I racconti del Premio letterario Energheia

La nuotata_Enrico Gandolfini, Brescia

_Racconto finalista ottava edizione Premio Energheia 2002.

 

Amava la montagna e amava il mare.

La montagna gli dava il senso della forza, dell’imponenza, della potenza; il mare, il senso della vastità e dell’infinito.

La montagna, con le sue altezze e asperità, rappresentava, per lui, la volontà con la quale l’uomo affronta gli imprevisti, le delusioni, le sconfitte, i dolori della vita.

Ma il mare, nella sua infinità, nel mistero della sua profondità, nel suo essere sempre uguale e sempre diverso, nell’assenza di riferimenti fissi e certi, era la vita stessa, era l’umana esistenza.

“La montagna è soltanto una parte del mondo emerso, caro il mio Vincenzo; il mondo al quale io e te apparteniamo, anche se viviamo in città, e sul quale camminiamo ogni giorno; il mare, invece, è esso stesso un mondo, finito, autonomo, indipendente, con le proprie montagne e le proprie pianure, con i propri animali, i propri alberi e i propri fiori; … e non c’è posto lì, per noi”; erano giunti alla fine del braccio lungo del porto e guardavano la pianura liquida stendersi all’infinito, nera come l’inchiostro; più nera del cielo stellato.

Per questo riteneva il mare più potente.

Quando raggiungeva cime e rifugi, sentiva l’inebriante vittoria della volontà; ma quando si lanciava in lunghe nuotate, o quando andava per mare con la barca, avvertiva chiaramente quanto piccolo e impotente fosse il proprio volere di fronte all’infinità di quella immensa distesa d’acqua.

Nuotava a lungo e si immergeva in profondità, ma ogni volta sapeva di violare un mondo non suo, di esplorare una terra ignota, straniera e potenzialmente ostile; anche se ci si trovava perfettamente a suo agio, capiva di non appartenere a quell’infinito universo liquido.

E quando rientrava a riva o in porto, aveva la certezza che, nonostante la propria bravura e la propria volontà, fosse stato il mare a concederglielo.

Ogni marinaio veramente tale, non il velista da regata, ma colui che nel mare getta le reti della propria quotidiana fatica e che dal mare pesca ogni giorno la vita per l’intera famiglia, conosce questa impotenza; e sente che solo alla benevolenza e alla imprevedibile volontà di quell’infinito universo d’acqua è affidata la propria vita.

Per questo i marinai spesso pregano a mezza voce, mormorando antiche e incomprensibili formule; per questo le loro barche e le loro paranze, sulle quali egli aveva imparato i nomi dei pesci e delle costellazioni, portano nomi di santi e solo nelle loro minuscole plance trova sempre posto l’immaginetta o la medaglietta del santo protettore, o la corona del rosario.

Non è superstizione, e nemmeno fede; è la consapevolezza della piccolezza della propria forza e della debolezza della propria volontà di fronte all’immensità e alla potenza di quell’incommensurabile distesa d’acqua.

Non Achab, ma ‘Ntoni Malavoglia è il vero marinaio; e nonostante un’avanzatissima tecnologia divida gli antichi naviganti dai contemporanei, quell’ansia, quel timore, quel senso di impotenza ancestrali che salgono dal mare, saranno sempre gli inseparabili compagni dei marinai di tutte le epoche.

Aveva attraversato il viale delle acacie, superato il ponte e piegato a destra verso la spiaggia, passando accanto al pozzo dal quale, da ragazzo, attingeva l’acqua con la sua piccola brocca di terracotta.

E ora si era sdraiato in fondo alla Marina delle barche, la spiaggia prima di Lentiscella, con la schiena appoggiata ad un enorme masso crollato dalla montagna centinaia di anni fa. Alle spalle, una grande grotta preistorica a due piani, che, da piccolo, il padre gli raccontava essere la casa di Mago Merlino.

