I racconti del Premio letterario Energheia

Il profumo del buio_Giorgia Spurio, Ascoli Piceno

_Racconto finalista quindicesima edizione Premio Energheia 2009.

 

Buio. Ogni volta che apro gli occhi, i colori sono soltanto un’invenzione mal riuscita. Non so cosa sia il rosso, né so’, quanto possa esser blu il mare. Ma so che profumo hanno le rose e i girasoli, e che profumo può avere il vento di notte o d’estate.

Ogni mattina apro gli occhi al suono della sveglia. La spengo e il buio è lì a tendermi la mano: non mi lascia mai sola.

Dalle finestre arriva il calore del sole: dicono che sia giallo.

Saluto Billy, il mio fedele amico, un labrador di cinque anni: dicono che sia marrone.

Prendo i miei occhiali e li indosso, afferro il mio bastone ed esco con Billy al guinzaglio.

Mia madre dice che gli occhiali siano neri e che è bianco il mio bastone. Non so se siano veramente tanto importanti i colori, ma mi rendo conto che gli occhiali sono utili per voi, che così non vi imbarazzate a guardare quei miei occhi che sembrano fissare sempre il vuoto.

Billy è colui che sostituisce i miei occhi. Grazie a lui posso esser autonoma, sia in casa, che quando esco.

Il mio lavoro è molto semplice: insegno in una scuola di ragazzi ciechi. Sono nata con questa malformazione, ma la mia vita è normalissima. Sono andata a scuola, a cinque anni i miei genitori si erano accorti che amavo il pianoforte, ho avuto due fidanzati e ho una vita mia.

Mi trovo a casa sola, anche se ogni giorno mia madre viene a trovarmi.

Ho i miei amici e mi trovo a uscire con loro per un aperitivo o una pizza.

Per chi ci nasce, il buio non è un trauma: tutto ciò costituisce il proprio mondo.

I miei occhi si trovano sui miei polpastrelli: adoro sentire le mani di altri stringer le mie, accarezzare la pelle altrui e, se permettono, toccare il loro viso disegnando i loro lineamenti e ogni loro contorno.

Adoro rotolarmi tra le lenzuola, rotolarmi sull’erba, sentire l’acqua scivolare sulla mia schiena, ascoltare i profumi che mi travolgono e le voci dei passanti, mentre cammino.

Un giorno successe che mia cugina mi presentò ad una sua amica.

Saremmo andate ad un pub a mangiare qualcosa: sarebbe passata a casa per andare poi, tutte con la sua auto.

Suonò il campanello, Billy iniziò ad abbaiare: riconosceva l’odore di mia cugina, ma si era accorto di un altro profumo a lui sconosciuto.

“Calmati, Billy, è Rebecca” -, dissi aprendo la porta.

“Ciao, cuginetta!” – Reby era sempre esuberante in qualsiasi cosa facesse o dicesse. Era la classica persona definita eccentrica. Usava fragranze forti che richiamassero l’esotico e, a quanto dicevano altri, amava indossare minigonne e abiti multicolore, come il suo smalto.

“Oggi ti ho portato una mia amica che non conosci, Sara!”- la voce di Rebecca era stridula e ridente mentre ci presentava – “Sara, lei invece è Marina, la mia cara cugina di cui ti ho parlato”.

“Spero che ti abbia parlato bene di me!”- esclamai sorridendo.

Le feci accomodare e, mentre chiudevo la porta, avvertii un profumo nuovo: un odore aromatizzato che mi ricordò il Giappone.

Ero stata tre anni a Tokyo. Ero una bimba. Mia madre si era convinta che ci fosse una cura alla cecità e che in quel prestigioso ospedale, nella capitale giapponese, potesse avvenire il miracolo. Imparai qualche frase in quella lingua meravigliosamente affascinante. Feci amicizia con un bimbo, il piccolo Yakumo. Anche lui cieco, si trovava nella mia stessa stanza. Yaku aveva una voce dolce e rassicurante.

