I racconti del Premio Energheia Africa Teller

Il pungolo della colpevolezza_Jealous Nyandoro-(ZImbabwe)

_Racconto vincitore terza edizione Premio Energheia Africa Teller 2002.

Eravamo a metà della mattina. Nella foresta nei dintorni della città gli uccelli cantavano allegre melodie di ringraziamento al Creatore per aver dato loro una vita così spensierata.

Quella mattina mi sentivo pronta a percepire la poesia della natura. Ma, come potevo esserlo, mentre il mio cuore andava in pezzi? Due volte quella mattina, mentre vagavo nel fitto della foresta, avevo pensato di impiccarmi, ma le doglie mi avevano impedito di arrampicarmi su di un albero. Il terribile momento mi aveva sorpreso distesa sotto un albero di Mopani la cui base era adorna di sterpi strettamente intrecciati. Il bambino era nato senza alcuna complicazione tranne il dolore lancinante e il sudore.

Calde lacrime di furore mi bruciavano gli occhi mentre osservavo il neonato che frignava disteso per terra e nella mia mente turbinavano emozioni contrastanti: l’amore materno come ricompensa per le doglie, l’angoscia causata dalla disperazione e l’odio nato dalla brutalità di un uomo. Nonostante tutti gli sforzi, non riuscivo ancora a credere che Bhekizwe di cui ero stata tanto pazzamente innamorata da scappare via da casa avesse realmente potuto abbandonarmi in maniera tanto crudele. Alcune settimane prima io e Bhekizwe avevamo avuto una tremenda lite in cui aveva sostenuto che la mia gravidanza non lo riguardava perché gli erano giunte voci di una mia presunta relazione con il nostro padrone di casa, cosa che naturalmente non era vera. Tre giorni dopo era scomparso lasciando dietro di sé due mesi di pigione arretrata da pagare. Alla fine del mese il padrone di casa mi aveva semplicemente sfrattata e, cercando di riprendersi quello che gli spettava, aveva confiscato le nostre proprietà – un vecchio letto semimatrimoniale cigolante, un paio di coperte consunte e una quasi nuova, una stufa a paraffina e utensili da cucina di nessun valore. Temendo per la vita, decisi di non tornare a casa perché mio padre aveva minacciato di trafiggermi con una lancia se mai avessi osato rimettervi piede.

Cercai rifugio in casa di una zia vedova.

Nel giro di pochi giorni qualcuno mi aveva fatto sapere dove si trovava Bhekizwe. Aleck, il suo miglior amico, mi disse che aveva raggiunto la sua ex fidanzata che vive in Sudafrica. Fu allora che capii che sciocca ero stata. Qualche tempo prima della lite sulla mia presunta relazione avevo trovato per caso una focosa lettera d’amore mentre lavavo uno dei suoi pantaloni. Veniva dal Sudafrica. Quando gli avevo chiesto chi avesse scritto la lettera aveva risposto con calma:

“Credimi tesoro, è solo la mia ex fidanzata. Ci siamo lasciati tre anni prima che ti incontrassi. Non mi piaceva il suo modo di comportarsi”.

“Allora perché ti scrive lettere di questo tipo?” avevo chiesto.

“La verità è che non riesce a credere che è tutto finito tra noi”.

Si era fermato e mi aveva stretto in uno di quei suoi abbracci che mi facevano ribollire tutto il corpo. Guardandomi con quegli occhi sensuali che fondevano la parte più profonda della mia anima aveva continuato: “Ma in confronto a te che sei la regina del mio cuore ormai è morta e sepolta. Anche se mi scrivesse un milione di lettere al giorno non potremmo mai più tornare insieme”.

Un bacio bollente aveva posto la parola fine alla discussione e l’avevo immediatamente cancellata dalla mente. In che modo avrei potuto prevedere che la nostra storia sarebbe finita da lì a poco? Come aveva potuto Bhekizwe essere così crudele dopo tutto quel tempo e dopo che ero stata scacciata dalla mia famiglia? Che cosa avrei dovuto farne di questo bambino che era anche suo? Era il premio che il mondo intero mi avrebbe assegnato per essere stata così sciocca? No!

Non avrei mai cresciuto un bambino senza padre. Mai.

I miei occhi ardenti ricominciarono a mettere a fuoco il neonato che vagiva nel momento in cui una sensazione di nausea, salendo lentamente dallo stomaco, riuscì a farsi strada verso la mia bocca. Tentai di inghiottire con forza un groppo doloroso che mi bloccava la gola. Improvvisamente, come se fossi stata posseduta dal demonio, balzai addosso al neonato e afferrai il fragile collo ancora scivoloso per il sangue e il liquido amniotico. Stringendo le mani premetti quel collo sottile sul terreno fino a quando i vagiti non si spensero in un suono soffocato. Scalciando e dimenandosi furiosamente, il neonato emise una serie di colpetti di tosse disperati. Chiusi gli occhi temendo di vederlo morire.

I suoni gutturali che il neonato emetteva penetrarono nella mia anima, rendendomi sorda. Lo scricchiolio risuonò nelle mie orecchie come il trapano di un dentista. Serrai le mascelle.

I nervi si tesero fino allo spasimo. Sorprendentemente quella forza demoniaca mi abbandonò, così come era venuta. Le mani si contrassero mentre cercavo di serrarle. Senza che potessi evitarlo le mie palpebre si spalancarono: Dio avrebbe potuto accecarmi. Il neonato era diventato una cosuccia straziante, la cui vista poteva essere sostenuta senza rimorsi solo da un cannibale. La faccia, distorta dal dolore, era diventata di un patetico color violetto e ogni suo poro grondava sudore.