Ora la grotta era recintata da una lunga cancellata di ferro, formata da lance appuntite e chiusa con un grande lucchetto; l’Università di Pisa si era accorta dell’esistenza di ossa preistoriche vent’anni dopo che lui e i suoi amici ne raccolsero a chili.

Era sdraiato e guardava l’immensa distesa d’acqua blu; un’ultima sosta, un’ultima immagine, prima di tuffarsi dal solito scoglio dietro la torre dello Zancale.

Lo Zancale è l’emblema, lo stemma, di Marina. E’ un lungo promontorio dalla forma, assolutamente unica e inconfondibile; sembra un enorme brontosauro preistorico sdraiato a pancia sotto per tutta la sua lunghezza, con il ventre e il dorso sulla terra ferma e l’interminabile collo proteso nel mare.

Proprio in corrispondenza della piccola testa, sta, simile ad una protuberanza ossea, un’antica torre saracena.

Quando, arrivando da Camerota, si giunge alla curva che immette sul lungomare, all’improvviso appare quell’enorme dinosauro di roccia, sdraiato alla fine di una lunga spiaggia a mezzaluna.

Avrà visto quel panorama un migliaio di volte in vita sua, eppure ogni volta, tratteneva il respiro.

Contro quell’enorme corpo termina la spiaggia di Lentiscella; da lì, per chilometri e chilometri, fino a Scario, poco prima di Sapri, la costa selvaggia, alta e rocciosa, è assolutamente inaccessibile via terra.

Solo per questo, e non certo per la saggezza degli uomini, la costa si è conservata intatta come quando la vide Ulisse.

Lui, con i suoi amici, saliva gli scalini scavati nella roccia sul fianco del dinosauro, percorreva il sentiero che attraversa il lungo collo fino alla torre, e scendeva sugli scogli sottostanti proprio all’inizio dell’insenatura.

Si tuffò dal solito scoglio, ma per andare oltre; nuotare per la prima volta nel mare profondo di Monte di Luna.

Appena riemerse, si tolse gli occhialini dal collo, se li aggiustò bene sul viso e cominciò a percuotere l’acqua con lunghe e cadenzate bracciate che gli consentivano una resistenza pressoché illimitata; quando smetteva, era per noia, o perché doveva, o voleva, rientrare; non per stanchezza fisica.

Le braccia affondavano ritmicamente nell’acqua trasparente illuminata dal sole; piccole bolle d’aria e piccoli vortici si formavano all’estremità delle dita e scomparivano trascinati dalla mano nel punto più profondo della bracciata.

Sotto scorreva il paesaggio marino; conosciuto, ma sempre nuovo: scogli dalle mille forme e dalle mille sfumature di colore, ricoperti di erbe e di muschio, frastagliati e butterati da innumerevoli buchi e incavi come una superficie lunare colpita da una pioggia di meteoriti, rifugi di piccoli e veloci granchi.

Incastonati come pietre preziose stavano centinaia di ricci scuri, minacciosi ed immobili, con gli aculei irti a difesa della loro fragile vita.

Anemoni di diverse specie ondeggiavano ritmicamente al vento delle correnti d’acqua; attaccati alle rocce, rossi pomodori di mare e altre forme vegetali simili a cetrioli marroni, erano preda di piccoli pesci che, con ritmici scatti del corpo, sbocconcellavano quegli strani ortaggi marini.

Branchi di orate vagavano lenti, mutando rapidamente direzione, alcuni piccoli pesci guizzavano veloci nascondendosi fra le strettissime fessure della roccia; i tentacoli di un polipo fuoriuscivano da un pertugio e tastavano guardinghi la superficie appuntita dello scoglio sommerso.

Ogni tanto una stella marina dalle cinque braccia rosse si stagliava nitida sulla roccia, ben sistemata fra il verde muschio e i ricci viola, come una spilla, o un fermaglio, che donasse una nota di originalità a quel variopinto abito d’acqua. La bracciata lenta gli consentiva di osservare la vita sommersa: non si stancava mai di guardare quello straordinario mondo marino, conosciuto e ignoto, amico ed estraneo, accogliente come un ventre materno, ma sempre pronto a trasformarsi in un orco gigantesco affamato di uomini e di barche.