A volte mia madre non poteva restare a dormire con me, perciò successe che la prima notte senza di lei scoppiai in un silenzioso pianto. Yaku se ne accorse e venne vicino a me: mi strinse la mano e mi baciò la guancia. Teneramente sussurrò che tutto andava bene e mi cullò tra i suoni di una vecchia ninna nanna giapponese che lui cantò per me. Io non mollai mai la sua mano. Quella notte, come altre successive, dormì con me: si accoccolava nel mio letto e mi abbracciava protettivo.

A volte succede che penso a lui.

Purtroppo eravamo troppo piccoli e il nostro saluto fu solo un doloroso e affettuoso abbraccio, sotto lo sguardo dei nostri genitori.

Io fui operata prima di lui e quando mi tolsero le bende, c’era ancora il mio compagno Buio ad aspettarmi.

L’intervento era fallito e io avrei dovuto dire addio a Yaku.

In giapponese lo ringraziai e gli dissi che gli volevo bene, mentre lui in italiano mi disse che non mi avrebbe mai dimenticato. In quel momento gli regalai l’orsacchiotto da cui non mi separavo mai. Yaku mi fu sempre vicino. Volevo allora dimostrargli il mio affetto. Volevo che lui, il quale doveva affrontare l’operazione, avesse qualcosa di mio da poter abbracciare affinché sentisse che, anche se lontana, il mio pensiero sarebbe stato sempre con lui.

Chissà se quell’orsacchiotto riuscì ad alleviargli il dolore, se gli fu solidale tanto quanto lui per me.

Spero di sì. E mi piace immaginare il mio orsacchiotto sorridente sul suo letto, pronto ad aspettarlo. Mi piace pensare che Yaku, anche se cresciuto, a volte stringa il mio orsacchiotto pensando a quella piccola Marina che aveva paura di dormire da sola.

Sara aveva lo stesso buon profumo di Yaku.

“Allora, Mari? Come stai?” – Rebecca ruppe i miei ricordi.

“Tutto bene, solite cose!”

“Mi ha detto zia che è venuta per convincerti a comprare un certo vestito per il matrimonio di Ale!” -, disse scoppiando a ridere.

“Si! E se ridi significa che già sai!”

“Mi ha detto! E l’ho anche visto! Con quell’abito sembreresti una bomboniera!”

“Allora è vero! Io lo sentivo: è tutto di pizzo! Non è per me!”

“No, infatti vieni a comprare il vestito con me!”

“Grazie! Ecco, Sara, tu non sai che a volte per fortuna esiste mia cugina Rebecca pronta a salvarmi!”

Ridemmo mentre Reby prendeva in giro amichevolmente la mia mamma.

“Ma non ricordi quel giorno, il matrimonio di Paola! Quando tua madre arrivò con quel cappello enorme!”

Esclamò.

Sorrisi ricordando che andai a sbattere contro quel cappello durante la cerimonia di mia cugina. Ora doveva sposarsi Alessio, il fratello di Reby. È l’unico nipote maschio per mia madre. Quindi era impazzita, tanto che aveva iniziato ad andare per negozi, in cerca dell’abito giusto, un anno prima!

Mia madre è fatta in questo modo. È tanto buona e apprensiva, simpatica e disponibile, però morirebbe se non seguisse la moda. Oltretutto ha un difetto: il suo stile baroccheggiante.

Mio padre è totalmente differente. Non lo sento mai e ci incontriamo unicamente la domenica. So che mi ama, anche se lo dimostra sporadicamente con un bacio sulla fronte. È una persona più introspettiva e riservata, un uomo d’affari che si blocca quando vuol dire “ti voglio bene”. Però io lo so che i suoi baci riflettono il suo affetto.

Quando c’è amore non c’è bisogno di parole.

All’improvviso Rebecca ebbe bisogno di fumare e, conoscendomi, tirò fuori le sigarette esiliandosi sul balcone. Rimasi nel salotto sola con Sara e Billy.

“Che bel cane!”

Disse accarezzandolo.

“Bello e bravo! È il mio migliore amico, e non lo dico perché è una frase fatta”.

“Immagino che rapporto speciale tu abbia con lui!”

“Molto più che speciale. Diciamo che Billy, in qualche modo, mi salva la vita ogni giorno”.

