I racconti del Premio letterario Energheia

Hannover, ovvero un’intervista per il dottorato. Pensieri, torsioni e bile, Marco Casali_Roma

Finalista Premio letterario Energheia 2022 – Sezione adulti

Prologo informale

Questo storia narra del mio viaggio per un colloquio di ammissione a un dottorato ad Hannover. Essendo alla fine il racconto di una classica intervista di lavoro, spero che ognuno possa ritrovarci qualcosa del proprio vissuto. Essa è diviso in nove parti.

Enjoy.

 

I

Nella completa assenza di preparazione spirituale per il viaggio che giungeva, sono uscito e ho chiuso la porta di casa dietro di me. Non c’era una gran voglia di partire né di passare importanti ore della mia vita biologica – alla fine del suo picco di spinta (26 anni) – dentro una moltitudine di scatolette di metallo lanciate a centomila chilometri orari ecc ecc. Ma il punto fondamentale è che in questo posto difficilmente raggiungibile mi aspettava la prova più importante della mia carriera professionale (ancora in fase embrionale e inesistente, tra l’altro). Ma nonostante questa epicità nell’evento, non agognavo affatto di portare a termine tale operazione.  Il treno che prendo è uno dei più veloci del mondo. Se esso partisse insieme alla luce…no niente… la luce lo batterebbe lo stesso. Nulla da fare, riprova tra qualche era della fisica, tecnologia dell’homo faber! Peccato, stavolta puntavo su trenitalia che credevo avrebbe piegato le leggi dell’universo. La scienza contro il brand. A proposito di brand e a proposito di economisti. Sempre più vediamo riflettere questi ultimi su come va il mondo. Sono convinti (loro) del fatto che, siccome l’economia fa girare il mondo, allora capire il mondo è capire come quest’ultima riesca a creare questa rotazione. Ma facciamo un po’ di logica di base. Se il pianeta ha come re un Re, e questo Re comanda il mondo, cionondimeno non possiamo concludere che il suddetto Re sia il mondo. Non c’è un rapporto di identità. Mi pare semplice. Devo esplicitarla meglio ‘sta metafora? Non penso. Come si fa ad escludere dalla realtà personale una parte cospicua di realtà esterna? Ma gli economisti, quelli con un giudizio metafisico forte, che tra l’altro sono quelli più di successo, lo fanno e lo fanno anche convinti. Comunque, sono dentro il treno verso Milano ed eccomi immediatamente alle prese con una di quelle nausee talmente potenti che agiscono da allucinogeni e pensi veramente di stare nella tua nicchia ecologica peggiore: in una barca (da ricchi) in preda al mare-senza-pensieri che infrange con le sue oscillazioni direttamente la parte interna del tuo stomaco e il tuo ex ipotalamo felice. Tuttavia, facendomi forza sul fatto che una barca non è un treno e un treno non è una barca, mi aggrappo a questo citatissimo principio di non-contraddizione di Aristotele per non vomitare con le orecchie gli occhi. Dovremmo indire un bando: dal primo del nuovo anno tale principio del virtuoso filosofo greco sarà vietato, chi ricorre a tale strumento filosofico concettuale sarà costretto a raccogliere gli occhi vomitati da quelli del treno di cui prima indossando una maglia in puro cotone con la scritta “per la pulizia e il decoro del treno sono al vostro servizio”.

 

II

Comunque arrivato a Milano Centrale lo smarrimento è una franca certezza. Nelle orribili arcate farraginose di una Milano che non mi ha mai amato per mancate presentazioni reciproche, prendo questo maledetto treno e via un’altra ora per l’aeroporto. Calvino dice (per me è vivo) che le metro di Parigi sono dei non-luoghi che permettono di raggiungere i luoghi. Io penso che Calvino era un dio ma troppo legato alla sua epoca di se-sei-scrittore-ti-devi-isolare-e-divenire-un-poco-laconico-e-puerile. Povero Calvino, si meravigliava che nella Parigi del sottosuolo nessuno notava se qualcuno andava in giro senza scarpe, ma non sapeva (ma saprà, guarda molta televisione lui) che oggi la gente muore e nessuno si gira (riferimenti alla cronaca cinese di qualche mese fa, giugno 2017).  L’aeroporto di Malpensa è un aeroporto di cui mi rifiuto di scriverne anche la più minima descrizione. Arrivo all’aereo e mi accorgo di un particolare non da poco. Ha le eliche! Le eliche! Ma non parliamo dei bombardieri della Seconda Guerra mondiale, forse la RAF aveva potenti monoposto con un cinematografico monomotore sulla prua che sembrava voler proteggere il suo pilota con l’impenetrabile rotazione delle sue pale. No, parliamo di un banale aereo civile a due eliche messe sulle ali. Certo sono due, se una prende fuoco l’altra continua a funzionare e noi facciamo solo una spirale fino a schiantarci contro le alpi (sì l’incidente l’avevo stimato poco dopo la partenza, quando uno inizia ad aderire meglio alla poltrona comoda della prima classe pagata). Meglio una spirale che una linea retta inclinata, caso di entrambe le eliche infuocate. Su questo non ci piove. La figura geometrica che descrivi prima della tua morte sarà fondamentale per stabilire in quale tazzina da tè ti rincarnerai. È determinante.

