I racconti del Premio letterario Energheia

In collegio non ho mai cantato_Silvia Stucchi, Antegnate(BG)

 _Racconto finalista ventunesima edizione Premio Energheia 2015.
Menzione Giuria ventunesima edizione Premio Energheia 2015.

matera

La minuscola chiesina di Saint Roc era un’oasi di fresca pace nel delirio dei festeggiamenti.

Parigi urlava, gridava, danzava, strepitava, in una ridda da togliere il fiato.

 

Il giovane uomo, non molto alto, ma con un nobile portamento, dal bel volto pallido e dagli occhi intensi e scuri, finalmente, seduto su una panca nel silenzio e nella solitudine, poteva respirare. E ricordare. E pensare.

 

La prima volta che gli era successa quella cosa era ancora a Milano; la stagione della Scala era appena cominciata, il primo atto del Don Giovanni era stato entusiasmante per scatto, vivacità, brillantezza, la serata era tutto uno sfavillio di candelieri accesi, di toilettes di signore ingioiellate e di allegre conversazioni mondane. Dopo il primo atto, era sceso in platea, per salutare una dama appena intravista nel folto delle acconciature, delle cappe, dei farsetti decorati, ma molto più doviziosamente incontrata la sera prima, quando ecco che l’aveva notato.

 

Del resto, era impossibile non vederlo.

 

La Rivoluzione, da quel volano formidabile che era stata per molti -e non solo per Monsieur l’Empereur, di cui quel giorno si festeggiava il matrimonio –  gli aveva, evidentemente, dato la possibilità di svestire l’abito religioso; e ora, il distinto signore bruno svettava, nella sua figura altissima e snella, in un’elegantissima finanziera nera da grande soirée, tagliata all’ultima moda da uno dei sarti più in voga del Carrobio; ma era lui, indubitabilmente lui, Padre Vincenzo. Era sempre bellissimo, il più bell’uomo di tutte le centinaia che gremivano la Scala, con quella perfezione algida, apollinea, di lineamenti, con quella figura elastica e insieme rilassata ed elegante. Il suo viso, di una bellezza aristocratica, quasi principesca, assommava la delicatezza e la grazia quasi femminee dei tratti, con una certa qual durezza d’espressione, che si rivelava  pienamente nel sorriso, dotato di una rigidità un po’ fredda e distante nella sua perfezione. Gli occhi verdissimi balenavano, come sempre, distaccati e ironici, con gli stessi lampi di quella fredda superiorità, apparentemente sorridente, un po’ crudele, un po’ divertita, che Alessandro aveva imparato a temere con ragione in collegio; ma era proprio lui, lui, lui, padre Vincenzo.

 

Ora si intratteneva amabile, con quel sorriso che solo uno sciocco, o chi lo conosceva superficialmente, poteva credere indulgente, con se stesso, con l’interlocutore, con il mondo; quel sorriso già mondano, e insieme furbo e freddo che Alessandro ancora bambino aveva imparato a conoscere purtroppo tanto bene; sorrideva e si intratteneva ora con una dama, alta e castana, dal naso appena aquilino, che portava, sull’ampia e candida scollatura, una strabiliante collana di zaffiri, con un pendente che, al centro, scivolava, per terminare con una pietra grande quanto una nocciola, fino giù al solco tra i seni. Padre Vincenzo fissava ora la collana, ora gli occhi azzurri della dama, certo complimentandola per il perfetto accordo fra la sfumatura delle iridi e quella delle pietre; e da ultimo, con  gesto agile e fluido, da gatto, che Alessandro gli conosceva così bene, si avvicinò a lei, diretto e felpato, e, con l’aria di voler toccare e soppesare quella pietra così preziosa e vistosa, e il travaglio del castone, le sfiorò il seno. La dama, lungi dall’essere indignata da quell’audacia, ne rise, atteggiando il volto a un sottile e finto disagio, e si coprì le labbra ben disegnate, carnose e rosse, con il ricco ventaglio, mentre Padre Vincenzo levava le belle mani bianche e affusolate da predicatore giusto all’altezza del volto, protestando scherzosamente la propria innocenza d’intenti, certo trovando le sfumature più basse di quella sua morbida voce di velluto.

