I racconti del Premio letterario Energheia

La leggenda del comandante Colbham_Giovanni Nurcato, San Giorgio a Cremano(NA)

_Racconto finalista decima edizione Premio Energheia 2004.

Improvvisamente un uomo diede l’allerta. L’enorme nave, come sospinta da soffi umani, scivolando silenziosamente sull’acqua, entrò nella rada. Nonostante la nebbia rotolante e fumosa tutti poterono vederla bene.

A bordo poche smorte luci gialle. Il suo ventre gonfio non produceva il benché minimo rumore di macchine. Nessuno sapeva quanti uomini manovrassero là dentro poiché non se n’erano mai visti né sui grandi ponti di coperta, né agli oblò, né da alcuna altra postazione. Nemmeno uno… mai.

Man mano che avanzava, i contorni diventavano sempre più definiti e tesi. Navigava ormai tanto radente alla banchina che era possibile leggere la chiodatura delle lamiere dello scafo.

Anche le enormi incastellature di tubi sui ponti, intricate come un grande sistema vascolare a cielo aperto, erano diventate perfettamente leggibili.

La nave, completamente nera, era d’un nero opaco caliginoso per quanto alcuni particolari in ottone, la cui antica lucentezza era stata irreversibilmente mortificata dall’aria marina, rilasciassero, di tanto in tanto, smorti riflessi verdognoli.

Non v’erano sulle fiancate, o altrove, insegne, sigle o altri identificativi… né da alcuna posizione sventolavano bandiere o vessilli.

Procedeva così lentamente che il mare, doppio e oleoso, si fendeva al suo passaggio e le si richiudeva, dietro, senza sollevare una sola bolla di spuma.

Raggiunse, come ne avesse memoria, un punto ben preciso del molo e vi si fermò.

L’agitazione tra la gente in attesa, lì a S. Gàrdenal, diventò concitazione. Tutti sapevano della nave. Ognuno dei presenti ne aveva una sua idea ma nessuno s’era neanche lontanamente avvicinato alla sbalorditiva realtà. Rimasero, infatti, frastornati dalle sue stupefacenti dimensioni.

Ad un tratto un secco clangore d’organi in movimento scosse quella massa inebetita e attrasse in alto gli sguardi. Da una narice della prua venne giù, srotolandosi rapidamente, una pesante gomena di canapa grezza il cui capo bucò, trapassandola per un bel pezzo, la superficie dell’acqua. Gli uomini più prossimi ad essa la trassero sulla banchina e la avvoltolarono alla bitta di ferro nero, l’unica lì da presso, marcescente di viscido muco salmastro.

La fune si tese, divenne acciaio.

L’acqua, seppur impercettibilmente, saliva di livello attorno alla nave ricoprendo larghe chiazze di incrostazioni sulla chiglia, disvelandole, quando ne discendeva. Quelle spesse concrezioni grigiastre ricordavano le escrescenze purulente della pelle malata dei grandi cetacei molto avanti negli anni.

Il moto lentissimo, di tiro e rilascio del mare, produceva uno strano effetto ottico… Non era l’acqua ad apparire in movimento, ma la nave. Pareva aumentare e diminuire, gonfiarsi e sgonfiarsi. Sembrava ansimare come un grosso animale dolente.

L’alba era prossima e la gente, radunata nell’ampio slargo, antistante, il molo, era ormai in fermento. Oltre al freddo, un freddo umido e appiccicoso, un misto di ansia, paura, curiosità e trepida voglia di partire, teneva quegli uomini compressi gli uni contro gli altri. Erano in tanti di ogni razza, età e condizione, senza bagaglio, con i volti tinti del medesimo colore dalla luce grigia. Migliaia di occhi muti osservavano, stupiti, i profili della nave, le altissime murate senza ringhiere, le ciminiere le cui bocche sparivano nelle nuvole, i fasci di cavi tesi tra un ponte e l’altro, come corde di un enorme strumento.

Da così vicino, ferma da sembrare peduncolata al fondo, la nave ricordava un edificio in muratura, una vecchia fabbrica in dismissione, decadente, al cui interno, da chissà quanto tempo, non si produceva più nulla.