Il battito del cuore sembrava sul punto di sfondarmi il petto mentre un brivido simile a una scossa elettrica si scaricò lungo la spina dorsale minacciando di farmi cadere tutti i capelli.

Svenni.

Non so per quanto tempo rimasi svenuta. Ricordo solo di essere stata svegliata dal cinguettìo indiscreto di alcune cince dal petto blu che saltellavano sui rami più bassi del sottobosco.

Il mio sguardo assente vagò fra il sottobosco e le cime degli alberi, mentre cercavo di ricordare dove fossi. Una forte pulsazione alla tempia mi provocava un senso di stordimento; era chiaro che avevo battuto la testa su una pietra o qualcosa del genere. Quando riuscii a connettere più chiaramente, cominciai a percepire un debole rantolo affannoso che provocava anche la curiosità delle cince. Il bambino era ancora vivo!

Immediatamente rividi con la mente l’atroce gesto che avevo compiuto. Fui assalita dal terrore rendendomi conto che se mi avessero scoperta, la prigione sarebbe stata la mia casa per un paio d’anni. Mi alzai di scatto. Le cince volarono via emettendo suoni striduli. Con il battito del cuore impazzito esplorai tutto ciò che mi circondava.

Vedendo che non c’era anima viva nei dintorni ringraziai il buon Dio per aver fatto in modo che le forze del male mi avessero fatto scegliere un luogo così remoto per manifestarsi.

Raccolsi il neonato sporco di terra e foglie. Aveva urlato a lungo e in quel momento aveva la bocca spalancata come un uccellino che attendesse il cibo da lungo tempo. Con le mani bagnate di sudore e tremanti avvolsi il bambino con la maglietta che mi ero tolta quando le doglie mi avevano fatto salire la temperatura. Cercai poi di portarlo al seno per allattarlo, ma il cordone ombelicale non permetteva alla bocca di raggiungere il capezzolo.

Fu allora che gli scrupoli mi travolsero, misero a nudo tutto il senso di colpa che provavo. Mi ritrovai a chiedermi per quale motivo quell’esserino avesse potuto costringermi a un gesto tanto terribile. Comunque, non era colpa sua se era nato: solo per la mia testardaggine avevo dato retta alle cattive compagnie e creduto solo alle false promesse di un paradiso terrestre a dispetto dei consigli di mia madre che mi diceva di non dare troppo presto confidenza agli uomini se volevo evitare le conseguenze dei loro sporchi giochetti. La colpa era stata solo mia; ero stata ingannata da una cena romantica in un bell’albergo giù in città, con in sottofondo Dolly Paton che cantava Tomorrow is forever e da una scatola piena di profumi, cosmetici e indumenti intimi. Che cosa avrebbe potuto fare per me quel bambino se allora non era neppure un feto?

Il pungolo della colpevolezza recò con sé un’ondata di rabbia, che suscitò di nuovo in me un diabolico spirito di vendetta e questa volta scelse di instillare veleno nella mia mente.

“Perché ti tormenti così? Bhekizwe ti ha buttata via come uno straccio sporco e ora vuoi prenderti il peso di questo bambino che te lo ricorderà per sempre. Lascialo lì e scappa prima che qualcuno ti veda”.

Strozzata da un nuovo accesso di rabbia, scagliai il bambino a terra. Cadde con un suono sordo e un piagnucolio soffocato.

Mentre cercavo di alzarmi, di nuovo il cordone ombelicale, mi impedì i movimenti. Mi sentii raggelare per l’orrore mentre vedevo un’estensione della mia carne lì per terra che scalciava lentamente come un ciclista che cerca di superare una ripida salita. Non potevo sopportare l’idea di staccare il cordone dalla pancia del bambino e lasciarlo dondolare dall’interno del mio corpo. Non potevo strapparmi l’anima. Impotente, caddi accanto al neonato e scoppiai a piangere.

Mentre ero in preda ai singhiozzi, una raffica di domande eruppe dalla mia coscienza esorcizzando il demonio che avevo in testa. A che cosa ti sarebbe servito uccidere o buttar via il bambino? Non avresti dovuto essere tu, per volontà di Dio, a prenderti cura di questa benedizione che alcune donne desiderano a tal punto da pagare migliaia di dollari per cure vere o fittizie contro la sterilità o addirittura da rubarla ad altre donne? Che cosa succederebbe se fosse l’unico figlio che ti fosse dato di concepire? E poi, sei pronta a vivere con questo senso di colpa e affrontare la battaglia contro lo spirito ingozzi del sangue umano in cerca di vendetta?

“NO!” mi ritrovai a gridare per la paura mentre immagini terribili minacciavano di farmi scoppiare la testa. Il mio urlo fece sussultare il neonato.

“Zitta bambina mia”, le dissi dolcemente. “Non ti succederà più niente di male. Niente potrà più separarci. Con te, ragazza mia, non avrò mai più bisogno di un uomo, neanche di un riccone. Gli uomini non sono altro che bestie crudeli e senza cuore. Sarai la mia memoria contro ogni angoscia. Ho sofferto a causa di un uomo che ho amato troppo. Ti chiamerò Memory”.

Con le lacrime che scendevano lungo le guance, sollevai la parte anteriore della gonna per preparare un marsupio in cui la sistemai con cura. Mi alzai di scatto e abbandonai quel luogo senza voltarmi come se si trattasse di Sodoma e Gomorra che mi avrebbero trasformata in una colonna di sale se mi fossi girata a guardarle. Avevo deciso. Avrei venduto verdure con mia zia al mercato della città in modo da procurarmi il denaro necessario per crescere la mia bambina. Come sarei potuta non riuscire a provvedere a una sola bambina quando mia zia era stata in grado di pagare l’affitto, crescere e istruire una famiglia di cinque persone grazie allo stesso lavoro?