Vista da lontano, la coppia era strabiliante per bellezza e grazia, tanto che sembrava di osservare un quadro di soggetto galante: la dama spiccava per le snelle rotondità della sua persona, e per la sfumatura cangiante dell’abito, mentre la figura di Padre Vincenzo, plastica e atletica, le lunghe membra eleganti, ricordava quella di un felino, rilassato ma insieme pronto, all’occorrenza, a scattare. E la serata aveva tutta l’aria di essere prossima a concludersi, per la giovane coppia alla moda, con un rientro clandestino su un elegante tilbury, verso un luogo al riparo da occhiate indiscrete, e tutto questo assai prima della fine del secondo atto del Don Giovanni.

 

Quella visione aveva invece scatenato una tempesta dentro il cranio dell’osservatore.

Alessandro prima si era sentito avvampare, riconoscendo il suo antico persecutore, che dai cinque ai sedici anni gli aveva reso la vita impossibile. Si era ripetuto che  non poteva riconoscerlo, non ora, non lì, non era più quel bambino timido, era un uomo, ormai. Ma nulla. All’inizio, ancora quel senso di caldo, si soffocazione violenta, di emozione tempestosa.

Poi, erano iniziati i brividi freddi.

Prima, la sensazione precisa di sentirsi mancare l’aria, come per una strozzatura all’altezza della gola, come se un groppo ostacolasse il respiro; poi, la cognizione, violentissima e imperiosa, della propria mortalità, imminente, e di quella del mondo, sentito come avviato a precipizio verso la rovina, mentre la testa gira, la vista si annebbia e si cade nel deliquio. Tutte le miserie del mondo, tutta la disperazione della sua condizione, tutti i mali patiti, erano presenti e come vivi, imperiosamente vivi agli occhi del suo animo, lo assediavano, lo riempivano di panico e terrore, lo soffocavano. L’assalto del suo male era di solito, e fortunatamente, di breve durata; simile a un temporale, passava dopo circa un’ora, a volte anche meno. Chi infatti avrebbe mai potuto sopportare più lungo una simile, tormentosa agonia? Di tutti i malanni e di tutti i pericoli quello era sicuramente il peggiore, e il più penoso: in tutti gli altri casi si è malati, ma durante un attacco di quel tipo, ci si sente davvero morire.

Per questo, il medico cui si era rivolto una volta – un buon dottore, esperto di terapie, e più ancora interessato alla varietà di quel guazzabuglio dell’animo umano, tanto che curava, a titolo gratuito, i molti teatranti di passaggio a Milano – aveva ribattezzato quel male “meditazione della morte”: talvolta, infatti, gli aveva spiegato, la mancanza di respiro stessa, causato dal panico e dall’agitazione, provocava la soffocazione. Il dottore gli aveva raccomandato di non lasciarsi mai, mai vincere dal male, di non perdere la calma e di cercar di confortarsi, anche mentre rischiava di soffocare, con pensieri sereni e forti: che se la morte ci vuol metter alla prova, noi possiamo eliminare la paura che ci incute pensando di conoscerla da lungo tempo, da quando siamo nati, e da prima ancora, quando eravamo in quel non essere che è in fondo la morte stessa.

Di solito, quei pensieri riuscivano, almeno in parte, ad attutire l’agonia: quelle esortazioni, silenziose nell’impossibilità di parlare a causa del fiato mozzo, riuscivano a placare la mancanza di respiro, che diventava via via semplice affanno, palesandosi poi a intervalli sempre più lunghi e distanziati. Se poi, come accadeva da quando era uscito dal collegio, non era solo a temere il soffocamento e la morte, ma accanto a lui c’era qualcuno che gli tenesse la mano riscaldandogliela, che gli parlasse piano, che lo tenesse abbracciato, anche solo un corpo femminile, una figura senza nome sicuro, destinata a dileguarsi poche ore dopo, l’attacco poteva passare anche prima, lasciandogli nell’animo una spossatezza estrema, mista a un dolce senso di consolazione.

