda a cui già rispondeva: che bella, vero?

Me ne parlava come se fosse stata la prima volta.

Io mi voltavo mormorando: quale. Sapevo a cosa si riferiva eppure mi piaceva farlo. Sempre.

Quale – ripetevo – dici l’albero a testa in giù? E ci scambiavamo un sorriso.

Era un rito. Una di quelle cose per le quali risultava tanto emozionante l’attesa quanto così distratta l’azione stessa: l’accendino, la cenere, le dita sulla tastiera, la foto in bianco e nero.

Sono cambiate tante cose ma l’albero è ancora al suo posto, l’acqua del canale perfettamente intatta, solo alcuni paletti si sono sgretolati e la loro fila sta prendendo l’aspetto della dentatura di un vecchio. La riva disegna la curva, lieve come allora.

Vengo qui, un giorno dopo l’altro, mi siedo sempre allo stesso posto, così ho la visuale della fotografia. Mi piace pensare che dove mi appoggio adesso lui quel pomeriggio si sia accovacciato per creare l’immagine dello specchio liquido.

La stessa porzione di terreno e pochi fili d’erba. Mi sembra di stare alla scrivania e di condividere una sigaretta, di averlo qui, appoggiato a una finestra fantasma. Quanti pensieri. Ho la testa piena di pensieri.

La mia voce si è spenta, così mi si affolla la mente. Devo credere che se la sia portata con lui, mi è più facile pensare che nel luogo in cui si trova ora possa parlare con qualcosa.

Con qualcuno. Con me.

Mi dico tante cose. Mi chiedo quanto quel giorno potesse essere azzurro il cielo. Intendo il giorno della fotografia. Ma azzurro o grigio non importa. Almeno in quel tempo c’erano le nuvole, tante e soffici e bianche. Almeno c’erano i temporali e la pioggia scrosciante e la neve. Ora tutto è marrone.

Un cielo di un marrone slavato, che rilascia una diffusione bronzea, dando così del mondo un’immagine antichizzata, sporca di senape. Un velo di senape.

Un autunno cupo, sporco, senza contrasti. Senza gialli, senza rossi, senza la rugiada sul verde.

Una pellicola rovinata dagli anni. Il sole opaco invia lampi color nocciola, attendo un tuono che non si farà mai sentire.

Forse lui ha perso il senno dopo la morte della natura.

Mi dico tante cose.

Questo è un piccolo luogo miracolato. Mi domando chi o cosa abbia preservato il canale e la sua acqua limpida, la sua riva gentile, l’albero il cui tronco, a metà corsa, decide di dividere il proprio destino in due strade, e tutti quei rami e poi mille ramoscelli e altri mille.

Le foglie, quelle non c’erano nemmeno nel quadro.

Da qualche giorno questo mio intimo scenario si è modificato con la presenza di un bambino.

Non so da dove provenga e nemmeno se l’abbia portato qualcuno. Bambini non se ne vedono più, in giro. Ho cercato di non agitarmi troppo, fingo indifferenza. Potrei giurare di non averlo visto arrivare dai campi abbandonati che da qui si perdono fino all’orizzonte. È apparso. È sbucato da non so dove. Un momento prima non c’è, poi spunta. Tutti i giorni la stessa storia. Non voglio spaventarmi, continuo a mentire esibendo un completo disinteresse per lui.

I bambini hanno commesso tante crudeltà, noi adulti abbiamo preso quella decisione assurda.

Non ne incontro uno da anni e infatti non lo sto guardando veramente, lo tengo là, in un angolo della mia visuale, intravedo solo una piccola massa e i suoi contorni sfocati, ma so che è un bambino, anche se non sbraita contro il cielo, non si riempie la testa di pugni, non butta nessuna cosa in acqua.

Forse è nato dopo il grande massacro.

Guardo l’albero mentre lui sta seduto sulla riva, presto me lo ritroverò un poco più vicino, un metro più vicino, magari ancora più accanto. Non devo curarmi di lui ma pensare a chi ha preso la mia voce. Le sigarette, le carezze e tutto il resto.

