I racconti del Premio letterario Energheia

Il viaggio 03.07.1956_Valeria Cosola, Matera

_Racconto finalista seconda edizione Premio Energheia 1995.

 

Il rumore del treno, così ritmato e monotono, sembra scandire il tempo e cullare il sonno in cui sono caduti i passeggeri del mio scompartimento.

Io non riesco a dormire, troppo caldo, troppo rumore. Preferisco guardare il paesaggio del Sud a tratti brullo o colorato, o odoroso di terra e di grano. La calura sta cancellando gli ultimi segni dell’acquazzone di ieri e malgrado il vetro sia abbassato così poco, riesco a percepire quell’odore ormai minimo di pioggia, quello aspro della terra e quello pungente del sole d’estate.

Il vento mi porta leggero l’odore caldo del grano, passando ed insinuandosi fra le spighe come un serpente, e giocando con gli steli, come un amante con la chioma della sua donna. Fra le distese gialle, spesso si scorgono, come isolotti scuri in mezzo al mare, figure curve di contadini, le cui falci, dai movimenti ripetuti e intrisi di sudore caldo, si divertono a fare giochi di luce con il sole. Questo padrone del cielo si sta impegnando a far sparire le ultime gocce di rugiada che, simili a perle di mare, inumidiscono ancora qualche zolla di terra non ancora baciata dalla luce. Il cielo è completamente azzurro e nell’orizzonte sembra adagiarsi su collinose curve verdi che scendono piano piano, magari imbattendosi in qualche casa, fino alla pianura colma, a tratti gialla di grano, bruna di terra o fredda di roccia…

Il mio sguardo si stacca dal vetro ed i miei occhi cadono su due palpebre chiuse. La signora o signorina che ho di fronte, sembra alquanto giovane. Il suo abito a fiori, sottile, modella quella figura sinuosa di dama, i suoi lineamenti sono tipicamente mediterranei: fronte ampia, occhi grandi e scuri, orlati da una mezza luna nera di sopracciglia. Gli zigomi sporgenti scivolano fino al naso sottile e le labbra pronunciate sono semichiuse. Un manto di capelli scuri e ricci E adagiato sulla spalla addormentata, mentre altre ciocche, disordinatamente raccolte dietro la nuca, sembrano lottare con il fermaglio che le trattiene a malapena, ad ogni movimento della donna. Le sue mani, anche se giovani, raccontano del continuo contatto con il grano, proprio come lascia supporre la pelle abbronzata e luminosa. Il suo sonno sembra tranquillo.

Ritorno al mio libro, abbandonato già da un po’ sulle mie gambe sudate, ma il caldo e il rumore m’impediscono di leggere. Continuo allora a guardare gli altri passeggeri. Chissà dove vanno, chissà chi sono. Colpiscono la mia attenzione delle valigie; sembrano addirittura di cartone! Una è tenuta chiusa da uno spago che sembra dover cedere ad ogni scossone del treno.

La suora, seduta accanto alla porta dello scompartimento, ha preso a recitare il suo rosario, stringendo la corona fra le mani e muovendo quasi impercettibilmente, le sue labbra. Il suo abito bianco trasmette una sensazione di freschezza e semplicità, e semplice E ogni suo gesto, ogni suo movimento.

La donna accanto a me è, invece, piuttosto mediana, minuta e vestita di nero. Non ha parlato per tutto il viaggio, sembra annoiata, stanca ed infastidita dal caldo. Rughe profonde partono dai suoi occhi e dalle estremità della bocca. Il nero degli abiti ed il grigio dei capelli rendono la sua figura ancora più stanca e pesante. I suoi occhi stanchi ma ancora brillanti, sembrano parlare della sua sofferenza e dei suoi affanni, e il capo, abituato al peso di grandi ceste o di fasci di grano, è spesso inclinato in avanti. Nelle sue mani arrossate e gonfie mi sembra di scorgere un passo di storia della sua terra. Mi sembra di percepire l’odore delle lacrime che ha asciugato, della terra che ha toccato, della pioggia che ha invocato…

