L'angolo dello scrittore

Il buono, il brutto e (soprattutto) il cattivo della tecnologia: Il mondo nella dimensione Bezos, di Maurizio Canosa

(Prima parte)

 

 “La pandemia ha creato il mondo ideale per Amazon”, ha dichiarato qualche tempo fa Martin Angioni,  per quattro anni direttore della filiale italiana del colosso americano. Mentre la povertà mondiale continua a crescere, la fortuna di Jeff Bezos, patron dell’azienda, è aumenta di 73,2 miliardi dall’inizio della crisi pandemica, superando la cifra record di 186,2 miliardi. Insieme a lui, tutti i Paperoni del pianeta (molti dei quali operanti nel campo delle nuove tecnologie) hanno moltiplicato i loro guadagni da capogiro nel corso del 2020. E’ questo il radioso futuro che ci attende, disegnato dal magico universo hi-tech?

“Sei proprio un filosofo!” è l’espressione compassionevole che immancabilmente mi rivolge la “ggente” quando scopre che ancora uso il mio vecchio cellulare vintage invece di un iphone di ultima generazione. Probabile si pensi pure che utilizzi una manovella arrugginita per avviare l’auto, o un televisore analogico a transistor con una gigantesca manopola “on/off” dove vedere film degli anni trenta, in rigoroso bianconero. Il fatto è  che, anche volendo, un tale desiderio sarebbe impossibile da realizzare, perché una delle caratteristiche della tecnologia è di essere non solo, di fatto, obbligatoria, ma anche “esclusiva”, nel senso che tende a escludere coloro che non si conformano al suo lineare percorso temporale, quello del cosiddetto  “progresso”. I televisori analogici non esistono più, così come le auto avviate a manovella, le videocassette vhs, i treni a vapore e i mangiadischi. La tecnologia è il risultato di un sapere collettivo che molto più di altre discipline opera per selezione e non per accumulazione. Un sapere di tipo umanistico, cioè filosofico, artistico, letterario, è per lo più inclusivo, atemporale, non gerarchico, orizzontale. Potremo infatti sempre giudicare superiore la Divina Commedia, benché scritta ottocento anni fa, rispetto a “Cinquanta sfumature di grigio”, grande successo letterario del nuovo millennio, così come personalmente non devo vergognarmi se continuo a preferire l’antica Etica di Aristotele rispetto a quella ben più recente di uno Scheler. Ma provate a dire a un vostro amico che, ancora oggi, siete in cerca di un dvd per salvare un file, o di un modem 56k per collegarvi a Internet. Vi giudicherà un mezzo idiota. Certo non potremo giudicare superiore una calcolatrice del 1980 rispetto a un computer quantistico, così come non possiamo affermare che gli intrugli e le tecniche adottate dai guaritori del medioevo siano più efficaci dei farmaci e le tecnologie biomediche dei nostri tempi. L’intelligenza collettiva di tipo tecnico-scientifico è orientata per sua natura cronologicamente, è a suo modo spietata perché ha unicamente il futuro quale sua prospettiva, individua gli errori e progredisce eliminando i difetti e le mancanze delle tecnologie precedenti. Procede quindi, o dovrebbe procedere, seguendo unicamente criteri e obiettivi di efficacia ed efficienza. Ma la vita, io credo, diventa qualcosa di prezioso e nobile quando va al di là di ogni rigido processo di selezione, non  ostinandosi a seguire unicamente l’utilitaristico criterio di efficienza.

Con questo, so che non è possibile sottrarmi allo sberleffo dei più integrati. Il filosofo iperuranico, il filosofo dei castelli in aria, alla fine si rivela più terra-terra del più prosaico degli esseri umani, perché è questo che mi viene bonariamente rimproverato, di voler vedere la società del benessere tornare ai tempi delle caverne, quello che (e qui lo slancio di presunzione è al massimo) l’illuminato Voltaire rimproverava al nemico Rousseau.