 

Ma quella volta, no: quella volta era diverso: alla vista del suo persecutore, dell’origine di tutti i suoi mali presenti e persistenti, non c’era stato pensiero nobile e forte che avesse potuto tranquillizzarlo facendo muro all’urto di quell’attacco; era paralizzato dalla soffocazione e dall’odio che l’aveva sopraffatto, e solo Ugo e Arrigo avevano potuto riportarlo, quasi a braccia, nel palco, prima che perdesse i sensi, mentre Don Giovanni, dopo l’estrema umiliazione all’amore dispensato a piene mani da Donna Anna, concludeva il suo festino di fronte allo spettro del Commendatore.

 

A diciotto anni, dopo più di due lustri di educazione religiosa, Alessandro era uscito dal collegio, corazzato da un odio feroce e inveterato, incistato e come incancrenito contro i sacerdoti, i religiosi, la Chiesa e tutte le sue espressioni.

A diciotto anni, trovarsi orfano e padrone di un patrimonio, ancorché non vasto né cospicuo, e poter essere libero, libero di mostrare le proprie poesie e i primi esperimenti letterari al Monti, e di libero uscire dopo cena senza rendere conto a nessuno, per vedere e vivere la notte milanese col Foscolo, e con quel simpatico notaio, Tommaso Grossi, e con le charmant Carlin, come lo chiamava Arrigo, passare per il Verziere e offrire una rosa alle belle fruttivendole e verduraie; tutto questo gli pareva l’espressione di una libertà inebriante e tutta dovutagli, come una rivincita che s’era guadagnato dopo tanti anni di lento logoramento in un martirio quotidiano.

 

In casa sua, i parenti erano sempre stati fieri, burberi, arcigni, e imbronciati. Pareva che gli rimproverassero un gran fallo, per cui non c’era perdono possibile, e in ragion del quale fossero in ragione di tenerlo a distanza, anche se aveva solo quattro o  cinque anni. Come poteva, come avrebbe potuto, in quella situazione, far torto a sua madre, accusandolo di averlo abbandonato in quella casa fredda e piena di ombre ostili? Quando l’aveva poi rivista, a Parigi, malgrado fossero passati quasi quindici anni dal loro ultimo incontro, non l’aveva trovata invecchiata. Al contrario, ancorché nel lutto e nel pianto, donna Giulia serbava un volto fresco e pieno, il volto di chi aveva molto sorriso negli anni precedenti, il volto di una donna che piangeva colui che molto aveva amato e che molto l’aveva amata, e con molta gioia l’aveva ripagata di grandi dolori.

Sua madre, in casa Manzoni, sembrava sempre una poverina toccata anzitempo dalla sciagura e dal dolore: i lineamenti fini e delicati dei de Blasco sfiniti e come sfigurati dai pianti continui, le occhiaie profonde e gli zigomi rilevati sopra le guance, un tempo floride e piene, ma il cui profilo era incavato e reso mancante da una lunga estenuazione. C’erano, nell’apparenza e nel contegno di donna Giulia, i segni di un’angoscia ricorrente, di una grande passione, e di un languor mortale, che si rivelavano in quel colorito spento, sbattuto, smorto e pallido che risaltava ancor più sotto la massa dei capelli biondo-rossicci. A Parigi, invece, il figlio l’aveva insperabilmente ritrovata come una giovane donna nel pieno della maturità, con quell’aria piena che faceva pensare all’ultima bellezza dell’estate, e questo grazie all’amore per e dell’Imbonati, dispensato a piene mani per anni, non certo grazie al cognome o al casato dei Beccaria.