Sara continuò a coccolare il cane, mentre io curiosa feci qualche domanda: “Tu e Rebecca come vi conoscete?”

“Studiamo alla stessa facoltà!”

“Anche tu quindi studi restauro?”

“Esatto!”

Mi sembrò una ragazza che non amasse parlare. Rispondeva il minimo indispensabile e pensai che le stessi dando persino fastidio. Iniziai quasi a sentirmi in imbarazzo.

Ma poi emerse la sua voce tenera: “Sai, mi piace molto disegnare. Marina, ti faresti ritrarre?”

Arrossii e timidamente risposi il mio si: “Ma… come mai questa richiesta?”

“Hai dei bei colori. Mi piacciono”.

Era singolare: io che non sapevo cosa fossero i colori divenivo soggetto di un quadro. Io che non avevo mai visto l’azzurro del cielo di maggio, né la luminosità della luna, ero stata scelta perché possedevo quei colori.

“Hai la pelle come i fiori di pesco!”

Dichiarò accarezzandomi le guance.

Sentii un calore percorrermi il corpo.

“Sei arrossita?”, chiese dolcemente allontanando la mano via da me.

“No, è che di solito mai nessuno osa toccarmi, è come se la gente avesse paura che io sia di porcellana e che possa rompermi in un momento all’altro. È che spesso, sono io che chiedo di toccare il volto altrui. È per avere una specie di ritratto degli altri nella mia mente”.

“Allora voglio che mi disegni! Voglio che tu abbia il mio ritratto ben impresso!”, disse decisa.

Il suo silenzio si alternava con dichiarazioni ferme come questa.

Penso che il mio rossore non si fosse calmato e sentii afferrarmi piano il polso della mano destra.

“Sono qui, seduta sul divano”, affermò posando la mia mano sul suo mento.

Io ero in piedi di fronte a lei. Ascoltai il suo respiro regolare.

Strofinai adagio le mie dita fra le ciocche dei suoi capelli, sentendo come fossero soffici: lisci e vellutati come li aveva Yaku.

Ascoltai il suo respiro divenire irregolare, come le pulsazioni del suo cuore che accelerarono. Sentii i suoi occhi guardarmi mentre i raggi del tramonto di quel colore vermiglio, ignoto quanto accattivante, filtravano dalla tenda di lino.

Spostai le mie dita sul suo viso. La sua pelle era morbida, come quella dei bimbi. I polpastrelli scesero sulla sua bocca: contorni decisi di labbra carnose si manifestarono delicate e tremanti al mio tatto. Tremanti come le sue palpebre chiuse e attente ad ogni mio tocco.

Un sospiro le sfuggì e cercai di catturarlo nella mia mano, che ritornò sugli occhi fino alla fronte, dove una frangetta ribelle solleticò la mia pelle compresa in quello spazio che si trova fra un dito ed un altro.

La finestra si spalancò e il suo rumore ci svegliò.

“Sono tornata. Chiedo scusa per l’attesa!”, disse mia cugina con il cellulare in mano.

L’ennesimo ragazzo, che era stato lasciato, le aveva telefonato per avere chiarimenti.

“Avrete pensato che ero scomparsa o che mi ero fumata l’intero pacchetto! Invece no! Era Federico! Che pizza che è! Per fortuna che l’ho lasciato!”

Rebecca è una ragazza che ogni due settimane, in media, si stufa del ragazzo che sta frequentando. Non sopporta il fatto che l’altro possa esser geloso, ha bisogno delle sue libertà, e così lo molla all’improvviso.

In realtà, è semplicemente che lei non si è mai, veramente innamorata. Ora che ci penso, in effetti, nemmeno io lo sono mai stata. È vero che sono stata fidanzata due volte. Con un ragazzo sono stata insieme due anni, mentre con l’altro poco più. Però fu forse per le coincidenze e la curiosità di conoscere cosa significhi stare insieme a una persona, piuttosto che per vero sentimento.

Ludovico era un ragazzo, anche lui cieco, che frequentava la mia stessa scuola. Probabilmente eravamo più amici che fidanzati. Avevamo dei gusti comuni sulla musica e i libri. Lui voleva studiare pianoforte e io accettai d’aiutarlo. Tutto questo portò all’esperimento di stare insieme, ma il nostro rapporto si bloccava a conversare, scherzare e scambiarsi qualche bacio.