Ma forse il compito fondamentale di un filosofo qualsiasi – intellettuale da salotto buono che sia o umilissimo manovale del pensiero – dovrebbe risolversi nel domandarsi una sola cosa: e cioè se un valore, un ideale, un determinato elemento di un sistema contribuiscono o no a migliorare la società in cui si vive, magari (se non si chiede troppo) cercando di rendere più felici le persone. Ora, posto che io mi inserisco senza dubbi nella seconda e poco altolocata categoria di pensatori, sono comunque convinto che, se non vogliamo dare per scontata la bontà assoluta della società in cui operiamo, se la accettiamo così com’è solo perché troppo faticoso sarebbe metterla minimamente in discussione, se dunque non ci rassegniamo a diventare esseri de-pensanti, bonari animali da gregge in copia conforme, occorre che ognuno di noi faccia sul serio una riflessione sul mondo in cui si trova a vivere  chiedendosi, per esempio, in che misura la tecnologia sia riuscita davvero a rendere migliore e più felice la nostra esistenza. Perché è questa, io credo, la questione delle questioni. Ci sono pochi dubbi sul fatto che la tecnologia sia diventata la vera divinità dei nostri tempi. Nietzsche parlava più di un secolo fa della “morte di Dio”. Bene, se immaginassimo una società come la nostra senza la presenza di Dio (una presenza che nessuno ha mai potuto testimoniare, siamo sinceri, e dunque molto poco presente) non faremmo fatica ad ammettere che non cambierebbe di molto, anzi resterebbe sostanzialmente immutata nei suoi fondamenti essenziali, negli stili di vita, nelle abitudini e perfino nei modelli di valore. Che Dio sia vivo o morto per il novanta per cento delle persone della civiltà dei consumi cambia poco, nella vita pratica di ogni giorno. Se proviamo a immaginare invece il nostro mondo in cui come per incanto svaniscano all’improvviso dalle nostre esistenze computer telefonini e collegamento internet andremmo certamente nel panico. Perché, riconosciamolo, si può rinunciare a Dio per qualche anno e addirittura per sempre ma non all’elettricità e al wi-fi per un paio di mesi. Insomma, io non mi rassegno a domandarmi fino a che punto si può considerare fonte di autentico progresso l’odierno e apparentemente inarrestabile sviluppo tecnico-scientifico, soprattutto se si considera figlio del progresso chi passa le giornate a smanettare su watts’up o a farsi selfie con telefoni da tre videocamere. In genere, pur con qualche inevitabile inconveniente da scontare, l’impatto dell’apparato tecnologico sulle nostre vite viene visto come qualcosa di estremamente utile e positivo. Per l’essere umano dell’emisfero occidentale la tecnologia si è sempre più rivelata col tempo come una formidabile e irrinunciabile protesi. Per quanto nei dibattitti e nelle conversazioni più alla moda si faccia a gara a decantare i bei tempi andati in cui si viveva più genuinamente nel grembo di madre natura, quasi ovunque si continua a pensare che i vantaggi della tecnologia (il “buono”) superino di gran lunga i limiti. Non solo, ma chi si permette di non adeguarsi al pensiero unico tecnocratico – non a parole, ma con gesti e comportamenti pratici – viene in genere visto con sospetto e, non di rado, tranquillamente isolato, bollato come un ingenuo e un po’ patetico Don Chisciotte.

Beninteso, la tecnoscienza nel corso dei decenni ha prodotto molte cose buone. E’ perfino banale ricordare che la medicina, per fare un esempio, ha decisamente migliorato la salute e l’aspettativa di vita di miliardi di persone. Banale ma non certo inutile, se si pensa all’importanza dei vaccini in un periodo come quello drammatico che stiamo vivendo, nonostante il serpeggiante e per certi aspetti anche giustificato scetticismo nei confronti di Big-Pharma. Come non si può nascondere che la civiltà del benessere nata e cresciuta tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo – con scoperte e invenzioni rivoluzionarie, dalla lampadina al telefono, dall’automobile agli elettrodomestici – rappresenti il frutto del progresso tecnologico di cui siamo tutti figli, nell’occidente industrializzato, e che sarebbe ingiusto e insopportabilmente snob rifiutare tout court. Ma che non sia proprio tutto oro quello che luccica, se siamo onesti, ognuno è portato istintivamente a crederlo. Solo che sono in pochissimi coloro che hanno la volontà e la forza di mettere veramente in discussione l’inconfessato dogma dell’onnipotenza positiva della tecnica, dove non c’è solo del buono da aggiungere a sommatoria, ma anche del brutto e, con buona pace dei tecnofili, perfino del cattivo.

Sul “brutto” non c’è in realtà molto da dire. Il fattore estetico, per quanto mi riguarda, riveste un significato  importante ma secondario. Osservare un impianto di depurazione di acque reflue in azione non sarà come guardare la Cappella Sistina, ma sulla sua utilità, in fatto di salute e tutela dell’ambiente, ci sono pochi dubbi. Così come non si può negare che una enorme pala eolica abbia un aspetto meno bucolico di un mulino a vento e di sicuro la sua presenza deturpa non poco il bel paesaggio delle nostre campagne, ma è altrettanto evidente che l’energia del vento che utilizziamo oggi grazie a questi giganti meccanici sia molto più pulita rispetto a quella scaturita dallo sfruttamento dei tradizionali combustibili fossili.

Quanto al “cattivo”, proviamo a rispondere a queste poche ma essenziali domande.

Lo sviluppo tecnologico ha davvero semplificato la nostra vita? Oppure: ha migliorato il mondo (e i tempi) del lavoro? O ancora: ci ha resi più felici, più sicuri, più liberi, moralmente migliori, o anche più intelligenti?