Per quanto tutti si interrogassero al riguardo, non si capiva da dove si accedeva. Non erano, infatti, disegnate porte sulle fiancate… perlomeno così pareva a tutti.

Nonostante la curiosità e il nervosismo, la gente rimase ferma, imbrancata come pecore, in attesa che si compisse il destino, qualunque esso fosse. Improvvisamente dal balconcino di prua apparve, bavero rialzato e berretto da graduato di mare, uno strano figuro.

Aveva capelli neri, doppi e opachi come crini di mulo, tesi alla nuca da un fermaglio da cui dipartiva una lunga treccia.

Aveva una fluente barba riccioluta, scriminata sul mento in due fedine che gli conferivano un’aura ambigua e mefistofelica.

Vedeva da un occhio solo… l’altro era stato spento da una spessa cataratta lattiginosa. Mostrava evidenti segni di stanchezza e di malanni mal curati.

– UHM!… – Mugugnò quell’uomo guardando da lassù i suoi prossimi passeggeri.

Un brusìo, provocato dal suo, improvviso, per quanto atteso, apparire gli risalì dal piazzale.

Tutti riconobbero il comandate Colbham. Lo riconobbero per istinto o per misteriosa atavica memoria poiché nessuno poteva averlo mai visto prima di quel momento.

Un bimbo, in braccio alla madre, svegliato dal vocio montante si eresse sul busto tanto bruscamente che la donna, sorpresa, dovette serrare di scatto l’avambraccio al corpo per non farlo cadere in terra.

– UHMM!… – Rifece il comandante osservando compiaciuto la folla. Conosceva bene l’effetto che faceva su di essa il suo apparire.

Si ritirò.

Giù in terra, intanto, si fremeva d’inquietudine. L’arrivo di Colbham, era sicuro, preludeva l’imbarco e con esso l’auspicato scioglimento di tutte le tensioni e perciò la pace. Da un minuto all’altro, calata dall’alto o vomitata da un qualunque orifizio, invisibile fino a quel momento, sarebbe spuntata una passerella per l’accesso a bordo. Ormai non si aspettava che quello.

Così accadde. La traversa di un paranco, con gran cigolio di carrucole e chiassaleria non lubrificata, sbracciò dalla tolda del primo ponte, calando rapidamente al suolo una lunga pedana di legno. Contemporaneamente una lamiera della fiancata, che tutti avrebbero detto saldata, ruotò su invisibili cardini interni, rivelando uno stretto portino, praticabile da un solo uomo per volta. L’accesso che tutti cercavano. Da quel buco spuntarono due, tre, forse quattro braccia, nessuno poté contarle tanto si muovevano freneticamente, che afferrarono la passatoia, ne agganciarono i rostri alle lamiere e si ritrassero più velocemente di come erano apparse. Erano appena sparite quelle grinfie misteriose appartenenti a corpi che ebbero cura, per chissà quale arcana ragione, di non mostrarsi alla gente, che dal portello spuntò Colbham, il comandante Colbham in persona. Immobile, con un piede sul tavolame e l’altro sulla passerella, come per saggiarne l’aggancio, l’uomo sovrastò con una rapida occhiata i suoi prossimi aspiranti compagni di viaggio. Scese poi rapidamente in terra seguito da un tozzo cane nero con, al collo, un grande, consunto collare di cuoio borchiato. Un cane, non in buona salute, dal pelo rado, opaco, le ossa delle anche e le coste visibili per la magrezza, occhi e naso cisposi.

Colbham, anch’egli molto male in arnese, con le mani nei tasconi della giubba cerata, serrate per il freddo, si fermò poco distante dal fronte dell’adunata e si eresse al suo massimo per valutare, ad occhio, il numero dei convenuti. Al suo avanzare la gente arretrò lasciandogli davanti un’ampia mezza luna di selciato.

Il cane annusò le calzature di alcuni uomini delle prime file poi andò ad orinare contro la bitta, dopo raggiunse il padrone e gli sedette al fianco.

L’impazienza della folla era arrivata al culmine poiché le operazioni d’imbarco apparivano ormai imminenti.