Più al largo, gli scogli cedevano il posto a grandi massi crollati nei secoli dalla montagna; ma più avanzava nel mare e più essi si diradavano, lasciando alla sabbia uno spazio sempre maggiore.

Un improvviso e veloce rimescolamento della tranquilla distesa sabbiosa, il rapido nascondersi di un pesce: una sogliola, o un pesce ragno, o un’antracina dagli aculei velenosi.

A tratti, larghe macchie scure sorgevano dalla sabbia sommersa; distese di alghe ondeggianti rendevano improvvisamente buio e tetro il fondale marino.

Provava sempre un certo disagio a nuotarvi sopra; come se stesse percorrendo un misterioso territorio all’interno del quale fossero celate inaspettate insidie; forse perché da ragazzino gli avevano raccontato che quello era il nascondiglio preferito dalle murene, pronte ad azzannare rapide i bianchi polpacci dei nuotatori. Ora, naturalmente, sapeva che nessun pericolo si nasconde fra gli ammassi di alghe e, tuttavia, ogni volta che nuotava sopra quelle ampie e scure distese di erba marina, avvertiva sempre un certo timore.

Il letto sabbioso diveniva sempre più profondo; e, ad ogni bracciata, l’acqua si colorava di un azzurro sempre più intenso.

Aveva ormai oltrepassato l’insenatura dietro lo Zancaro e puntava al largo, verso Monte di Luna; forse senza accorgersene.

Sentiva il mare scorrergli sopra le spalle, sulla fronte e lungo i fianchi; sentiva le braccia bucare, con un tonfo leggero, la molle superficie e affondare nell’acqua, mentre il mare si richiudeva immancabilmente sopra di esse ad ogni bracciata.

Nuotava tranquillo; la respirazione era regolare come se stesse passeggiando; non vedeva più il fondo, ma non se ne accorgeva e continuava a nuotare distratto da lontani pensieri che gli affioravano alla mente.

Questo gli piaceva del nuoto: il tranquillo respiro ritmato gli procurava un effetto anestetico, un rilassamento del corpo e della mente, una serenità ed una pace che lo facevano sentire tutt’uno con la liquida distesa d’acqua e con la natura d’intorno.

Come strani pesci dal fondo buio del mare, riaffioravano alla mente lontani ricordi, episodi, voci, volti, perduti nella memoria e assaporava le differenti emozioni che il loro apparire riportava alla coscienza.

Se ne accorse all’improvviso, come se di colpo avesse riacquistato la consapevolezza di sé e del luogo in cui si trovava. Il fondo era scomparso; l’acqua era diventata di un blu pauroso, così intenso che non vedeva nulla all’infuori delle proprie mani, bianche come ossa per il riflesso del sole e il contrasto con quel blu uniforme. Sotto di esse, il nulla; era come se stesse nuotando nel vuoto, nello spazio buio, senza costellazioni, senza stelle, senza punti di riferimento che potessero guidare il suo cammino, o che potessero fargli capire dove si trovava.

Era un blu così assoluto che non lasciava posto a nient’altro se non alle proprie bianchissime gambe; non era un vuoto, era molto di più; era un pieno infinito, un pieno ossessivo, che occupava tutto lo spazio, che lo avvolgeva e lo stringeva da ogni parte, che gli toglieva il respiro.

Dove stava andando? A destra, o a sinistra? E in che posizione si trovava: diritto, o rovesciato, o non piuttosto di fianco?

E là sotto: cosa c’era là sotto?, dove terminava quell’abisso senza fine? E terminava in qualche punto? Ma era, poi, sicuro che fosse un abisso, o non si trovava, piuttosto, immerso in un cielo talmente alto da non poter più vedere né stelle, né pianeti?