Solo quel cognome, è vero, conosciuto e venerato nelle cerchie e nei salons della République del Lettres, aveva potuto far accogliere una coppia di provinciali della piccola nobiltà milanese fra gli intellettuali parigini più raffinati.  Ma, se quel cognome, Beccaria, aveva spalancato a Maman tante porte a Parigi, a Milano quel casato, e quel padre, le avevano garantito solo una miseria da signori: la sua dote impegnata, i beni della madre venduti o usati per pagare le spese, le camicie di seta e le carrozze per il figlio di secondo letto del padre, e, infine, il matrimonio, svogliatamente imposto e ancor più svogliatamente accettato, con il conte Pietro.

Alessandro aveva avuto a suo tempo, per le mani, la copia – una delle molte circolanti in Milano – di una lettera che la giovane Giulia, disperata, aveva indirizzata a Pietro Verri, l’antico amico di famiglia, raccontandogli come il marito e tutti i suoi nuovi parenti, animati da sacro zelo, fossero ben determinati a procurarle il Paradiso in cielo a forza di patimenti infernali in terra.

Povera maman, ridotta, senza un parente, senza un amico, a scrivere a Pietro Verri, perché memore dei suoi antichi legami con il padre Cesare, e anche perché era sempre stato il solo ad andarla a visitare negli anni tristi passati in educandato dalle monache capelùne.

Quella lettera, diffusa con gioia pettegola e feroce in molte copie, e copie di copie, e a lungo circolata pei salotti intellettuali dei nobili e dei buoni e doviziosi borghesi, aveva singolarmente deciso del destino di Giulia, da un lato guadagnandole la commiserazione di tutta la bella società progressista, pronta a compatire le sorti della povera contessina, abbandonata da padre e precipitata, per ironia della sorte, lei, figlia del più illuminato cervello milanese, nella famiglia forse peggiore della città per oscurantismo retrogrado e bigottaggine.

Ma, d’altro canto, quella stessa lettera, a fronte della compassione velata e lontana, così poco partecipe e fattiva dei molti simpatizzanti per la causa della dea Ragione, aveva definitivamente alienato alla povera Giulia la pur remota speranza di trovare presso la famiglia Manzoni una qualche forma di affetto, di corrispondenza, forse di pietà. Le sorelle zitelle, zitelle e bigotte, del conte Pietro, iniziarono, infatti, a contrattacco di quella trista fama di domestiche persecutrici della dolce Giulia, a spargere fra le pinzochere loro pari, assidue frequentatrici di messe e di crocchi di comari, la nomea di cervellino bisbetico e intrattabile ai danni della cognata. La quale non si era dimostrata né degna né consapevole della gran bontà del conte Pietro, loro fratello, che l’aveva sposata tirandosela in casa quasi senza dote. Ma che! La gratitudine non è cosa di questo mondo, e, anzi, voler far del bene a certa gente è un voler raddrizzare le gambe ai cani, un comprarsi gli impicci in contanti.

Il destino di Giulia, e di Alessandro, era così stato segnato da due lettere, prima quella a Verri che aveva esacerbato le infelicità coniugali e familiari della giovane, e accelerato insieme la necessità della fuga. La seconda lettera era invece stata proprio quella che la madre gli aveva lasciato prima di fuggire a Parigi con l’Imbonati, e che Ninetta gli aveva letto con tono insieme solenne e cospiratorio, nella segretezza della sera che diventava notte: “Mon cher Alexandre, so che sto per compiere un’azione orribile, perché imperdonabile può apparire, secondo il metro del mondo, il gesto di una madre che fugge il dolore abbandonandovi l’unico figlio; ma so anche che tu, crescendo e sperimentando l’insostenibilità di questa prigionia che chiaman “famiglia” e “affetti famigliari”, capirai sempre meglio il mio gesto, e non potrai disapprovarlo, se crescerai da uomo retto e giusto. Ora, le leggi degli uomini, di cui tuo padre è un così esatto e strenuo custode, non mi permetterebbero mai di portarti con me, lontano da questo deserto popoloso che per me è ormai Milano. Quando però sarai libero e adulto, quando potrai, allora mi raggiungerai, e ti prometto che non solo non ti abbandonerò più, ma che vivremo insieme in un posto più lieto della tua casa. Solo questo pensiero – non voglio chiamarlo “questo sogno” – rende tollerabile la partenza a una madre sola, orbata dell’unico suo conforto. Con immenso amore, tua madre, le cui lacrime ancora ti chiedono perdono”.