Dopo conobbi Mario. Successe a un concorso di musica. Lui aveva la passione per la chitarra. Rebecca, quando lo vide, mi prese in disparte dicendomi che era un gran bel ragazzo.

E con lui persi la mia verginità… Forse con Mario scoprii cosa significasse tremare di fronte a un uomo, tremare di passione.

“Immagino abbiate fatto conoscenza!”, esclamò Reby.

In effetti era così, Sara e io ci eravamo conosciute tramite le mie dita e i suoi sospiri.

“Allora Sara, ora che hai conosciuto anche la mia cuginetta preferita, non puoi dirmi che non vuoi più venire a cena!” – Rebecca socchiuse le sue palpebre colorate di ombretto azzurro e cercò di convincere la sua amica – “Dai, Sara! Anche perché la prossima settimana parti!”

Partiva? Per dove? Perché? E il ritratto, che mi aveva promesso, avrebbe mai conquistato la sua esistenza? Avevo appena conosciuto una persona che stimolava il mio interesse.

Mi incuriosiva la personalità contorta e simpatica di Sara: le sue pause di silenzio, le sue inaspettate richieste, la sua fermezza mista alla sua apparente assenza. Il suo profumo, i suoi capelli, la sua pelle: c’era in lei un richiamo che destava il mio ricordo del Giappone. C’era in lei qualcosa di intangibile che ravvivava il ricordo tenue di Yaku. Era terribilmente irresistibile, come il suono di un tango che trasporta l’anima, lontana, pronta ad esser guidata in una danza sfrenata.

Rebecca posò le sue mani sulle spalle dell’amica, scuotendo la testa e con essa la sua chioma di riccioli tinti di arancione, mosse le sue labbra scarlatte e continuò a parlare:

“Non puoi abbandonarmi! Uscirai con noi! E non ammetto scuse!” -, poi si rivolse a me: – “Mari, diglielo anche tu! Dille che ti va che venga con noi!”

Misi da parte le mie domande e sorridendo dissi: “Sara, ha ragione Rebecca! E se poi è vero che parti, c’è un motivo in più per cui devi stare con noi!”

Fu facile convincerla e durante la serata scoprii il perché del suo viaggio. Andava in Francia, presso un’accademia prestigiosa. Si sarebbe sicuramente trasferita là per circa un anno.

L’avevo appena conosciuta, eppure già ne sentivo la mancanza.

“Non ti preoccupare: ti ho promesso il ritratto e io le promesse le mantengo sempre”-, lo sussurrò al mio orecchio.

L’odore del vino inebriava le mie narici, le bocche dei commensali si tinsero di quel carminio sapore, le lingue si insinuarono tra frasi e parole senza senso.

Io e Sara eravamo sedute vicino. Mi avvicinai incerta e le balbettai: “Quando hai l’aereo?”

“Parto mercoledì”.

Notai che fosse sabato sera e che solo dopo tre giorni non avrei più avuto la possibilità di star con lei.

“Martedì pomeriggio sarò da te” -, affermò fulminea.

Avvertii qualcosa di strano: il mio cuore iniziò a battere, come quella volta che mi trovai da sola con Mario. Un senso di vertigini si impossessò del mio corpo, l’odore di ciliegi in fiore invaghì la mia mente imbevuta di pollo al curry e un dipinto fatto di acquerelli bianchi e grigi o, meglio, fatto di delicate piogge primaverili, si aprì sull’immagine del Giappone.

Presto sarebbe terminata quella serata spensierata.

Presto avrei dovuto salutare tutti. Tutti, anche lei.

Presto mi sarei trovata sola nella mia stanza a chiudere gli occhi ricordando il suo profumo e aspettando con ansia quel martedì che sembrava lontanissimo.

Mi feci stringere forte dalle braccia di mia cugina e poi sentii i baci delicati di Sara.

Aprii la porta e mi diressi sul divano, dove mi sdraiai rivivendo la giornata nella mia mente.

