I racconti del Premio letterario Energheia

Il nostro cielo è azzurro, Maddalena Trainotti_Cognola(TN)

Racconto finalista Premio Energheia 2020_XXVI edizionesezione giovani

Era appena scesa la notte e il piano aveva funzionato. La pioggia batteva furiosa sulle nostre teste mentre, correndo, ci allontanavamo dai soldati e dalla morte imminente. Gelide gocce ghiacciate ci colpivano dall’alto, bramose di ferirci e speranzose di fermarci. Noi però non ci siamo arresi, non me lo avresti permesso. Quando si accorsero della nostra mancanza non eravamo abbastanza lontani, il fango ci lambiva le ginocchia e cademmo più volte, riuscimmo comunque a rialzarci. Sempre. Presto la notte si illuminò al bagliore delle torce tedesche, freddi ordini vennero impartiti da rauche voci crudeli, il messaggio era chiaro: nessun sopravvissuto. Prima di scegliere la direzione da percorrere ci guardammo intorno, per un attimo disorientati, intanto un sottile strato di nebbia ci stava lentamente inghiottendo. Come progettato, una volta individuata la via, in silenzio, scarponi ai piedi e cuore in gola cominciammo a muoverci. Il cielo stellato sopra di noi era coperto da una coltre di scure e dense nuvole grigie che a tratti parevano diventare pennacchi di fumo, ricordo indelebile del nostro passato. Ad un certo punto, spossato dalla fatica, scivolai e, stramazzando per qualche secondo al suolo, mi parve di sentire l’odore pungente e acre delle docce. Non mi ci volle molto a rendermi conto che era tutto finito, o meglio, che stava per finire.

Abbassati” sussurrò la spaurita voce di un ragazzo nel mezzo di una qualsiasi notte del 1944. Uno spicchio di luna illuminava debolmente i visi magri e scavati dei due fuggitivi. Erano ore che avanzavano nascondendosi, strisciando sui gomiti per diverse miglia, verso est, verso la salvezza e verso il mare. Il più grande dei due, largo di spalle e di fronte, colui che aveva progettato la fuga, era teso come la corda di un violino, ad ogni minimo rumore si fermava e, circospetto, analizzava la situazione. I suoi occhi azzurri e limpidi, un tempo gai, ma ora cupi per i troppi orrori visti, si muovevano velocemente e instancabilmente, captavano ogni minimo movimento, terrorizzati all’idea di tornare a rivedere le sbarre. Dietro di lui invece gattonava un ragazzino che, nonostante la guerra l’avesse fatto crescere troppo velocemente, celava ancora, dietro la fronte corrucciata e le gote arrossate, l’innocenza della sua mancata gioventù. Quest’ultimo aveva il viso sporco di fango e, a differenza dell’altro che avanzava spedito e inflessibile alle intemperie, percepiva dentro di lui l’inesorabile avanzare del gelo che, partendo dalle punte intirizzite dei piedi, fino ad arrivare al largo naso rosso, lo stava lentamente indebolendo. Dopo una marcia che gli parve interminabile finalmente, sopraffatto anche lui dalla pioggia, il compagno gli aveva fatto cenno di fermarsi.

Stesi sotto un apparente pino, in realtà indistinguibile a causa del buio, i due, senza dirsi niente, lasciarono che la loro stanca mente fluttuasse verso il medesimo pensiero: il futuro. I loro sogni di libertà vennero bruscamente interrotti quando, di fronte ai loro occhi sbalorditi, un cupo e pallido raggio di sole fece breccia tra le tenebre della notte. Non avevano più tempo. Abbandonando ogni precauzione, con i soldati tedeschi sparpagliati a ventaglio intorno a loro, semi nascosti nell’erba alta i due ragazzi si alzarono in piedi e cominciarono a correre. Il cuore gli batteva forte, le misere e logore vesti che indossavano si sciuparono nella corsa lasciando dietro di loro una scia di polvere. Per un momento, uno soltanto, per un fugace attimo vedendo, prima piccola, poi sempre più vicina la costa i due fuggitivi provarono una sensazione che ormai avevano quasi dimenticato: sollievo. Durò poco. Un sibilo sommesso sfiorò l’orecchio del più giovane che, attonito si voltò in direzione del suono, nel frattempo, in un albero poco più avanti, un proiettile argenteo si conficcava nella bruna corteccia. Alle loro spalle, ritto in piedi, con la schiena rigida e le mani strette attorno ad un fucile, con un perfido ghigno stampato sul volto, un soldato tedesco li osservava. Due folte e scure sopracciglia incorniciavano altrettanti piccoli e luccicanti occhi porcini che brillarono sotto la tenera luce del sole. L’uomo non era certo giovane, una rete di sottili rughe gli segnava il volto arrossato e scottato dal sole, le labbra screpolate e sottili si incresparono presto in un ghigno feroce sfregiando inevitabilmente il volto del soldato. Lunghe ciocche di capelli scuri, vano ed evidente tentativo di assomigliare al Führer, gli coronavano la fronte e gli cascavano sul collo corto e arrossato. La divisa mimetica, composta da giubbotto e pantaloni non lasciava spazio a malintesi, quell’uomo era stato addestrato per ripescare i fuggitivi, sapeva quello che faceva e, a giudicare dalla larga cicatrice che gli attraversava la mano destra dal pollice all’anulare, era anche esperto.