Il mio uomo è stato l’unico a notare che scrivevo parole invisibili. Può darsi che io lo abbia amato tanto proprio per questo. Accettava quella mia stravaganza con il sorriso e uno dei suoi abbracci più caldi. Gli parlavo e il mio indice partiva, scriveva nel nulla le parole che avevo appena detto. Lui mi chiedeva: cosa hai scritto? Io rimanevo qualche attimo stupita, come sospesa, poi ritornavo a lui. Credo mi abbia rubato la voce perché sa che posso scrivere nell’aria. Cosa mi serve parlare? Non ho più nessuno con cui parlare.

Penso, mi dico, scrivo parole con le dita. Contemplo un albero capovolto.

Lo guarderà anche il bambino? Oppure starà osservando me con il tipico disprezzo di chi ha combattuto una guerra perdendola? Io sapevo dei loro giusti perché ma non ho fatto niente, conoscevo i motivi del loro odio ma ho permesso che gli anziani facessero quella cosa terribile.

E ora un sopravvissuto sta guardando una vecchia che scrive nel nulla.

Si sta avverando ciò che temevo. Non si alza, non cammina, non si siede. Si avvicina a me e basta. Prima era là, ora è qui. La sensazione diventa impossibile certezza. Non fa rumori, non parla, non sposta. Nemmeno un fruscio. Ha oltrepassato il ponticello erboso senza farlo veramente. Avrebbe dovuto alzarsi, fare alcuni passi, strisciare i piedi sul terreno producendo il rumore di chi si alza e comincia a camminare strisciando i piedi per terra. Eppure ha cambiato riva ed è qui, a pochi metri da me. Sicuramente è scalzo. Sarà nudo, o quasi. Sporco. Il faccino nascosto dai capelli rappresi dal fango rinsecchito.

Non giro il viso verso il bambino, ma lo immagino. Ho sentito racconti di chi ha visto.

La caccia finale, l’ultima grande fuga. Erano così, senza vestiti e una sporcizia di mesi addosso. Magri, pallidi. Sconfitti.

Devo fingere, fortemente pensare che non esista, che non sia qui realmente.

Ho un albero da guardare. Ho cose da dirmi. Un uomo che mi ha portato via la voce da cui riscuotere ricordi. Se lui fosse qui, ora.

Per giungere al canale ho attraversato un paese fantasma: vecchi casolari in rovina, ferraglia informe in mezzo ai cortili, nei vasi fiori morti da secoli, una bicicletta senza ruote buttata in un angolo. Il silenzio. Porte scardinate, ai lati persiane divelte, in alto i tetti sfondati. La strada bombardata di voragini. Una fabbrica e le sue ciminiere piegate, i vetri spaccati sembrano puzzle impossibili da risolvere. Su un muretto tre corvi gracchiano svogliati.

Quanto avrebbe amato scenari simili. Vagava giorni per scovarli quando ancora erano una rarità, quando era arduo raggiungerli, e adesso che tutto il mondo è così lui è andato altrove, lui e la mia voce.

Nessuno mi ha spiegato come sia successo. Ai medici avrei voluto svelare il segreto, le parole assonnate che mi ripeteva tra le lenzuola. Ma non ero più in grado.

Non sopportava più il suo cervello, mi diceva e mi diceva.

Io stavo zitta, lui cercava di confessare il suo male.

Rimuginava troppo, quando cadeva la notte. Sentiva lavorare la sua mente.

Noi umani non ci accorgiamo veramente di respirare, deglutire, pensare: azioni che si fanno senza consapevolezza.

Quando posava la testa sul cuscino per lui, invece, cominciava il supplizio. Provava fastidio fisico ogni volta che rifletteva, considerava, inventava storie. Meditava sulla bontà dei ricordi, progettava idee. Non udiva più i rumori della notte.

Non udiva più il latrato dei cani e la malinconia rigeneratrice che gli infondeva quel brusio animale. Non udiva il fischio dei treni o il lontanissimo rombo di eliche nel cielo, suoni che acuivano il desiderio dei suoi viaggi più agognati.