Il libercolo nero che Colbham tirò fuori dalla tasca interna del giaccone e mostrò a braccio teso, irrigidì tutti. Un silenzio spettrale saturò quell’alba umida lì, sul molo di S. Gàrdenal. Colbham lo aprì con fare da officiante, scorse le prime pagine come se ne cercasse una in particolare e, trovatala, vi annotò qualcosa. Con solennità, poi, ripassando col suo occhio, gli occhi di tutti quelli delle prime file, pronunziò a voce alta il primo nome. Il convocato, senza bagaglio, come tutti del resto, dal centro dell’adunata, con quattro salti gli fu di fronte.

– Sotto! – Gli indicò a voce bassa – … Come sali a bordo, scendi sotto. Nella stiva!

L’uomo chinò la testa e, senza voltarsi, s’avviò alla passerella per sparire nella nera cicatrice sul fianco della nave.

Uno ad uno, uomini e donne, chiamati per nome e cognome, obbedirono agli ordini di Colbham facendo flettere, sotto il peso dei loro passi frettolosi, le assi della passatoia.

– Sotto!… – Intimava agli uni.

– Sopra, sul ponte, in alto… – Indicava, con garbo, agli altri, secondo un ordine apparentemente prestabilito.

Col procedere dell’imbarco sia la stiva che le grandi camerate sul ponte rapidamente si riempirono. Le operazioni scorrevano con fluidità…

Un avvocato, un eroe, un ladro, un santo, una puttana, un cambia soldi, un barbiere, una cuoca, uno scolaro… a centinaia passarono il vaglio del comandante per sparire nei visceri del gigante nero. L’imbarco andava, come s’è detto, normalmente quando un uomo, un giovane, facendosi largo a forza di spintoni ruppe le fila e si parò davanti al comandante. Colbham non si scosse. Non era infrequente che qualcuno, pur non inserito nel suo elenco, gli si proponesse per essere imbarcato.

– Chi sei uomo? – Abbaiò Colbham. Quei fuori programma, per quanto ricorrenti, lo insolentivano non poco

– MURDOCK. GEREMIA MURDOCK comandante!

– Non ti ho nell’elenco MURDOCK. Perché sei qui?

– Devo partire. Devo partire Colbham! Prendimi a bordo

– Tu non sai ciò che dici uomo. Tornatene indietro. Eccezionalmente te ne do facoltà

– Ho detto che devo partire. Me ne assumo ogni responsabilità.

Qualunque sia la posta. Fammi salire su quella maledetta nave…

– Tu fuggi il noto per l’ignoto. Sei sicuro di ciò che fai?

– Non è un luogo che cerco, Colbham, fuggo dalla mia natura. Sistemami in quella nave… lontano dai bambini.

Colbahm lo fissò col suo occhio…

– Sei deciso allora?

– Sì!

– Non ci vuoi riprovare?

– SEGNAMI SU QUEL MALEDETTO ELENCO COLBHAM!

– Strillò l’uomo esasperato dalle esortazioni del comandante che, senza più indugi, calò lo sguardo e cominciò ad annotare, l’inferno solo sa cosa, sul suo taccuino.

In attesa del disbrigo delle pratiche per l’imbarco, Murdock, fremente d’impazienza, quasi senza pensarci, allungò una carezza al cane. Tutto accadde in un attimo. Non riuscì neanche a sfiorare la testa dell’animale che quello gli guizzò alla gola serrandogliela fra le mascelle in un inaspettato quanto esplosivo impeto di ira.

Colbham, sebbene con la coda dell’occhio avesse percepito cosa stesse per accadere, non era riuscito ad avvertire in tempo l’uomo di guardarsi bene dal toccare quella bestia.

Imprecò contro il cane e la sua infidia, contro l’imprudente superficialità di Murdock e, soprattutto, contro se stesso poiché quell’incidente, evidentemente non raro, s’era riverificato solo per la sua poca prontezza.

Si sfilò, adirato, la correggia di cuoio grezzo e s’avventò sul mastino ringhiante segnandogli la schiena di rabbiosi colpi incrociati, sferzando a ripetizione con tutto lo sdegno. Colbham conosceva bene quel demonio, sapeva che non avrebbe mollato facilmente, ma continuava a vibrare, con quanta forza aveva in corpo, forse solo per sfogare la sua rabbia.