Qualche attimo dopo, scoppiando in una fragorosa e agghiacciante risata, il soldato accarezzò la canna del fucile e, mettendosi in ginocchio per prendere meglio la mira, fece fuoco. Qualche parola però, sussurrata, giunse alle orecchie dei giovani prima degli spari: «Ein Volk, ein Reich, ein Führer», “Un popolo, un Reich, una guida”.

Il mondo parve fermarsi. Me ne stavo lì, fermo, senza capire. Fissavo l’uomo inginocchiato davanti a me. Perché era lì? Che cosa stava facendo? Inclinai la testa di lato e posi gli occhi sulla mia spalla, sorpreso vidi che, lentamente, la manica della tunica si stava tingendo di un rosso e scuro liquido nerigno. Allargai gli occhi stupito, girai il collo cercandoti ma non ti vidi al mio fianco. Qualche attimo dopo cominciò a farsi sentire il dolore e io smisi di respirare. Sentii le ginocchia cedere sotto l’incontrastabile peso della sconfitta che, vittoriosa, si faceva spazio nella mia mente. Agonizzante, troppo piccolo e insicuro per reagire, schiacciato dall’idea dell’imminente fallimento rimasi solo fermo. Mi concentrai sui colori attorno a me, vedevo il grigio delle nuvole che stavano lentamente cedendo il posto ad un’alba rosata. Il giallo pallido del sole nascente lo riconobbi anche nel riflesso di una pozzanghera vicino al mio viso, quando avvicinai la mano per toccarlo però, per toccare il sole, l’acqua si tinse di rosso e, con velata tristezza, mi accorsi che anche la mia mano perdeva sangue. Tu mi salvasti quel giorno, mi salvasti la vita. Allora perché io non riuscii a fare lo stesso?

Quando i primi spari risuonarono nel boschetto alcuni uccelli si alzarono in volo da un gruppo di cespugli, erano una dozzina di quaglie, non troppo grandi e spelacchiate che volarono via frettolosamente, sbatacchiando una contro l’altra. Sotto di loro, in una radura di verdeggiante erba alta ricoperta di rugiada mattutina e pioggia, un soldato stava guardando un bambino, speranzoso di togliergli la vita. Le quaglie però non erano le uniche ad assistere a questo triste spettacolo, da dietro un massiccio tronco di pino infatti un ragazzo con i capelli rossi fissava l’amico chiedendosi che cosa dovesse fare. Fermo davanti al suo assassino, il piccolo, lo guardava senza muoversi. La sua esile e gracile figura sembrava essere sul punto di venire spazzata via dalla brezza, che proprio in quel momento, si stava alzando. Quando il piccolo cadde al suolo, inerme, la reazione del rosso fu duplice, non solo abbandonò la propria incolumità ma salvò anche l’amico. Sotto una carica di proietti corse in contro alla morte urlando e agitando i pugni, i suoi occhi lanciavano scintille di rabbia, inevitabile risultato di anni di repressione.

A questo punto del racconto accadde qualcosa che nessuno, nel bene e nel male, si era aspettato, accadde qualcosa che scombussolò inevitabilmente la serie di eventi che tutti ci immaginiamo. Accadde che, il fucile si inceppò. Improvvisamente, sul prato scese il silenzio, il rosso non si lasciò distrarre dalla pausa del fuoco e, appena raggiunto il bambino, facendo leva sulle robuste spalle, raccolse il suo piccolo e minuto corpicino e lo portò via correndo. Il soldato intanto, occhi nervosi e mani tremanti, tentava di riaggiustare l’arma, ogni tanto alzava la testa e vedeva, ogni minuto più piccole, le sagome dei fuggitivi che si allontanavano. Non li rincorse, non ci provò nemmeno, forse non aveva la forza di ucciderli a mani nude, o forse temeva che la rabbia ingabbiata di due bambini strappati dalla loro vita a causa sua potesse esplodere e riversarsi su di lui. Magari invece, più semplicemente, la tremenda furia che lo possedeva, il suo innato e immotivato desiderio di uccidere degli innocenti si stava lentamente consumando. Forse, come una candela, anche il cuore di quell’uomo cattivo, di fronte al miracolo del sacrificio, si era sciolto. Comunque sia andata, quando il gruppo di tedeschi lo raggiunse lui non disse niente dell’accaduto, lo trovarono seduto su un masso, a lucidare la canna del fucile e a borbottare tra sé e sé.