Afferrai il mio vecchio carillon posto sul tavolino e lo aprii. Mi feci cullare dalle sue note cristalline come quando ero piccola, come quando all’ospedale avevo voglia di esser abbracciata da mia madre che non c’era. Anche a Yaku piaceva quella melodia. L’ascoltavamo insieme prima di andare a dormire, mentre ero appoggiata e ben protetta: mi sistemavo per addormentarmi, chiudevo gli occhi stanchi e mi intrufolavo tra le sue braccia in cerca di calore.

Il volto di Sara si era manifestato al tatto esitante delle mie mani, il suo ritratto si era inciso nella ragnatela della mia memoria: il contorno deciso delle sue labbra che tremavano timide era riaffiorato prepotente, squarciando la tela della reminiscenza.

Vibravano le mie palpebre e cercavo di rievocare la sua voce. Alzai le mie mani in alto e ricalcai ogni gesto delle mie dita, quando in piedi davanti a lei, stavo disegnando le sue linee. Cercavo il suo disegno nella mia anima.

Finalmente il martedì, ad un nuovo tramonto di un nuovo giorno, suonò alla mia porta.

Sorrisi. Ero stata in ansia d’incontrarla e corsi ad aprire la porta.

“Scusa per il ritardo, ma dovevo preparare le valigie” -, le sue scuse ebbero un infido sapore amarognolo. Mi fecero ricordare il suo viaggio che volevo rimuovere.

Arrivò penetrando la mia monotonia anche quella sera, portando con sé i suoi colori ad olio e un cavalletto che tenesse la tela.

“Mia cara Marina, farò ciò che hai fatto tu su di me. Mi hai ipnotizzata sotto il tuo tocco magico e hai conquistato il mio ritratto. Oggi lo farò io” -, lo disse scandendo le sillabe dolcemente. Allora mi sedetti sul divano e aspettai che la creazione avesse inizio.

“Parlami. La tua voce mi dona ispirazione” -, dichiarò spezzando il mio silenzio.

Sbattei le palpebre perplessa.

“Dimmi tutto quello che vuoi. Tutto quello che ti passa per la testa”.

E dunque parlai, di Billy, del pianoforte, degli amici, di Rebecca, di mia madre.

Intanto i colori che io possedevo, si fondevano al suo pennello. I colori a me ciechi si manifestavano a lei, capace di sposarli su di un foglio bianco.

“Stai parlando di tutto, tranne di quello che veramente ti sta a cuore. Svelami ciò che hai nel cuore! Voglio ritrarre i tuoi occhi. La vita che hai negli occhi quando parli delle tue passioni”.

Mi bloccai. Inghiottii la saliva, perdendomi nella sua voce infantile e decisa.

“Yaku!”- fu più forte di me ed esclamai il suo nome. Forse lo chiamai.

“Yaku? Chi è? Ti ascolto, Marina”.

“Yaku era un mio amico. Lui era il mio Giappone. Era mio fratello”.

Mi fermai per poter respirare e annegai nei miei pensieri:

“Sai, sono stata in Giappone. Ho ascoltato l’odore del sushi e del ramen. Ma ero chiusa in un ospedale. Lì conobbi Yakumo.

Lì mi accorsi di cosa fosse l’amicizia, di cosa potesse esser l’amore. Fu lì che affrontai le mie paure e che diventai più forte. Mi fu regalato un kimono di seta, dai genitori di Yaku.

Mi sentii all’improvviso una principessa quando lo indossai.

E sai, Sara, tu hai la stessa morbidezza di quel kimono e hai la stessa dolcezza e fermezza di Yaku”.

“Il ritratto è quasi terminato… Hai dei colori più che bellissimi. I tuoi occhi che brillano, Marina, i tuoi occhi sono…sono meravigliosi come il tuo Giappone” -, lo disse, sì, baciandomi con quelle parole.

Il sole se ne stava andando e giugno era alle porte di quell’anno che aveva donato tanto freddo.

Sara si alzò. Io feci cenno di smuovermi, quando mi rimproverò:

“Marina, ferma. Devo fare una cosa”.

Sentii il rumore di buste, della sua mano che cercava qualcosa e poi di una bottiglia che veniva stappata.