E come poteva dare torto a sua madre? Già la missiva a Pietro Verri chiedeva, anzi, mendicava consolazione. Ma quale consolazione poteva dispensarle l’equilibrato, l’illuminato, il posato Pietro Verri, impegnato nelle cure del governo cittadino, dove sedeva sino a tarda notte, immemore persino della propria casa, se non quella commiserazione generica, intrisa di pietà e insieme distante e remota, che si riserva a chi ci intenerisce, ma alle cui sciagure non possiamo porre alcun rimedio?

Quello era, del resto, anche il consueto atteggiamento che maman stessa aveva nei confronti del figlio bambino, quasi a replicare quanto era stato a lei serbato. Un grand’affetto, mitigato da una vena di dolore profondo e mal dissimulato, la spingeva così, certi pomeriggi, con gli occhi ancora lucidi di pianto per chi sa qual contesa con le cognate o con lo zio canonico, a concedere al piccolo Alessandro chicche e regalucci senza fine, e insieme carezze tristi e malinconiche.

Ricordava giusto un pomeriggio, in cui il conte Pietro era uscito per badare a non sapeva qual grand’affare che aveva richiesto il suo personale e pignolesco intervento, e quando lo zio canonico pure era impegnato in chi sa quale solenne uffizio in Duomo. La casa era vuota, e nel silenzio Ninetta – la cameriera personale della contessa Giulia, un tempo pescivendola al Verziere, una brunetta svelta e vivace, capace di inventare strabilianti favole per il piccolo Alessandro, e racconti della grande Peste di San Carlo- l’aveva pettinato con cura e raccomodato per bene, come per una festa a lungo promessa e infine arrivata, e l’aveva fatto entrare nel salottino privato di donna Giulia.

Maman sedeva nella sua solita poltrona dall’alto schienale, e di fronte a lei era accomodato un giovane signore, elegante e fine nei tratti. Sui loro volti aleggiava l’aria malinconica, eppure condita da un certo familiare sorriso, di due amici, che, non per volontà loro, non si son più visti per lungo tempo, e che, a dispetto delle circostanze avverse, avrebbero avuto e ancora avrebbero molto da dirsi; ma pure, la grande familiarità sopperisce al silenzio delle bocche. Il giovane signore teneva, come soprappensiero, fra le sue la mano di Giulia, che gliela lasciava stringere con un abbandono che anche l’inesperienza di Alessandro colse come più forte dell’amicizia, e intanto gli rivolgeva, e ne riceveva in risposta, un sorriso mesto e dolcissimo. Tosto che il bambino fu sulla soglia, i due si volsero a lui, e maman, con la sua voce più dolce e soffice, gli disse, per la prima volta in italiano, in lingua, come si soleva dire: “Alessandro, siate buono: venite a dare un bacio al signor Giovanni Verri, che torna da un lungo viaggio apposta per salutarvi”. Il bimbo aveva obbedito, come stranito al pensiero che un giovane cavaliere elegante avesse interrotto qualche piacevole e magari avventuroso vagabondaggio nel mondo per venire in quella casa buia e triste, dove nessuno rideva mai, a visitare proprio lui; ma pure, obbediente, si era staccato dal contatto caldo e consolante di Ninetta, che, china sul piccolo, gli teneva le mani appoggiate sulle spalle, e aveva posato le labbra sulla guancia profumata e liscia dell’elegante visitatore, dicendogli, compunto e cerimonioso: “Buon pomeriggio, signor Verri, e ben arrivato in casa Manzoni. La vostra presenza onora la nostra dimora e le dà lustro”. E poi, aveva sostato brevemente fra i due, nello spazio fra le poltrone, davanti alla finestra, mentre Giulia e il visitatore gli scoccavano certi tristi sorrisi, intrisi di malinconica nostalgia per qualcosa che Alessandro non aveva ancora conosciuto, qualcosa che poteva essere e non era stato, che potevan dargli e non gli avevan dato, come se solo con quel povero mezzo potessero compensare un gran torto che gli avevan fatto a sua insaputa.