Il sole di mezzogiorno brillava alto nel cielo asciugando con quieta mansuetudine il disastro della notte precedente. Il cielo era terso eccetto per qualche solitario fazzoletto bianco, ombra di quella che la notte passata era stata un’imponente nuvola carica di pioggia. Ai piedi di una pineta, poco lontano da una spiaggia sassosa con un piccolo porto di paese, un’anima si stava lentamente spegnendo. Con il capo sostenuto del prode compagno di fuga e la mano adagiata sul petto nel tentativo di sentire l’ormai debole battito del suo cuoricino, il bambino dalle gote arrossate ascoltava in silenzio il tenero rumore delle onde che, poco distanti, si infrangevano sugli scogli. In alto, liberi nel cielo, uno stormo di gabbiani cantavano, chissà quale canzone, allegramente. “Devo andare” sussurrò il maggiore all’orecchio del compagno ferito. “Devo prendere dell’acqua, se riesco del cibo, e trovare il modo di rubare una barca” si morse distrattamente il labbro “la barca potrebbe essere un problema”.

Avrei voluto ringraziarti ma non riuscivo a muovere la bocca, quindi tentai inumidendomi le labbra secche, ma tutto quello che mi uscì fu un rantolo disperato. Non riuscivo nemmeno a sorridere. Allora aprii gli occhi e ti guardai, non notasti subito che ero sveglio, stavi preparando un contenitore per l’acqua con delle grandi foglie e della corteccia. Poi sputasti per terra e con la saliva creasti del fango con cui ti ricopristi la faccia, partendo dalla fronte, scendendo sul naso, spostandoti sul mento e, infine, risalendo dalle guance ti ricopristi anche le orecchie. “Non ti preoccupare” dicesti con voce rotta e senza guardarmi “tornerò e tu starai meglio”. A questo punto la tua voce si ruppe a causa dei troppi singhiozzi. Fu la prima volta che ti vidi piangere, ti sfogasti da solo, agitando i pugni e soffocando i sussulti. Non durò molto, ti ricomponesti subito, non volevi mostrarti debole, non potevi. Quanto ti girasti per salutarmi chiusi gli occhi, non so perché lo feci, forse non volevo farti sentire in imbarazzo. Comunque sia quando mi lasciasti con un bacio e ti allontanasti, per la prima volta solo, mi liberai e lasciai che una lacrima sottile e solitaria mi scappasse dall’occhio. Scivolò lungo la guancia, delineando il contorno della mascella, fino a schiantarsi sui ciottoli spegnendosi. Improvvisamente sentii il bisogno di rendermi utile, qualcosa si ruppe in me quel giorno, forse la mia tanto amata vulnerabilità, mi girai su un lato e, aiutandomi con il gomito mi misi in piedi facendo qualche passo incerto. Dopo poco però sentii un atroce dolore alla spalla sinistra allorché nero e rosso diventarono un unico colore, danzando davanti ai miei occhi finché, spossato, non cominciai a pensare che forse, dopo tutto, i sassi che si avvicinavano sempre più al mio naso non erano poi così male.