Il mio sguardo ritorna al paesaggio, immergendosi ancora nel suo verde compatto e caldo e nel suo giallo odoroso. È mezzodì. Vedo uomini che ritornano dai campi con il viso imperlato dal sudore e figure di dama dagli abiti scuri che recano sul capo, come smisurate corone, fasci di grano. Il sole, non curandosi della loro stanchezza, continua a battere sul loro capo affannato, su quelle spalle curve, su quelle labbra secche… Gli asini camminano lenti dietro i contadini ed io dò un ultimo sguardo allo stanco corteo che si perde sulla strada assolata.

Con uno scossone il treno si ferma in una stazione deserta. Nulla, nemmeno il ragazzo che vende i giornali. Il capostazione è seduto su una panchina, e con occhi stanchi ed annoiati guarda il treno e i passeggeri che scendono; sembra sperare nell’arrivo di qualcosa di nuovo che possa rompere quel silenzio forse troppo grande. Qualcuno c’è nel bar, ha acceso una radio. Arrivano fin qui, malinconicamente sospinte dal vento, le note di una canzone americana.

Un altro scossone. Il treno è di nuovo in movimento. Nello scompartimento ci siamo soltanto io ed un uomo dagli abiti semplici e dagli occhi scuri come ebano. Da un cestino accanto ai suoi piedi, tira fuori dei rami secchi e comincia ad intrecciarli. Dalle sue mani veloci sembra stia per nascere qualcosa che somigli ad un cestino di vimini. Mi parla di sè, di sua moglie sempre più nervosa, della sua prole sempre più numerosa ed affannata e del suo lavoro nei campi; e ancora dell’odore di pane la domenica all’alba e del colore del cielo al tramonto, dei campi… Ha parlato fino a quando il dondolare del treno lo ha fatto addormentare, cullandolo come farebbe lo sciabordio delle onde con una vecchia barchetta di legno in alto mare. Mi addormento anch’io.

Al mio risveglio mi trovo solo nel mio scompartimento. Non ho più occhi da guardare o rughe da studiare. Non ho più storie da ascoltare. Il caldo mi rende nervoso. Questo treno è squallido! Il paesaggio, fuori, con la sua unità sembra beffarsi di me che, chiuso in questo tubo veloce, cerco di non badare alle sue miserie, alla sua sete e cerco di scansare il caldo con il sonno!… Intanto, le vigne si mostrano alla mia vista come padiglioni verdi e ombrosi. Mi sembra di sentire l’odore aspro del mosto nelle cantine buie e le voci festanti di contadini che hanno nelle mani brocche di terracotta, stracolme di nettare bruno ed odoroso. Spinose piante di fichi diindia sembrano orlare, come vistosi merletti, i binari che sembrano gareggiare con il treno in un’nterminabile corsa. E vedo il mare, il mare che si specchia negli occhi del cielo, con il suo azzurro ondulato e con le sue onde dalle creste spumeggianti che s’infrangono sugli scogli, innalzando schizzi di cristallo che sembrano raggiungere il cielo fino ad abbracciare il suo blu.

Vorrei scendere da questo maledetto treno e correre fino alla spiaggia, ad abbracciare il mare e a farmi baciare dal sole, facendomi ricamare la pelle dai suoi raggi.

E vorrei camminare, camminare sulla battigia e sentire tutti gli odori che mi regala il mare e farli miei, e chiuderli in uno scrigno in fondo al mio cuore, per tirarli poi fuori quando il sole si nasconderà ai miei occhi, quando i lampioni saranno carichi di nebbia, quando il grano sarà ancora seme, quando l’inverno bagnerà la mia pelle.

E cirri tinti di rosso dal sole, ormai al tramonto ricamano il cielo caldo d’estate. La prima stella della sera, come occhio di cielo, sembra spiarmi da lontano. La mia stazione è vicina e, dal finestrino poco abbassato, mi arriva l’odore aspro della terra bruna del sud.