Nuotava sulla superficie più bassa del proprio pianeta e, al contempo, nel più alto dei cieli di quel mondo sommerso, molto più in alto della più alta montagna marina; nuotava all’estremo confine di un universo d’acqua.

Si fermò; un senso di smarrimento e di solitudine, mai provato lo avvolse completamente; un’angoscia profonda, una sensazione di panico, si impadronì di lui; il cuore gli batteva forte, il respiro si era fatto affannoso e spezzato.

Girò su se stesso: nessuno; non una barca, non un bagnante, non un pescatore; il cielo limpido, senza nuvole, completamente sgombro: non un uccello in quell’azzurro intenso.

La costa era lontana e appiattita, rocciosa, deserta; il paese con le sue minuscole case, un piccolo segnale di vita che poteva tranquillizzarlo, era scomparso.

Era solo; di una solitudine che lo faceva sentire completamente separato da tutto il mondo circostante, estraneo, straniero; non riconosceva più le sue coste, le sue rocce, gli scogli e il mare a lui ben noti; si sentiva come un astronauta improvvisamente atterrato su un mondo ignoto e indecifrabile, un esploratore i cui parametri di conoscenza fossero assolutamente inservibili a classificare e ordinare quella nuova terra.

Guardò sott’acqua e vide solo le proprie gambe bianchissime che si muovevano pedalando aritmicamente, pendenti in un vuoto liquido. Non un pesce; non una qualunque forma di vita; solo blu, un enorme, spaventoso blu che lo avvolgeva da tutti i lati e che, con la complicità del cielo, sembrava volerlo rinchiudere in un vuoto senza spazio e senza

tempo.

Era sospeso nel mezzo di due spazi infiniti: il confine dell’uno era l’inizio dell’altro, e di entrambi non riusciva a concepire la fine.

Guardò ancora; sperava di poter intravedere una qualunque forma animale che testimoniasse l’esistenza di un’altra vita oltre la propria; ma anche la temeva: cosa poteva emergere, all’improvviso da quegli abissi?; quale specie vivente ignota poteva afferrarlo e trascinarlo veloce per sempre in quella profondità senza fine?

Meglio la presenza di qualunque animale, anche il più spaventoso, piuttosto che quel deserto disabitato, senza suoni e senza forma.

E gli sembrava che milioni di occhi lo stessero osservando; che milioni di strane vite dal fondo del mare lo guardassero, lui, quell’esserino bianco che camminava lento, là in alto, ai confini del loro mondo, sospeso al limite estremo del loro cielo liquido. Proprio come egli seguiva con lo sguardo, nelle notti buie, il puntino luminoso di un satellite solcare veloce lo spazio nero.

Era paralizzato, svuotato di energie, incapace di rompere il panico che l’aveva assalito; una sorta di abulia, di assenza di volontà, di sfinimento psichico che induceva un senso di inutilità rispetto a qualunque decisione e di indifferenza di fronte a qualunque conseguenza.

Ormai era certo che non sarebbe più stato possibile raggiungere la costa; peggio: non gli interessava nemmeno, aveva perso qualunque interesse per qualunque cosa.

Sarebbe rimasto lì, fermo, finché qualcuno non l’avesse visto; o sarebbe sprofondato, trascinato da un mostro che non proveniva dal profondo del mare, ma dagli abissi della propria anima.

Pensava di conoscerlo, il mare; lo rispettava e anche lo temeva, ma la sua dimestichezza con l’acqua era tale che si era creato la convinzione di avere con il mare un rapporto speciale, privilegiato; come se il mare gli dovesse qualcosa di più rispetto a tutti gli altri uomini.

Credeva di conoscere bene i pericoli dell’acqua; aveva sempre creduto che venissero dalle correnti, dal mutamento improvviso del tempo, dal vento, dalle onde, da qualche strana medusa urticante o dalla remota possibilità che uno squalo potesse avventurarsi in acque non abituali.