“Ti fidi di me?”

La sua domanda mi percorse il corpo, come un brivido.

“Ora cercherò di farti provare la stessa sensazione che mi hai regalato tu”.

Il suo dito, i suoi polpastrelli, la sua mano profumata di ciliegie si posò sul mio volto. Chiusi gli occhi e accolsi la sua pelle. Seguì i miei lineamenti, esplorò i miei contorni. Intinse la punta dell’indice in una bacinella: il profumo di fragole si fece spazio spalancando il mio olfatto, e il loro liquore rosso tinse la mia bocca.

Intinse la punta del medio in un bicchiere: l’odore di cioccolata fu devastante.

“Tira fuori la lingua”.

E così feci, mentre il cacao si impadroniva dei miei sensi e con esso rubai il sapore soffice della sua pelle.

Intinse l’anulare in un altro bicchiere: la fragranza del brandy arrivò subito alle mie narici.

“Apri la bocca…”

Rispettai il suo dolce comando e il suo dito fu succhiato dalle mie labbra.

Dopodiché sentii come il rumore di chi beve da una cannuccia:

Sara stava assaporando le sue dita e il mio sapore di cui si erano impregnate.

“Hai un buon sapore”-, disse.

Sentii le sue mani scorrere sulle mie spalle fino al mio collo.

Aveva accolto il mio viso e avvertii il suo respiro.

Le nostre bocche, la sua bocca, il sapore del brandy, delle fragole, il profumo del Giappone, del cioccolato, la mollezza dei suoi movimenti, la sua lingua, il mio buio si fuse alla sua luce.

Sara mi stava baciando.

I suoi colori presero vita nel suo sangue, la sentii muoversi e vibrare nell’aria come la corda di un’arpa, la sentii trapassarmi le ossa e dominarmi.

Un bacio, che partoriva altri baci, mi legò a sé.

Avevo il cuore che impazziva nel desiderio di toccarla.

Tentennante alzai le mie mani e accarezzai le sue linee.

Furono i baci più passionali della mia vita.

Anche se sorridemmo imbarazzate, ci scambiammo un altro bacio prima di salutarci. Non c’era bisogno di spiegazioni.

Eravamo attratte l’una verso l’altra. E il sogno del suo profumo e della sua bocca accende ogni volta il mio desiderio di sentirla nuovamente. Ho il suo ricordo ben delineato che si accende come il ricordo sfocato di Yaku. L’ascolto ogni notte al telefono: la sua voce mi incatena. E conto le ore che mi separano da lei. Calcolo la fine di quell’anno che sembra interminabile. Lei dice che mi saluta la Tour Eiffel, mentre io aspetto che torni da quella Francia, maledettamente attraente come un vampiro, che me l’ha rapita.

Ma lei tornerà da me.

Me lo confida ogni giorno: tornerà a far spazio nella mia oscurità.

Io l’attendo e mi confido con il mio amico Buio.

Ho sempre pensato che il buio avesse un suo profumo. Per ognuno di noi acquisisce quell’odore più familiare o che si è sentito una volta in tutta l’esistenza. Parlo di quel profumo che viene rincorso per tutta la vita e ricordato quando si chiude gli occhi. Per me il buio aveva la fragranza di Yaku, quel bambino che divenne il mio eroe, di quel bimbo che mi proteggeva dalla notte, dormendomi accanto. Ma dopo che conobbi Sara i profumi si sovrapposero, si fusero, divennero un’unica stupenda cosa.

Il buio acquisì il suo odore, l’odore del Giappone, del tramonto, dei colori ad olio: il buio, mio fedele compagno, ha il profumo di tutto ciò che ho amato.

Riuscii finalmente a capire allora verso cosa il mio cuore veniva trascinato. Grazie a Sara riuscii a trovare un contatto con me stessa e capii che il buio aveva il mio profumo misto, a tutti i ricordi splendidi. E che chiudendo gli occhi, prima che il sonno venga a baciarmi, posso riuscire a rievocare il magico profumo dell’amore, il magico profumo di tutto ciò che è stato, il magico profumo di Sara.

Questo è il profumo del buio.