III

In aereo parlo con la ragazza tedesca seduata di fianco a me, vicino al finestrino. Iniziamo un’amabile conversazione di compagnia, lei parla italiano, ha un accento buono ma una plasticità molto ridotta. Parlo in italiano pure io ma sembra che devo capire pure io quello che sto dicendo. La differenza di lingue è sempre dura. Non è facile, do prova della mia migliore retorica – deve capire che c’è italiano (lingua) e italiano (tentativo di lingua). Penso che la lingua italiana sia quella che meno si presta a una rappresentazione brillante per unità di abitante. Tradotto, molti italiani non sanno l’italiano. Tuttavia, la bellezza che questa lingua esercita su me medesimo non è nata insieme ad altrettanto me medesimo. Nient’affatto! A me l’italiano non piaceva, mi ricordo anche gli anni fino ai quali questa patologia mentale ha continuato a esistere e a proliferare dentro il mio sistema linfatico: fino a poco dopo i 15 anni, quando bevevo sambuca e assenzio senza passare dal via. Comunque la ragazza me lo conferma, l’italiano si pronuncia come si scrive. Cosa curiosa, pensavo fosse per tutte le lingue così: ognuno ha la propria percezione fonetica precisa delle lettere e di conseguenza nella lettura emette il suono a cui esse corrispondono. Invece mentre per noi “A” è “A”, per gli inglesi “A” si pronuncia “EI”. E questo è l’esempio base, ma insomma, pensavo che le parole straniere per noi non si pronunciassero come si leggono, ma per la lingua di riferimento sì. Mito sfatato: molti francesi a volte non si ricordano come si scrivono le parole perché la fonetica non è sufficiente a risalire alla scrittura, pensa te. Lei mi dice che Hannover è un posto triste, “bello” ma triste e che lei è una cartiera, produce la carta per una grandissima ditta. “Hai presente la carta delle figurine panini?” “eh, sì”, “bene quella la facciamo noi”. Fortuna rara… Comunque si atterra – il peggiore atterraggio della mia vita, spero che dentro la cabina ci fosse un canguro appeso allo specchietto retrovisore in preda alle doglie del parto, perché solo così potrei salvare la professionalità di quei due buoni piloti. Insomma alla fine scrocco pure un passaggio in taxi, la cartiera abitava vicino al mio albergo. Nel taxi il conducente voleva a tutti i costi parlare con me in francese sapendo perfettamente che ero italiano e meno perfettamente, magari, che io non so una parola di francese. Quindi continuiamo una conversazione senza conversare, lui monologa in francese, lei dà direttive spigolose in tedesco, io eseguo una complicatissima sequenza improvvisata – ma non per questo meno spettacolare – di movimenti facciali, aggrottamenti di sopracciglia – prima una, poi l’altra, poi insieme – invidiabili a mio nonno che per dire “sì” oppure “allora ti hanno preso al dottorato?” o “mi hanno rubato la macchina perché sono vecchio e la lascio aperta” tira su di 3 centimetri  e mezzo (olimpionico) il poderoso sopracciglio destro (tenendolo in tale agonistica posizione per quasi quattro secondi buoni). La coreografia i passeggeri del taxi se la sono persa ma io ho fatto il tributo al mio nonno-maestro.

 

IV

Arrivo alla meta, un hotel abitato solo dai suoi lavoranti, una finzione governativa per ammazzare la gente e venderne i tessuti a ribasso. Cioè, c’ero solo io. Faccio il check-in, l’inglese dei tedeschi è perfetto – mi accorgerò presto che lo sapranno pure i feltrini delle sedie ‘sto inglese ad Hannover. Generalità, sorrisi, niente soldi, tutto pagato, sono qui per la mia “job interview”. Bene, vado in camera. Ho sempre odiato gli hotel per una cosa precisa: i corridoi completamente deserti in cui veramente non c’è mai nessuno. Pensi che la moquette sia fatta con la solitudine del corridoio fatta a pezzettini e attorcigliata in morbidissimi ciuffetti che io diligentemente calpesto per arrivare alla mia camera, la 306. Apro la porta, faccia sbalordita, che stanza, tutto nuovo, c’è la macchinetta del caffè, c’è la televisione, ecc. Crollo, o meglio, penso per 4 ore a come cazzo andrà questa intervista del giorno dopo, usufruisco di tutto quello che c’è da palpeggiare – tra cui una delle poltrone più serie e di pelle che io abbia mai visto. Colazione, non posso trattenermi dal dire che non me ne frega un cazzo di raccontare della colazione. Passiamo al mio stato d’animo. Quello invece è importante. Beh che dire, veramente penoso. Come se non avesse lavorato (lui, lo stato d’animo) per un anno a questo progetto di dottorato dannato. Sembra che tutto il mio affetto per quest’ultimo stia scemando senza soluzione di continuità fino a Lucifero che mangia contemporaneamente i tre uomini dannati (Cesare, Bruto e Cassio). Ora il quesito è questo. Se io l’intervista ce l’ho alle 4 e 45 di pomeriggio, e sono le dieci di mattina, cosa diavolo posso fare fino all’ora stabilita? Studiare con gli occhi vacui da vacca che bruca? Come pensate che l’abbiano vissuta questa cosa i miei nervi?