Stava perdendo il senno.

L’ultima sera, ridendo amaro, disse che poteva chiaramente sentire rotelle dentro la sua testa. Piccole rotelle, arrugginite e taglienti, che gli ferivano la massa cerebrale.

Aveva perso il senno.

Gli tenevo la mano, ogni notte. Si addormentava e passava.

Quella volta mancai di farlo. Poi ho sentito quel risucchio.

Lui non c’era più. La mia voce non c’era più.

L’espressione di circostanza del medico era la solita. Ma non si è mai abbastanza pronti.

Ci guardavamo, io incredula, lui bonario. Troppo bonario, così il segreto l’ho tenuto per me.

E poi, come avrei potuto dirglielo? Scrivendo all’aria?

Il bambino è seduto accanto a me. La sua pelle bianca sfiora il mio vestito bianco. Comprendo solo ora, alla fine

dei miei giorni, quanto si usi a vanvera bianco per indicare colori che bianchi non sono. Siamo diventati pigri, troviamo scomodo aggiungere pallido al rosa, livido al grigio, rimpicciolire il giallo. Sarà perché abbiamo un tremendo bisogno di lavarci gli occhi con visioni linde. Le cosce del bambino, però non sono bianche. Semmai sofferenti, stanche, denutrite.

Hanno un velo di polvere terrosa che qualche macchia bagnata la rapprende in fango. Minuscole chiazze di fango.

Ha i piedi feriti, graffi, croste. Le unghie nere di chi fugge nei boschi spogliati dagli incendi. Di chi ha vagato, smarrito, tra le paludi.

Porta uno straccio legato in vita, un solo straccio del colore di questo mondo.

Vorrei raccontargli di un tempo, dei campi allagati, delle piantine verdi che spuntavano forti e fresche. E ovunque libellule, stormi di libellule, le loro ali a produrre quel caldo ffrrrrr che mi faceva sorridere di ingenuità. Al mio uomo premeva ammettere che la natura l’aveva salvato, reso libero.

Camminavamo in mezzo a milioni di papaveri, per me raccoglieva fasci di fiori rossi. Raccontava dei canneti in novembre, dei campi di riso già mietuto, campi dorati e percorsi da miriadi di ragnatele. Tempi in cui sentiva scorrere nelle vene qualcosa di sconosciuto. Ne aveva timore, era la sua più dolce speranza. Raccontava della brina in inverno, del sole che bucava la nebbia, del vento che si levava.

Cosa c’è di più bello, mi domandava. Cosa c’è di più bello, si rispondeva.

Come posso far capire a questo bambino cos’erano i campi di riso? Non esiste più, il riso.

Il mio dito volteggia. Riso. L’ho scritto decine di volte.

Congiungo le mani e le poso da qualche parte. Il bambino muove le sue e mi tocca. Ha mani gelide e bluastre, dita come mozziconi. Stringiamo il nostro incontro sul mio grembo.

Giunge il momento di guardarci. Era scritto da qualche parte.

È un bambino. Splendido. Non ricordavo fossero così.

Si sa, la bellezza più giovane affiora anche se c’è sporcizia e sofferenza. Credo sia maschio, non so dargli un’età, è finito il tempo in cui chiedevamo quanti anni hai bel bambino.

Mi guarda disperato eppure non ho mai visto occhi così vivi.

Ha le guance scavate di chi non mangia da giorni ma il suo viso è di un’armonia imbarazzante.

Si muove con estrema lentezza, trema un poco, mi sorride triste, non riposa da notti e notti.

Sulle labbra tagli profondi, oltre spuntano dentini che hanno già smesso di crescere.

Nella gola il mugolio di chi vorrebbe piangere ma non trova la forza di farlo.

Gli sfioro le spalle, lui capisce e abbassa la testa, dormirà sulle mie gambe.

Vorrei bisbigliare una favola, ma come posso?

Comincio ad accarezzargli i capelli, trovo piccole foglie morte, erba secca, grumi di terra.

Gli scrivo parole tra i capelli e guardo il mio albero capovolto.