Era appena uscito dalla barca, gli occhi gli pizzicavano ancora per lo sfogo, con una mano cacciò rapidamente via le intrepide lacrime rimanenti dopodiché, con voce tesa e irata, sussurrò fra sé “mai più”. Il rosso raddrizzò le spalle e si guardò intorno, non vedeva nessuno nelle vicinanze ma, per precauzione, rimase fermo ancora un po’. Con gli occhi a fessura e una mano a schermargli la fronte, osservò il sole che aveva da poco superato la metà del cielo. Ad ulteriore dimostrazione del mezzogiorno passato, il suo stomaco cominciò ad emettere rumori di protesta, quasi sorpreso, il ragazzo si rese conto di avere fame. Alzandosi in piedi, ma tenendo comunque la schiena abbassata, si mosse in direzione della spiaggia poco distante. Avanzò lateralmente per qualche miglio, stando ben attento a non lasciare impronte sulla sabbia rovente. Intanto, il vento che si stava alzando, oltre che minuscoli granelli di terra e pollini, gli stava portando all’orecchio anche l’eco lontano di voci umane. A questo punto, come paralizzato, il ragazzo dovette fare una scelta: continuare ad andare avanti, sperando di incontrare marinai e pescatori, o battere la ritirata, in modo da evitare eventuali soldati ancora sulle loro tracce. Deglutendo rumorosamente, con la pressione del tempo che, inesorabile continuava imperterrito la sua via, prosciugando lentamente gli ultimi momenti di vita del suo amico, il ragazzo decise di continuare. Un passo dopo l’altro, con la tensione che aumentava e le voci che diventavano sempre più forti, finalmente giunto alla fine del sentiero, il giovane allungò il collo oltre un muro di piccole pietruzze colorate, al di là del quale, seduti in cerchio a ridere e brindare attorno ad un fuoco, stavano un manipolo di soldati dalle inconfondibili fattezze tedesche. Terrorizzato all’idea di essere catturato, ma soprattutto di lasciar solo il compagno, il rosso si girò lentamente, intenzionato a tornare sui suoi passi. Con la coda dell’occhio però, notò qualcosa che lo incuriosì e, in un secondo momento, sconvolse. Poco lontane dal gruppo, due sagome minute giacevano immobili sulla sabbia bagnata, i loro corpi inermi mostravano evidenti segni di arma da fuoco e di lotta, i loro visi, gonfi e violastri, erano irriconoscibilmente indecifrabili. Al giovane mancò il respiro, cadde sulle ginocchia e, in silenzio, cominciò a singhiozzare rumorosamente, non riusciva a staccare gli occhi dai due cadaveri che, talvolta, sembravano ricambiare il suo sguardo. Non seppe per quanto tempo rimase a pregare, silenziosamente, per loro. Ma, quando il mare si tinse di rosso e il fuoco si ridusse ad un’incauta lingua bluastra che danzava sui neri carboni ardenti, due soldati si alzarono e, camminando storti, ridendo sguaiatamente ed inciampando di continuo, probabilmente ubriachi, si diressero verso la barca. Come percosso da una scossa di energia e vitalità, il giovane si raddrizzò e, inarcando le sopracciglia, li seguì, dapprima con lo sguardo, poi, cautamente, ripercorrendo i loro passi.

Inizialmente il ragazzo mantenne molta distanza da loro ma, quando si fermarono a salutare e chiacchierare con un palo di legno, lasciò stare le precauzioni e li superò, intenzionato a raggiungere l’amico prima di loro. Tenendo le orecchie ben aperte per non perdere di vista la loro posizione, cominciò a correre zizzagando e saltellando, allo scopo di diventare per loro niente di meno che un’indistinta scia colorata. Il tempo scorreva velocemente, gareggiando con le onde che si infrangevano sulla spiaggia, senza una barca, acqua o cibo, il rosso giunse finalmente all’ammasso di legna scolorita e crepata che il suo amico si ostinava a definire relitto. Lo trovò addormentato, immerso in un sonno profondo, per prima cosa gli controllò le ferite, la spalla si stava velocemente risanando, le bende erano fresche e impedivano la fuoriuscita di sangue. Non poteva dire lo stesso per la mano però, a contatto con la sabbia, le bende si erano sporcate e sciupate, quando le tolse infatti notò a malincuore che il buco che aveva lasciato il proiettile era sporco e, probabilmente infetto. Il ragazzo ebbe un attimo di sconforto, l’amico non poteva certo camminare, non ne aveva la forza, sembrava disidratato e, sicuramente, era anche affamato. Doveva trovare qualcuno che gli togliesse il proiettile incastrato nella spalla e un’imbarcazione per fuggire. Oltre agli innumerevoli problemi che già aveva e che stavano via via crescendo, pronti a soffocarlo, a quel momento di sconforto si aggiunsero anche due voci maschili rauche e cantilenanti. Alla fine ce l’avevano fatta, i soldati, seppur involontariamente, li avevano raggiunti.