Ragioniamoci sopra, e sviluppiamo qualche considerazione in proposito.

 

Lo sviluppo tecnologico ha davvero semplificato la nostra vita?

Ecco cosa mi è capitato (insieme a migliaia di altre persone) qualche tempo fa. Il mio operatore telefonico mi avvisa che, nel giro di qualche giorno, sarò obbligato a registrarmi su xxxx per ricevere informazioni sui gigabyte e traffico residuo. Per farlo, mi fornisce indicazioni precise: dovrai inserire il tuo indirizzo mail che sarà la tua username, scegliere una password e inserire la linea dell’operatore, fissa o mobile. Se inserisci la linea mobile – mi ricorda con cortesia – ti invieremo via SMS un codice temporaneo (con le indicazioni della usermane che hai inserito). Bene, il problema è che il mio dispositivo non è in grado di ricevere sms. Niente paura, mi si dice chiaramente che per inviare e ricevere SMS dal PC, bisogna visitare il sito taldeitali dove è possibile leggere le istruzioni per la configurazione. Proprio come avviene con Whatsapp, si deve aprire l’app di Messaggi Google sul telefono, premere il tasto con tre pallini in alto a destra e poi toccare l’opzione “Messaggi per il web”. Questo fa aprire uno scanner di codici QR tramite la fotocamera, che sarà da puntare sul codice quadrato che appare sullo schermo del PC. Inoltre, selezionando l’opzione “ricorda questo computer”, sulla pagina del sito dei Messaggi, si fa in modo di accedere ai propri SMS sul PC senza bisogno di ripetere la procedura di accesso. Facilissimo no? Ovviamente – si preoccupa di raccomandarmi – il sito funziona se il telefono è connesso a internet, altrimenti non potrà collegarsi per inviare e ricevere SMS. Buono a sapersi, il fatto è che fino ad allora tutta questa procedura non esisteva, potevo ricevere le informazioni necessarie semplicemente collegandomi in rete, visto che immancabilmente in automatico mi appariva la home-page dell’operatore con tutti i miei dati disponibili. Senza contare che, da quello che è molto facile poter riscontrare, sono centinaia gli utenti che ogni giorno si lamentano perché non riescono ad accedere all’applicazione per mille motivi, e non per colpa loro. Semplificare, questa doveva essere la funzione prioritaria della tecnologia. Vi pare che ci sia riuscita? Se proviamo a ricordare la vita di noi vecchi dinosauri analogici negli anni settanta, possiamo davvero affermare che la vita di adesso sia diventata più semplice grazie alle nuove tecnologie? Seduti su un divano con in mano un telecomando con cui gestire ogni cosa, potremmo forse dire che l’ha resa più comoda, (se per comodità intendiamo l’inazione perpetua) ma certo non più semplice. Non è forse vero che ognuno di noi dispone di un numero spropositato di account, codici privati, password senza i quali non può più vivere, pena la morte civile? E che ormai la nostra identità reale, fatta di cervello, carne, ossa e sangue, conta sempre meno, a vantaggio di una fantomatica “identità digitale”? La tecnologia dell’età contemporanea non ha risolto i veri problemi del mondo, li ha solo sostituiti con altri.

Ha migliorato il mondo (e i tempi) del lavoro?

Come non ha reso più semplifice la nostra vita, allo stesso modo la tecnologia non pare aver semplificato affatto il lavoro. Tuttalpiù, si preoccupa di semplificarne le procedure, riducendo i tempi necessari per la produzione, in modo che si possano fare cento cose nello stesso arco di tempo in cui prima ne facevamo dieci. Il 22 marzo 2021 per la prima volta nel mondo i sindacati italiani hanno indetto un grande sciopero contro Amazon. Motivo? “Con la pandemia il volume di lavoro è raddoppiato e non sono di certo raddoppiati i lavoratori: ci sono carichi di lavoro insostenibili sia nei magazzini che per i driver”. L’esempio più eclatante di questa scandalosa distorsione della moderna civiltà tecnologica riguarda proprio Jeff Bezos. Fondatore di Amazon, il più grande colosso mondiale e-commerce,  Bezos è l’uomo più ricco del mondo, capofila di un mercato in continua crescita, che entro il 2021 toccherà l’incredibile cifra di 4.500 miliardi di dollari. La sua ascesa sulla vetta dei ricchissimi del pianeta è stata vertiginosa: si sta parlando di un uomo che nel giro di pochi anni ha accumulato un patrimonio personale che, al momento in cui scrivo, supera di molto i 180 miliardi di dollari. Il dato però diventa ancora più eclatante se si pensa che nel 2016 le sue ricchezze ammontavano a “soli” 71 miliardi. Ma il lato tragico della vicenda è che in Amazon l’esigenza della turboproduttività costringe spesso i dipendenti – per ammissione dell’azienda stessa –  a orinare nelle bottiglie di plastica, per non rallentare i tempi di consegna. Con ciò, si può tranquillamente affermare che Bezos meglio di tutti rappresenti l’emblema del drammatico sfondo che abbiamo di fronte, distopico ma più reale che mai, dove prodigiose ricchezze e straordinarie diseguaglianze economiche viaggiano appaiate, opposti segnali del medesimo malessere. Una realtà che noi stessi, col nostro stile di vita e i nostri comportamenti, giorno dopo giorno contribuiamo a creare. Perché siamo noi, stravaccati in poltrona, a chiedere che il mondo ci venga fornito ogni giorno a domicilio, siamo noi a fare i salti di gioia quando ci vediamo recapitare le scarpe da tennis o il forno a microonde poche ore dopo il nostro ordine d’acquisto. Ma non c’è solo questo.  Al contrario di quel che pensano i tecnoentusiasti, i dati reali sembrano davvero confermarci che la “disoccupazione tecnologica” rappresenterà il destino del mondo del lavoro nei prossimi decenni. Facile da credere: un robot non protesta per le cattive condizioni di lavoro, non sciopera perché non percepisce lo stipendio, non ha una famiglia da mantenere, non si ammala e non ti fa causa se viene sostituito, non deve gestire una gravidanza. Insomma, non accampa diritti.