La bestia trascinava, come un sacco vuoto sul selciato nero, viscido d’umidità, il corpo esanime del povero Murdock. Cessò di ringhiare soltanto quando il collo dell’uomo cedette ai morsi e alle strattonate, e la testa si staccò completamente dal busto rotolando sulla banchina, fin quasi in acqua. Non ancora appagato, il cagnaccio, scansando con l’agilità di una scimmia la cinghia del padrone, riuscì ad afferrare e strappare un tocco di trachea che penzolava dal cadavere lì in terra, e ad ingoiarlo avidamente dopo poche frettolose masticate. Colbham lesto, con un salto, approfittò per frapporsi fra la bestiaccia e il corpo straziato della sua vittima, fissandola dritto negli occhi con la cinghia puntata. Solo allora l’animale si chetò e parve ubbidire a quella muta intimazione. Arretrò col pelo ritto sulla schiena e si fermò all’impiedi, di lato alla passerella. Murdock, a quel punto, si rialzò… raccolse per i capelli il capo mozzatogli e s’avviò barcollante alla nave, verso il suo destino.

– Sopra! – Fece appena in tempo a dirgli Colbham, prima che sparisse nella porticina.

– Sopra Murdock! – Gli gridò ancora, per assicurarsi di essere stato ben inteso.

L’imbarco proseguì senza altri intoppi. Continuarono ad avvicendarsi davanti al comandante le figure più disparate…

Un musicista, un pensionato, una coppia di giovani sposi, un campione di lotta che pareva un titano. Tutti senza bagaglio, scivolavano nella ferita sul fianco della nave.

– Sotto! – Urlava Colbham a taluni, torvo…

– Sopra! – Diceva a tal altri sorridendo compiaciuto…

Tutti, proprio tutti, parevano essere saliti a bordo.

L’imbarco era completo. Colbham, come sempre faceva, scorse con l’indice, deformato dal mal d’ossa, le pagine del suo libriccino, una per una, per controllare di non aver dimenticato nessuno. Il dito si fermò su un nome, un nome, non ancora spuntato.

Anche questo, talvolta, capitava.

Guardò il piazzale ormai vuoto davanti a sé e proprio mentre si interrogava su dove potesse essere l’ultimo passeggero… lo vide spuntare dal di dietro di una catasta di scafi di legno in disarmo, sbiancati dal sole e dalle intemperie, ammonticchiati come un cumulo di vecchie ossa.

– Vieni avanti piccolino… forza che è tardi… – Gli disse con la voce più fi evole di cui era capace…

Un neonato non più alto di un barilotto da cinque pinte, stanco per aver dovuto affrettare il passo, grigio e avvizzito come un vecchio si fermò, come tutti, di fronte a Colbham e gli si rivolse.

– Dove vado, comandante? Dove mi tocca sopra o sotto?

– UHMMM… – Fece l’uomo pensoso… consultò il suo taccuino e gli rispose.

– Sopra. Tu vai sopra piccolino…

L’infante obbedì. Risalì, come tutti, la passerella, tenendosi alle corde per non cadere in acqua e, come gli altri, sparì nel nero di quel buco misterioso.

Colbham ora aveva finalmente completato l’imbarco. Annotò ancora qualcosa sulle sue carte poi tracciò un frego sotto quell’ultimo nome e vi appose una sigla. Ricacciò il taccuino nella tasca interna della cerata e prima di salire a bordo lanciò un’ultima occhiata all’areale deserto. Tutto era fermo, immobile. Solo un ciuffo di alghe filiformi, secche, rotolava a tratti sul molo, spinto da folate intermittenti di vento gelido. Era ora d’andare. Sciolse l’ormeggio, ridestò con un calcio il suo malfido compagno, acciambellatosi nel frattempo ai suoi piedi, e s’avviò alla passerella. Il botolo, al suo solito, scoprì i denti col pelo ritto, ma Colbham, pronto, gli rispose aprendo la giubba e mostrandogli minacciosamente la mano sulla fibbia ottonata della cinghia. Quella sola finta fu sufficiente a che l’animale con quattro salti si trafelasse a bordo, precedendolo. La passerella fu ritirata e il portello chiuso ermeticamente.

L’enorme, grandioso bastimento salpò. Lentamente, com’era venuto, virò verso il largo e mosse in direzione del sole.

