Futuro Remoto, I racconti Futuro remoto

Il futuro_Simonetta Sciandivasci

_Ogni volta che torno a casa dai miei genitori, la mia stanza è diversa. Tranne il letto, che, d’estate, ha ancora il piumone dell’inverno. I giornali nella cesta accanto alla scrivania hanno date nuove, vicine ai giorni in cui le notizie che raccontano sono accadute quando ero lontana.

Alle strade della mia città succede lo stesso. Tutte le volte, i negozi nuovi sono talmente tanti e talmente nuovi, che non riesco a ricordare cosa ci fosse al loro posto. Il futuro, mi dico, è questa cosa qui, questo spaesamento che sento davanti a posti familiari diventati, improvvisamente, estranei. Questo modo frettoloso di riempire gli spazi dei miei ricordi con qualcosa che li cristallizzi e li renda ininfluenti, irrimediabilmente irrecuperabili.

A me non piace il futuro: è un conto alla rovescia verso l’estinzione della mia famiglia e delle cose a cui mi affeziono per la semplice ragione che scandiscono il tempo. Mi piacciono le cose ferme, le trovo forti e fiere: è una mia debolezza, forse.

Le cose ferme che preferisco sono i nomi e i cognomi, che non si piegano a nessuna dialettica col futuro, ma lo affrontano in un’ appassionante sfida di imperturbabilità, esattamente come i Fori Imperiali resistono ai turisti e ai progetti folli e avveniristici dei laureati in architettura. È importante scegliere il momento in cui fermare le cose: dev’essere un istante in cui ci si sente sia ragionevoli che avventati, sia consapevoli che acerbi. Nella vita di ogni uomo, quei momenti coincidono con l’adolescenza e la felicità.

A sedici anni ce l’avevo meno col futuro di quanto non faccia oggi, mentre mi affaccio ai temibili trenta, ma ero comunque una conservatrice in potenza (in molta potenza). Sapevo che la mia capacità di essere avventata, coraggiosa e assoluta aveva una data di scadenza, oltre la quale sarebbe diventata un ricordo sul quale avrei dovuto costruire altro (per esempio il senso della misura) – un po’ com’è accaduto a Via delle Beccherie, a Matera, dove tutto c’è, tranne macellerie (che tristezza, che scempio, che malasorte).

Sapevo che il mio futuro sarebbe stato non molto più di un altro conto alla rovescia verso l’estinzione della mia caparbietà e della mia

fumantina tracotanza. Per questo scelsi quell’età per fermare alcune cose, di modo che almeno dentro di loro potessi lasciare viva quella capacità destinata a svilirsi. Presi un foglietto e scrissi i nomi che avrei voluto dare a mia figlia e giurai, parafrasando “Un medico” di De Andrè, che da grande non avrei mai tradito la bambina per la donna. L’elenco era il seguente: Prisca, Lalage, Aracoeli, Stuarda, Olga, Clementina, Lucia.

Il foglietto lo custodisco ancora, non come una reliquia, ma come un contratto. A sedici anni non mi rendevo conto di alcune cose:

– chiamare Lalage una povera bambina indifesa significa condannarla a una vita di sfottò e domande odiose (tipo “come si scrive il tuo nome, con la J?” oppure “sei cecoslovacca?”);

– il papà dei tuoi figli potrebbe non essere d’accordo con i nomi che hai deciso di dar loro;

– potresti partorire un maschio.

Oggi, mentre mi rendo conto di tutto questo (per quanto riguarda il punto 3, amen: vorrà dire che lo chiamerò Prisco e dovrà farsene una ragione), capisco che se davvero avrò la fortuna di avere dei figli, quei nomi – che adesso non sceglierei mai, neanche sotto tortura – li plasmeranno attraverso il coraggio, l’ardimento, la giocosità e tutte quelle cose che, in fondo, crescendo, ho perso per colpa del futuro e che, visto che, come dice mia madre “diventare mamme significa diventare reazionarie”, non sarei più capace di trasmettere loro.

Il futuro estingue il meglio, a volte: per questo bisogna pensare a come affrontarlo quando ci si rende conto di essere in quello che diventerà il proprio passato migliore.

Io da vecchia non voglio mica far la fine di via delle Beccherie.