Sentivo la tua presenza vicino a me, finalmente eri tornato, mi stavi controllando le ferite e cambiando le bende, percepivo comunque un’atmosfera di pesante negatività che aleggiava tra di noi. Nonostante aspettai pazientemente per diversi minuti non riuscii mai a sentire l’ormai quasi dimenticato sapore dell’acqua sulle mie labbra. Aprii gli occhi e ti guardai, notasti subito che ero sveglio e mi sorridesti mormorando parole di miele. Questa volta ricambiai. Mi guardai intorno ma non vidi nulla, niente cibo, niente bevande, corrucciai la fronte e ti rivolsi uno sguardo interrogativo, prima che mi potessi rispondere però, due voci, quasi completamente mescolate tra loro, ti interruppero. Parlavano senza senso e criterio, urlavano talvolta, spingendosi nella sabbia fine, poco dopo, alzando le bottiglie al cielo e spargendo birra tutt’intorno a loro, scoppiavano in una fragorosa risata. Singhiozzando a causa delle troppe risate, mentre noi, muti e terrorizzati li osservavamo da una fessura nella barca, esausti si lanciarono con le lacrime agli occhi verso il nostro nascondiglio. Trattenemmo il fiato. Si sdraiarono sul dorso della barca, il più magro dei due si era appoggiato con la schiena al fianco destro del relitto, l’altro invece moro e massiccio, ci stava sopra. Continuarono a ridere e parlare, ridere e parlare, ridere e parlare e urlare. Storsi il naso, puzzavano. Ti lanciai un’occhiata disperata ma mi accorsi che eri nel panico, non potevamo muoverci e l’aria viziata cominciava a farsi pesante. Ti sdraiasti affianco a me e, tenendomi per mano mi indicasti il cielo stellato, in silenzio rimanemmo quindi a fissare gli astri.

Il rosso guardò il compagno, si era addormentato. Anche lui aveva sonno, sentiva le palpebre pesanti e grandi sbadigli lo coglievano spesso di sorpresa, nonostante questo, si sforzò di rimanere sveglio. Chiuse gli occhi ad un certo punto, spossato, diligentemente però, pochi minuti dopo, li riaprì; davanti a lui, a pochi centimetri dal suo naso, anziché la volta stellata, a ricambiare il suo sguardo c’era un piccolo, miserabile e indimenticabile occhio porcino. Il ragazzo rimase fermo, come un’animale che si deve difendere, notò dei ciuffi di capelli neri che facevano capolino tra le crepe della barca, riconobbe anche la cicatrice che solcava la mano di quell’uomo. Come dimenticarla, come dimenticarlo. Il soldato batté le palpebre un paio di volte poi, con un grande sbadiglio, chiamò il compare: “Vieni Martin” ringhiò improvvisamente cupo “torniamo al falò che qui ho freddo”. Il povero Martin tentò inutilmente di ribattere con una lagnosa implorazione, in tutta risposta ricevette un manrovescio.

Due figure scure e barcollanti si stavano allontanando sulla spiaggia, diventando agli occhi dei ragazzi sempre più sfocate, come un ricordo che lentamente svanisce. Il piccolo si trascinò a carponi fuori dalla barca, una fresca brezza salata lo investì in pieno viso facendolo rabbrividire, inspirando profondamente e guardano il cielo scuro sopra di lui, il bambino non si accorse nemmeno di quello che aveva sotto al naso. Sparpagliati sulla sabbia, mezzi mangiucchiati e sporchi, i resti di quella che era stata la cena dei soldati, aspettavano, adagiati al suolo, di essere trovati assieme a due fiaschette di alcool. Quella notte, la prima dopo tempo immemorabile, due bambini si addormentarono felici, con la pancia piena, cullati dal dolce suono delle onde e accarezzati dal vento. Il mattino seguente vennero svegliati dal morbido bacio di un raggio di sole e dal sibilante suono della morte.

Li guardavo diventare sempre più piccoli dalla barca che si stava allontanando dalla riva a sostenuta velocità, la spalla mi faceva male ma resistevo, forse, pur non sapendolo, immaginavo che da lì a poco mi avrebbero salvato. Nonostante la felicità i miei occhi si riempirono di calde lacrime salate quando ti guardai, giacevi sul fondo della barca con la pelle ricoperta da insanguinate bolle rosse. “Non piangere” mi dicesti “ce l’hai fatta, siamo fuggiti”. Ti strinsi la mano. “Prima che me ne vada” tossicchiasti “dimmi solo, di che colore è il cielo”. “Azzurro” sussurrai “è azzurro”. Sorridesti un’ultima volta poi, la tua mano perse forza e scivolò lontano dalla mia.

Un soldato, con una cicatrice sulla mano e gli occhi umidi, rimase solo sulla spiaggia, ai suoi piedi giaceva una bombola orami vuota di gas accecante. Dopo poco dal mare, giunse alle sue orecchie un lungo e straziante urlo di dolore che si unì, per sempre, al tremendo senso di colpa di non essere riuscito a salvarli entrambi.