I racconti "brevissimi di Energheia"

I brevissimi 2013 – La bambola di pezza di Umberto Gangi_Bressanone(BZ)

 Anno 2013  (I sette peccati capitali – l’invidia)

bambola1Pino Masapollo era indisponente. Ventotto anni, apparentemente disoccupato come tutti e sposato con Rosetta Macrì, una ragazza bella come poche, riusciva sempre a rovinarmi la giornata.

O almeno ci riusciva da sei mesi a quella parte.

Dopo essersi barcamenato per quindici anni tra occupazioni saltuarie e sussidi statali,  aveva improvvisamente smesso di cercare lavoro. Spariva per un paio giorni e ricompariva parlando di fortune e tesori.

Ci prendeva per scemi, Pino. Come se non sapessimo come si trova un improvviso “tesoro” in provincia di Crotone. Come se non potessimo immaginare che in quei due giorni altro non facesse che andare e tornare dalla Colombia per trasportare il carico di “tesori” altrui.

La cosa buona era che almeno quei viaggi (e quelle sostanze: volevamo davvero pensare che qualche degustazione omaggio non ci scappasse?) lo stavano minando nel fisico; in sei mesi sembrava invecchiato di quindici anni.

Anche la mente stava regredendo (i soldi improvvisi, evidentemente, davano alla testa).  Aveva preso il vizio di portarsi al bar un’orribile bambola di pezza, di quelle con i bottoni al posto degli occhi e la bocca ricamata. Quelle che, in casi normali, venivano imbottite con spugne o stracci ma che, visto come se la teneva stretta stretta, Pino Masapollo aveva pensato bene di imbottire con ben altro. Che fosse stato lui a cucirla ed imbottirla, non c’erano dubbi: era deforme da fare schifo e, particolare che mi dava fisicamente fastidio, aveva i capelli lunghi e raccolti in una coda di cavallo come quelli di Pino, che tanto piacevano a Rosetta (valle a capire, ‘ste femmine).

S’era fatto l’autoritratto?

Pensava, così, di fregare i doganieri due volte?

bambola2Ma la cosa che veramente mi faceva sfibrava ogni nervo era che lui con quella bambola ci parlava. Cominciava ad accarezzarle i capelli e giù a vantar fortune.

Quella domenica non fece eccezione. Pino era appena rientrato da una delle sue pseudomisteriose sparizioni. Entrò nel bar e ordinò il solito caffè. Vittorio, il barista, buttò lì un “Allora com’è andata?”

E Pino attaccò il suo solito ritornello:

“Bene! Me la sono cavata. Stavolta è stata veramente dura, temevo di non farcela”, disse con la voce di uno che ha appena scalato l’Everest a mani nude e facendo così abbassare ulteriormente la mia soglia di tolleranza nei suoi confronti. Non poteva almeno evitare di fare la commedia? Avere un po’ di rispetto per chi davvero si spaccava la schiena per venti ore al giorno per tutta la settimana? Non che ce ne fossero in quel bar, d’accordo, ma non era quello il punto.

Poi, per peggiorare la sua (o la mia) situazione, assunse il tono di voce idiota che un adulto usa per rivolgersi ad un neonato o ad un animale domestico e, parlando alla bambola dai capelli luridi, che la rabbia mi faceva sembrare ancora più folti, ricominciò:

“Ma siamo stati bravissimi noi, eh? Un altro doblone per il nostro tesoro, eh? Ancora un pochino e sarà tutto finito”.

Vittorio sorrise e fu l’ultima goccia.

“E smettila di sfotterci!” dissi.

Gli strappai la bambola dalle mani e la scagliai con forza fuori dalla finestra, facendola finire per strada. Con somma gioia il brutto feticcio finì nel raggio d’azione delle spazzole della macchina del lavaggio strade e fu da questa triturata e fagocitata.

Ero pronto a menar le mani ma la reazione di Pino mi spiazzò.

urlo1Lanciò un urlo straziato, crollò sulle ginocchia e, continuando a ripetere sempre più flebilmente “No… No… No…”, finì disteso, privo di sensi.

Vittorio si fiondò su Pino e chiamò subito il 118, chiedendo concitatamente l’invio di un’ambulanza.

“Ma cos’è tutto ‘sto melodramma?” chiesi “non ha spacciato abbastanza da poter ricomprare una bambola?”

Vittorio mi fissò con rabbia e incredulità.

“Spacciato?” – disse – “PINO era spacciato!”. Mise una mano sulla coda di cavallo di Pino e, tirando delicatamente, la sollevò scoprendo una testa completamente calva.

Sei mesi prima gli avevano diagnosticato un tumore al cervello, proprio mentre Rosetta scopriva di essere al secondo mese di gravidanza. Dopo due mesi di cure, era stato subito chiaro che Pino non ce l’avrebbe fatta e che, probabilmente, non sarebbe nemmeno riuscito a veder nascere quello che lui chiamava ‘il suo tesoro’.

Aveva già cominciato a perdere i capelli quando aveva scoperto che sarebbe stata una bambina. Era stato allora che aveva avuto l’idea della bambola: ci avrebbe attaccato, di volta in volta, i capelli che le terapie gli portavano via, lasciando alla piccola quanto rimaneva di sé.

Forse Vittorio aggiunse altro, forse no. Ricordo solo l’arrivo dell’ambulanza e l’agitazione dei paramedici.

Pino Masapollo morì quel pomeriggio.

Non era mai stato un tipo indisponente.

E io? Cos’ero stato, io?