Man mano che girava intorno al proprio asse, per puntare la prua verso il mare aperto, si produsse un prodigio. La nave, ruotando, cambiava progressivamente di colore. Vista dal molo, in quel momento, sarebbe apparsa, tutta bianca, d’un bianco che schiariva sempre di più, man mano che avanzava verso il largo. Il bianco mutava sempre più in biancore fino a che i contorni della grande sagoma si sfumarono tanto da fondersi col chiaro della luce del sole già alto sull’orizzonte.

Fuori dalla rada la nave era diventata assolutamente invisibile. Colbham, in alto mare, un mare chiaro, trasparente, brillante, seduto alla sua postazione controllava con dovizia carte nautiche e strumentazioni sotto lo sguardo sonnacchioso del suo cane, accucciato in un angolo sul pavimento di lamiera gelida e umidiccia. Ad un tratto la bestia calò il capo fra le zampe e s’assopì.

Nella stiva intanto, al buio, andavano spegnendosi gli ultimi grevi canti corali. Seduti in terra, gli uni contro gli altri, i passeggeri dormicchiavano. Trascorse così qualche ora e le lamiere, poco prima, ghiacce e umide, arroventate dai raggi del sole, diventarono pannelli radianti. Il caldo in quella stiva, era ormai a dir poco infernale, insopportabile e la temperatura sembrava ancora aumentare. Di contro a tanta sofferenza i passeggeri sul ponte di coperta, invece, si godevano beati, ognuno nella sua poltrona, il fresco della brezza controvento e la splendida vista del mare aperto.

La navigazione procedeva nella più assoluta tranquillità.

Giunse il tramonto. Colbham si scosse e ripiegò le sue carte.

La nave era quasi arrivata al Destino. Anche il cane, come percependo l’arrivo, ancora torpido, si levò. Si distese scrocchiando le ossa, trotterellò verso un palo appena fuori dalla cabina di comando e vi ci orinò contro, poi ritornò, scodinzolando, all’interno.

La nave si fermò.

Colbham indossò la giubba e il berretto e uscì all’aperto a guardare il mare sotto di sé… guardò l’orologio, scrutò lontano, poi fissò il cane. L’animale gli ricambiò l’occhiata e gli si pose di fronte con le orecchie tese come in attesa di ordini o che gli fosse lanciato un legno.

La gente a bordo, gente senza fretta, parve gradire quella pausa.

Qualcuno, dalla stiva, forse per il caldo insopportabile, forse per la curiosità di vedere cosa stesse accadendo di sopra, tentò di venire fuori dalla botola d’accesso ma, mani attente, guardinghe, misteriose, lo ricacciarono verso il basso in malo modo.

Colbham dalla torretta del terzo ponte, intanto, guardava lontano attorno alla nave, poi, guardò sotto di sé, a filo di murata, dove il pelo dell’acqua batteva ortogonale alla fiancata della nave, poi ancora l’orologio. Sobbalzò, finalmente stava accadendo qualcosa.

L’acqua cominciava ad incresparsi, a ribollire, a spumeggiare.

Giunte da chissà dove, centinaia, migliaia, centinaia di migliaia di orribili creature marine dalle forme più strane improvvisamente brulicavano attorno alla nave attaccandola freneticamente, spezzando addirittura i denti contro la chiglia.

Strane varietà di squali, orche gigantesche, serpenti, razze, torpedini e ogni altra forma di pesci carnivori, d’ogni specie e dimensione, s’ingrovigliavano, sotto lo sguardo compiaciuto di Colbham, schiaffeggiando l’acqua coi loro corpi. Si divoravano, l’un l’altro, in lizza per il raggiungimento delle postazioni più prossime allo scafo. Nello sforzo del serpeggiante dibattersi le femmine gravide partorivano la loro prole e la divoravano immediatamente per non averla contro nella competizione. Lo facevano lestamente poiché, non era raro che i frutti dei loro ventri tentassero, e qualche volta addirittura riuscissero, a sopraffarle per raggiungere la nave per primi.

Orribili squali, magri, con gli occhi globosi, chiari, maculati di nero, impazzivano di rabbia contro la chiglia di ferro, rigandola di inutili morsi coi loro lunghi denti giallognoli.