Poco dopo, quando Ninetta lo aveva riportato nella sua stanza, gli aveva fatto giurare, “sull’altare della Madonnina dell’aiuto” (strano! Perché Ninetta in chiesa ci andava gran poco!) che mai mai e poi mai si sarebbe lasciato sfuggire una sola parola di quella visita, né con il conte padre, né con lo zio canonico, né con le zie beghine, pena una gran punizione per lui, ma soprattutto per donna Giulia e per Ninetta stessa.

V’è dei momenti che l’animo dei giovani e dei piccoli è singolarmente e facilmente disposto a compiere qualsiasi cosa che gli sia richiesto con affettuosità, pur che abbia una qualche parvenza di bene, e di sacrificio. Il piccolo Alessandro non aveva aperto bocca con nessuno a proposito di quel cavaliere, ma per molti anni, e ancora in quel momento, seduto su quella panca solitaria nella chiesetta gelida di Saint Roc, si domandava come mai maman potesse avergli presentato quello sconosciuto dal sorriso triste e dagli occhi dolci e buoni come “il Signor Giovanni Verri”, quando lui stesso sapeva benissimo, fin da piccolissimo, che i fratelli Verri erano solo due, Pietro e Alessandro[1], autore quest’ultimo, di un bel romanzo divertente con protagonista una poetessa greca che, certe volte, quando era allegra, maman gli leggeva dopo il sonnellino pomeridiano[2].

Di lì a poco, però, Alessandro avrebbe perso comunque sia la madre che Ninetta: la prima, fuggita con l’Imbonati, la seconda, licenziata dal conte padre, ufficialmente perché l’assenza della contessa Giulia, e il tenore di vita delle sorelle beghine, improntato a una generale e cupa spilorceria, non rendevano più necessaria né giustificata la presenza a palazzo di una cameriera-guardarobiera esperta di acconciature e cappellini all’ultima moda.

Alessandro non aveva mai fatto un torto alla madre per quella fuga: lui stesso, se solo avesse potuto, sarebbe evaso da quel carcere odioso.

Il gran cambiamento della sua vita di bambino gli si era annunciato un tardo pomeriggio dì primavera, quando maman non era scesa a cena. Cerca di qua, cerca di là, donna Giulia non si trovava.

“Sarà sicuramente nel salotto di qualche  suo amico giacobino miscredente e senza Dio”, aveva sentenziato, tutto impettito, lo zio canonico, muovendo appena le labbra sottili nella faccia gialla come di morto, con la somma freddezza di un giudice implacabile che pronunci una condanna capitale. Le zie avevano annuito, energicamente, con l’aria furba di chi sapeva che, più che nei salotti, donna Giulia avrebbe dovuto essere in più intime e riposte stanze di qualche magione milanese; e Ninetta aveva sorriso: se ella aveva ragioni per dubitare di quell’affermazione, mai ragioni furono meglio dissimulate. Ma la mattina dopo, quando stava rivestendo il piccolo Alessandro, ancora ignaro del fatto che Giulia, tra la costernazione generale della casa, non era ritornata per la notte, gli aveva confidato che la sua mamma era in viaggio per Parigi con “un gran signore”, e che lo riprenderebbe presto con sé, a patto che fosse molto buono e obbediente, e non piangesse per quella separazione momentanea. Addirittura, parlando del “gran signore” gli aveva mostrato – sotto un segreto più grande di quello della confessione! si  era raccomandata -, uno scialle di seta che proprio lui le aveva donato prima di partire, e che Ninetta custodiva in un cassetto. Ma il conte Pietro, cui l’alto concetto che nutriva della sua nobiltà non impediva di aver preso la meschina abitudine di origliare dietro alle porte, proprio in quella era entrato, furibondo, e aveva afferrato violentemente Alessandro per il braccio, strattonandolo, quasi per allontanarlo da un contatto impuro. Quindi aveva, senza tanti preamboli, messo alla porta Ninetta, affibbiandole, per sovrappiù, due solenni schiaffi, e minacciandola di non fare mai parte a nessuno di quelle confidenze e giudizii vergognosi che gettavano in disdoro sul buon nome della famiglia Manzoni.