Non sospettava che il pericolo potesse nascere da dentro, silenziosamente infiltrato nel cuore non dal mare in tempesta, ma dalla tranquilla, immobile, infinita vastità dell’acqua; una vastità che sommerge e affoga l’anima prima ancora di inabissare il corpo nel blu profondo.

E immobile era ora anche la sua mente, incapace di formulare un qualunque pensiero, di comandare al proprio corpo un qualunque movimento.

Da dove proveniva quel terrore, improvviso, imprevisto; perché quella tranquilla distesa d’acqua che gli aveva sempre infuso tanta serenità, gli provocava ora quell’incontenibile paura?

Il lato oscuro del mare: solo ora ne aveva coscienza.

All’improvviso una visione fra realtà e sogno: un ricordo antico che proveniva dal profondo del tempo e che non era più riaffiorato alla memoria, gli occupò la mente.

Già la conosceva quell’angoscia, già l’aveva provata tanti anni prima e la ritrovava ora, in una situazione certo diversa, ma simile. Si sforzò, si concentrò e a poco a poco tremule immagini, evanescenti forme di uomini e luoghi presero corpo.

L’ultimo giro: lui che passa correndo davanti al suo allenatore e scuote il capo come chi sta per cedere, e l’allenatore che lo conosce e intuisce ciò che sta pensando, e che gli corre accanto gridandogli “ce la fai, ce la fai!… vuota la testa!… non pensare!… non guardare!… sei solo corpo… affidati solo al corpo…, libera il corpo… il corpo… il corpo!”.

Il ricordo era così nitido e così piantato nel profondo dell’anima, che impegnò tutte le proprie energie nella volontà di ripescarlo dal nascondiglio nel quale era rimasto tutto quel tempo.

Lo sforzo per non lasciarselo sfuggire era talmente grande, e la voglia di riviverlo talmente forte che, automaticamente e senza accorgersene, aveva ripreso a nuotare verso la costa, lentissimamente, quasi per aiutare le immagini a riemergere chiare alla memoria.

Era l’ultima gara dell’anno, la più prestigiosa; era l’ultimo giro, gli ultimi quattrocento metri, era allenato, era il più forte, aveva vinto tutte le altre gare; chi correva con lui, correva per il secondo posto. Ma lì, ora, proprio in quel momento, qualcosa stava per rompersi dentro: che ci faceva su quella pista, perché stava correndo, che senso aveva quella gara, quella sofferenza? Per vincere; vincere che cosa?, vincere perché?; e poi?; un’altra gara, un’altra corsa, un’altra sofferenza, un’altra vittoria? E poi?

Sentiva il cuore e i polmoni che gli schizzavano fuori dal petto, e un infinito bisogno d’aria che inondasse ogni cellula del corpo.

Un senso di inutilità lo assalì; un’insensatezza, un’assenza di motivazione, una spossatezza infinita e una gran voglia di fermarsi, di abbandonare tutto e di andarsene via, lontano.

Il blu infinito si rischiarava a poco a poco; sul fondo si intravedevano nuovamente le macchie scure delle alghe e il grigiore della sabbia profonda.

Sentiva che il corpo stava per disarticolarsi, che le gambe si stavano afflosciando, che le braccia stavano per giacere inerti a penzoloni lungo i fianchi.

Quegli ultimi quattrocento metri gli sembravano lunghi quattrocento chilometri; era inutile, non ce l’avrebbe mai fatta.

“Non pensare… libera il corpo!… libera il corpo!”; qualcuno urlava al suo fianco.

Con il viso contratto in uno sforzo immane, come se stesse spingendo il vagone di un treno, girò la testa di lato e vide il suo allenatore che lo rincorreva gridando all’interno del campo di gara; vide sul suo volto l’espressione della stessa rabbiosa delusione, dello stesso scoramento doloroso, che gli stava soffocando l’anima.