Molti, impattando, ciecamente, contro il ferro, vi morivano, subitamente, divorati dagli altri mostri intorno. L’acqua del mare oltraggiata dal vischio della pelle di quei pesci in guerra, dal loro sangue, dai loro umori, dai loro escrementi era diventata una scura bava ribollente.

Proprio sotto Colbham, dei pesci enormi, panciuti, biancastri, con pinne sottili e taglienti lottavano con due orche nere dai ventri candidi per il controllo della carcassa, riversa a pelo d’acqua, di un grosso squalo martello. Si sbranavano senza avvedersi che, nella foga della lotta, un branco di milioni di piccoli pesciolini acciaio brillante, grammo dopo grammo, portava via loro le carni oggetto dell’accanito contendere.

Colbham dall’alto mirava, stringendo col suo occhio ora su una scena, ora sull’altra, con crescente eccitazione.

– UHMMM… – Fece guardando il suo orologio senza sfere. Era ora.

– Vai! – Comandò al cane, vibrante, in attesa di ordini…

L’animale corse alla cabina di comando, saltò sulla consolle e, afferrato da un lato della bocca il pomo di una leva, la calò verso il basso. Immediatamente le lamiere delle due fiancate della nave scattarono in alto e i piani di calpestio, sia della stiva, che dei saloni sul ponte, s’inclinarono tanto da far cadere in mare tutti i passeggeri. Tutti indistintamente scivolarono giù.

Migliaia di corpi finirono in mare, un mare di denti, bocche rapaci, mascelle scattanti, di pinne unghiate, squame taglienti.

Qualcuno riuscì a non cadere aggrappandosi lestamente, per istinto, ad appigli di fortuna ma… mani adunche, dall’ombra, armate di lunghi bastoni sottili, pestarono le nocche serrate di quegli ultimi disperati fino a spezzarle. Tutti, alla fine, proprio tutti, furono triturati, molti, forse senza neanche toccare l’acqua, in quelle fauci ottuse, frenetiche, assassine. Non un brandello di carne umana andò disperso, non una stilla di sangue… un capello. Tutto fu assorbito da quel mare di orrori diventato un unico mostro con centinaia di migliaia di bocche. Il piccolo pesce, che coi suoi assalti s’era guadagnato un’unghia umana, finì fra i denti del più grosso e quello ancora nella pancia dell’altro più grosso e così via fino a che rimasero in campo solo i pesi massimi, coi ventri rigonfi .

Poco dopo tanto ribollire, il mare dismise il rosso mantello della guerra per ricoprirsi, ormai sedato, d’un velo d’acqua brillante fermo come una sindone mortuaria. Colbham seguì i salti di quelle ultime fiere fino a vederle sparire dove la luce della luna non arrivava e il mare e la notte diventavano tutt’uno.

– UHMMM! – Esclamò, lanciando in acqua ciò che rimaneva del suo sigaro e il taccuino nero, cui tanta attenzione aveva dedicato sulla terraferma. Accarezzò soddisfatto il collo e la gola del suo rognoso, fi do compagno, affacciato anch’esso alla murata, e valutò che era ormai tempo di tornare alle manovre.

Era ora di rimettere mano ai suoi strumenti fermi ed alle carte bianche spiegate sulla consolle di comando.

Pancia in fuori inarcò in avanti la schiena e, con le braccia ben tese all’indietro, si sgranchì le ossa. Tornò in cabina e per prima cosa riposizionò, verso l’alto, la leva abbassata da quel demonio in sembianze di cane, cosicché i piani e le lamiere delle fiancate, richiamate da invisibili meccanismi, tornarono al loro posto.

La nave ruotò intorno al proprio asse e ripuntò la prua in direzione di S. Gàrdenal. Era tardi, bisognava affrettarsi, un altro carico di passeggeri attendeva per essere imbarcato. Era necessario arrivare puntuali all’alba. Colbham trasse da un baule un nuovo taccuino nero e lo cacciò in tasca.

– UHMMMM… – Sospirò guardando lungo davanti a sé.

Poco dopo, alle prime luci del giorno, dal molo di S. Gàrdenal un uomo, da una folla muta in paziente attesa, diede l’allerta. Tutti poterono vedere spuntare, tra le nuvole basse e la nebbia rotolante… l’imponente sagoma di un’enorme nave nera.