Pochi giorni dopo, Alessandro era stato messo in collegio “per educazione” e più ancora per sottrarlo alla vista del conte Pietro, agli occhi del quale quel bambino era l’emblema vivente della più grande sconfitta inflitta alla sua stolida e arcigna superbia.

Nel collegio dei padri Somaschi, gli ambienti grandiosi e solenni, ma circoscritti e freddi, delle aule e dei cameroni spogli, gli davano per contrasto un senso di ansioso soffocamento; i compagni lo deridevano per la sua leggera balbuzie, che diventava più percepibile e forte quando il bambino doveva parlare di fronte ai compagni; e al mattino, Padre Vincenzo, incurante della sua salute cagionevole e del suo essere sempre raffreddato, lo costringeva, con accuratezza crudele, a lavarsi sotto l’acqua gelida, cosa che aumentava le sue tossi e i suoi catarri.

La stessa cosa accadeva quando gli capitava di bagnare il letto la notte, nello stanzone gelato. Nei vasi da notte, ai piedi dei letti degli allievi, si formava un velo di ghiaccio, e pure, ugualmente, Alessandro doveva alzarsi, disfare il letto, e, con l’ingombro delle lenzuola sporche e appallottolate fra le braccia, attraversare quel camerone, passando tra i letti dei compagni che fingevano di dormire, ma che erano in realtà sveglissimi, e che sorridevano feroci, in attesa di come, il giorno dopo, lo sapeva benissimo, l’avrebbero crudelmente beffeggiato. Da lì, lui lo sapeva, venivano la sua ossessione per lo sporco, la pulizia maniacale cui, tratto singolare per quei tempi, ancora oggi egli si costringeva, quasi che sentisse ancora nelle orecchie rimbombare la voce melodiosa e fredda da spietato tenore di grazia di Padre Vincenzo, il quale lo tacciava di essere “sporco, e perciò impuro”, obbligandolo, sotto minaccia della sua canna da assistente degli interni, a lavarsi raschiandosi a fondo la pelle delicata con le spazzole intrise di sapone che pizzicava e di acqua freddissima, sino a che le mani, arrossate, si spaccavano e comparivano i geloni. Come pure, lo sapeva, il panico che ancor provava per tutti gli spazi aperti dipendeva dall’eco angoscioso e dal ricordo ancor pungente di quelle nottate in cui doveva solcare la camerata e poi il vasto cortile, che nell’oscurità gli sembravano immensi e ancor più gelidi mentre rimbombava dei suoi pur leggeri passettini di bimbo impaurito.

 

E ora, ora che si era lasciato trasportare dalla generale euforia per i festeggiamenti delle nozze imperiali che imparentavano Napoleone con gli Absburgo, e proprio ora che aveva temerariamente deciso di portare Henriette a fare un giro per le vie, la calca, la ressa, il caldo, la sovreccitazione, i rumori potenti, le grida, l’avevano confuso e stordito.