Così, da un lato, ci si prospetta un futuro in cui la robotica e l’intelligenza artificiale sostituiranno gli esseri umani, dall’altro, già adesso ci siamo trasformati in esseri-per-la-produzione sempre più efficienti, sempre più rodati, obbedienti rotelle sempre più al servizio di un sistema fondato su una razionalità solo apparente, in realtà del tutto illogica e profondamente antivitale. Un sistema che, quando non espelle i suoi ingranaggi, li sfrutta finché possono risultare utili al suo funzionamento, sovraccaricandoli fino allo stremo. E il bello è che nessuno viene risparmiato. Oggi i manager delle grandi aziende, in questo non meno prigionieri dei loro dipendenti, si vantano di lavorare dodici quattordici ore al giorno, come i proletari nelle fabbriche del XIX secolo. Ma la tecnologia non doveva servire a liberare tempo da poter impiegare allegramente nell’ozio?  E’ così difficile immaginare un mondo, come suggeriva un vecchio slogan socialista, in cui si possa lavorare meno, anche grazie alla tecnologia, perché si possa lavorare davvero tutti? Invece pare che il buon senso latiti a tutti i livelli. Continuiamo ad essere stressati e assediati dal mito della produttività e della crescita illimitata, ma il paradossale destino che probabilmente ci attende è che questa forma di progresso malato forse non porterà alla diminuzione del lavoro, ma semplicemente dei lavoratori. Se è vero che il tasso di disoccupazione mondiale aumenterà vertiginosamente nei prossimi decenni proprio grazie all’automazione, capiamo bene la rabbia dei luddisti nel periodo della prima rivoluzione industriale.  Mentre la corsa ad un malinteso concetto di benessere ci costringe a faticare come muli per guadagnare di più e consentirci status più invidiabili e standard di esistenza economicamente più elevati, il lavoro umano, nel suo aspetto più nobile, fonte non solo di reddito ma anche di autorealizzazione, potrebbe letteralmente scomparire in molti settori produttivi e in tempi più brevi di quanto possiamo immaginare. Un’autentica catastrofe sociale ed esistenziale bussa dunque alle nostre porte. Eppure, la sensazione è che continuiamo a danzare sulla tolda del Titanic, senza turbamenti, senza pensieri, ma producendo ciecamente e consumando come forsennati, come e più di un secolo fa. Ancora per quando?

Ci ha resi più felici?

Perder tempo per una lunga passeggiata in riva al mare, o per la lunghissima lettura di un classico, o per una colossale dormita pomeridiana (perché no? Il buon sonno è uno dei piaceri più salutari, per chi può permetterselo), per una interminabile partita a tressette, per le infinite vecchie storie dei nonni, per una cena pantagruelica in bella compagnia, per una romantica notte d’amore o per darsi alla filantropia più sregolata. Se si pensa ai momenti della nostra vita in cui ci siamo scoperti più felici, ci si ricorda di quando abbiamo giocato con la playstation o di quando ci siamo innamorati, siamo stati con i nostri amici, o abbiamo aiutato una persona che ne aveva bisogno? Non credo sia retorico pensare che, nel percorso di una vita felice, quando non è dannosa, la tecnologia rivesta un ruolo del tutto irrilevante. Tutto ciò che nella vita ha un senso, tutto ciò che è veramente importante, resta al di fuori della sua sfera di potere.

(Continua)