Lo fece per lui, glielo doveva, di sé non gli importava; e allora, senza sapere perché, forse per un riflesso condizionato di obbedienza, o per dovere, o per un debito di affetto verso il suo maestro, e contro ciò che voleva la sua stessa volontà, strinse i denti, liberò la mente, non pensò più alla stanchezza, agli avversari, alla distanza da percorrere e se ce l’avrebbe o meno fatta; non pensò più alla vittoria e nemmeno gli interessava più vincere; non guardò più nessuno; divenne il proprio corpo, si concentrò sulla respirazione, sul cuore e sulle proprie gambe; e li ritrovò, li sentì di nuovo suoi, sentì di essere nuovamente il loro padrone, sentì che li poteva di nuovo comandare e sentì che essi gli rispondevano.

Ai trecento metri aumentò l’andatura, aumentò la cadenza del respiro; la fronte era tesa, le guance sobbalzavano al ritmo imposto dalle gambe; ce l’avrebbe fatta, o sarebbe scoppiato lì in quel momento.

Ormai il blu era scomparso; l’acqua era ritornata azzurra e trasparente, il sole illuminava di nuovo il fondo. Riapparivano gli scogli, i pesci, gli anemoni, i ricci; riaffiorava il mondo vivente, guizzante, dai mille colori e dalle mille forme, che sembrava sprofondato per sempre in un blu spaventoso; la costa era vicina ed era ritornata sua; la riconosceva, roccia dopo roccia, bracciata dopo bracciata.

Non guardava più il fondo; non gli interessava controllare se quell’insopportabile blu fosse ancora presente, o se la vita stesse riemergendo da quell’abisso pauroso: nuotava e basta; sentiva solo le sue robuste bracciate, l’acqua percossa e violata e l’aria entrare ed uscire ritmicamente dai polmoni.

Ai duecento metri scattò, cambiò repentinamente il passo, come gli aveva insegnato il suo istruttore, s’inclinò leggermente per affrontare la curva; non si voltò a guardare gli avversari, non gli interessavano più, forse non c’era nessun’altro oltre lui sulla pista; c’era un solo avversario: egli stesso.

Davanti a sé vedeva l’allenatore sbracciarsi e gridare, vedeva il suo vecchio professore di ginnastica saltellare con le braccia alzate, vedeva i suoi compagni in piedi sulla tribuna urlare, vide suo padre che era venuto di nascosto sorridergli e parlargli dal bordo del prato interno della pista; ma non sentiva più nulla, non guardava più nessuno, non percepiva alcun suono: solo il rumore accelerato del respiro, il battito veloce del cuore, la tensione dei muscoli. Era tutt’uno con l’aria, con la terra battuta, con i piedi che accarezzavano veloci quel terreno artificiale rosso mattone.

Volò verso il traguardo e lo tagliò per primo; ma continuò la corsa ancora per un po’, adagio, a piccoli passettini, per godersi a fondo il piacere di quella grande fatica, mentre a poco a poco il boato assordante dello stadio gli penetrava nelle orecchie, gli avversari si avvicinavano esausti, il suo maestro e suo padre gli correvano incontro sorridenti, il mondo intero riprendeva la propria esistenza e l’usuale forma. Avrebbe rifatto quegli ultimi quattrocento metri solo per riprovare il piacere della paura, l’arrendersi al panico, e l’inebriante superamento dell’angoscia.

Risalì gli scogli che aveva disceso, non sapeva più quanto tempo prima, sotto la torre dello Zancale; si tolse gli occhialini, riprese fiato, si sedette sulla roccia e stette lì, immobile, con lo sguardo fisso sull’infinito universo d’acqua dal quale era appena emerso.

Si sentiva diverso, più uomo, più vecchio; come se fra l’inizio e la fine di quell’incredibile nuotata fossero passati molti anni della propria vita.

Ringraziò dal profondo dell’anima Vittorio, il suo vecchio allenatore, e, come un antico pescatore, ringraziò il mare per avergli concesso il ritorno.