Aveva lasciato l’abbraccio di Henriette, per portarsi ambo le mani davanti agli occhi, ebbri e come ubriachi, e un attimo dopo sua moglie non c’era più, travolta dalla folla, portata via dai marosi e dalle onde dei popolani folli di gioia. La gola gli si era chiusa, il respiro abbreviato, ed erano iniziati i capogiri, quella piccola morte cui ancora non era riuscito ad abituarsi; ancora un attacco del suo male; e ora, prima di cercare Henriette, doveva trovare riparo da qualche parte, in un luogo calmo e silenzioso, prima di svenire, cadere a terra, ed essere magari calpestato dalla folla, dalla massa, dagli zoccoli dei popolani e dagli scarpini del borghesi, dagli zoccoli dei cavalli e dalle ruote delle carrozze. Come un naufrago che veda profilarsi all’orizzonte un relitto, aveva accolto la visione della Chiesina di Saint Roc, che in altri momenti non avrebbe degnato di uno sguardo, passandole oltre distrattamente: ora invece guadagnò, con una rabbia d’orgoglio, l’entrata, imponendosi, con le ultime energie, lo sforzo supremo d’arrivare al portone. Poi, appena entrato, si era lasciato cadere sull’ultima panca.

La pace di quel luogo l’aveva aiutato a superare la crisi, e l’aveva portato a ripercorrere gli avvenimenti della sua esistenza, che l’avevano fatto diventare quel che era, un giovane uomo senza una professione, senza un reddito, senza una fede certa o un progetto nella vita, senza uno scopo fuorché maman ed Henriette, pieno di turbamenti e debolezze, seduto su quel legno duro e freddo, in quella chiesina dimenticata, in quella città straniera.

“Che cosa ho fatto in vita mia?” si domandava.

“Scrivo un po’; leggo un po’; suono un po’; tutto un po’, tutto svogliatamente, tutto senza ingegno, senza passione, senza dedizione”, si disse in un soprassalto di tremenda lucidità, come se fosse un estraneo a osservare e giudicare da dietro un vetro la vita del giovane Alessandro.

 

Doveva ritrovare Henriette, certamente, ma soprattutto doveva cambiare vita, doveva trovare un lasciapassare verso la pace, verso la quiete, un lasciapassare che nemmeno quella moglie dolce e accomodante, che l’adorava come il dio della sua idolatria, poteva garantirgli da sola.

Doveva perdonare chi l’aveva offeso e umiliato; e insieme, doveva perdonarsi per tutti gli errori, le mancanze di coraggio, le omissioni e le inadempienze che tormentavano la sua coscienza sensibilissima, prima fra tutte la consapevolezza di essersi comportato ancora una volta da vigliacco, rifugiandosi là dentro per salvarsi dal rischio di essere travolto e calpestato dalla folla, e dimenticando completamente che, invece, a quel rischio era esporta anche la sua giovanissima e fragile moglie, incinta per giunta del loro primogenito.

 

Per la prima volta da molti anni, si ritrovò a pregare, nemmeno lui sapeva chi, non per sé, ma per Henriette, perché potesse ritrovarla sana e salva, promettendo, senza saper lui stesso di preciso quale di fatto fosse il contenuto di quella promessa, che, se così fosse accaduto, avrebbe portato un “gran cambiamento nel suo sistema di vita”.

Abbassò la testa, contrito e come pervaso da una pace nuova e più profonda, che gli veniva dall’avere finalmente abbandonato l’ira e la resistenza del cuore.

Il rumore del portone che si apriva lo fece sobbalzare, richiamandolo e come facendolo emergere da quella quiete interiore profondissima in cui si era inabissato: si volse, e incontrò, grato, lo sguardo ansioso e sollevato di Henriette, che era entrata a cercarlo.

 

[1] Infatti lo sconosciuto era il terzo e più giovane dei fratelli Verri, Giovanni, il padre naturale di Manzoni, di cui Alessandro ignorerà l’esistenza sino al 1811 circa.

[2] Si tratta di Le avventure di Saffo (1780).