 

V

Solo un esperto nel settore “nervi e ulcera, come trasformali in metafora”, quale riconosco esser me medesimo, avrebbe trovato il modo di descrivere la mia condizione. Per fortuna che io sono accidentalmente anche me medesimo,  quindi posso con fiducia cimentarmi nell’ardua descrizione. Per rendere giustizia alla mia condizione attuale abbiamo bisogno di visualizzare i miei nervi come corde tese percorse in equilibrio da un gruppo circense a conduzione familiare. Tutti, mentre attraversano da funamboli il tratto nervoso, si cimentano nelle loro specialità: c’è chi fa il trapezio, chi si mangia un elefante, chi fa sedere un cane, chi cura i molari di un leone, chi fa la vacca. Questa famiglia dalle abilità fuori dal comune è costituita da: il cannone uomo (finalmente un cannone che si è deciso per l’antropizzazione), la giraffa stesa (la più bassa del mondo, vive così, se si alza perde il guinness), l’usignolo lordo, la barista imbucata, il tiratore di cucchiai e la sua rilassatissima assistente Ciotta, trapezisti soli, un orso solare, una zebra liquida ecc ecc. Tutta ‘sta gente mi sta sui nervi (le freddure sono solo per gli orsi polari, qua abbiamo invece i solari, focalizziamoci quindi sulle cose importanti e non cadiamo in idioti ammiccamenti a denti stretti). Passavano e ripassavano cercando in tutti i modi, durante il tragitto, di mantenere vivi i loro già citati numeri per lo show. Bene, la conseguenza di tutto questo, o “fuori metafora rispetto a tutto questo” (dipende dalla capacità immaginifica del lettore), è una crisi depressiva. Monta un feroce non riconoscimento di tutto quello che hai fatto (del tuo lavoro) che causa, a sua volta, il ridurre tutti gli sforzi di bile e sangue a ciuffetti di moquette del mio albergo (terzo piano). Penso sia un discorso molto psicologico e molto da uno che non si rende conto se il lavoro che ha fatto fa schifo o no. Comunque con questo stato d’animo mi appropinquo al colloquio. Sbaglio strada, ancora, sbaglio strada, ancora, sbaglio strada, mi siedo su un selciato, sbaglio strada, mi siedo su un guardia caccia, guardo il suo fucile, mi guarda e mi riconosce quale selvaggina facile, mi alzo e corro, sbaglio strada, giro a destra, “merda mi sono preso il suo fucile”, che freddo il metallo di un’arma, nei film non si percepisce mai il freddo del metallo che può custodire una pistola, che poi chi se ne frega certo, e poi invece quando si scalda dopo lo sparo? Arriverà quasi a 100 gradi celsius. Sbaglio strada, ancora lo stesso selciato, no è un altro, è un esemplare femmina di selciato durante il periodo dell’amore… magari se si incontrano con quello su cui mi sono seduto prima… che ne puoi sapere, magari sarebbe amore e prole fertile… ma alla fine non sono cavoli miei… non mi pagano mica per far accoppiare selciati. Oddio sono arrivato un’ora prima. Eccomi di fronte ad un piccolo cartellino di carta stampato da una stampante che stampa i cartellini di carta non ancora stampati (visto che solo dopo sono stampati e lungi da me voler sminuire il lavoro di una stampante) con lo scotch attorcigliato malamente (atroci sofferenze per lui, lo sento ancora urlare, voce metallica acutissima ma per le nostre orecchie inafferrabile) su una ringhiera nera che assorbe le grida, chissà quante ce ne saranno impigliate. Ma lungi anche da me voler fare antropologia fonetica di ringhiera, leggo: “for the job interview” da questa parte. Anche se “da questa parte” non è scritto “da questa parte” ma simboleggiato da una freccia grassoccia direzionata in una delle direzioni possibili del foglio bidimensionale. Mammamia quanto odio il limite prospettico delle frecce bidimensionali. Molte volte mi capita di leggere un cartello con queste suddette frecce e “simbolicamente”, il più delle volte, per questi audaci compositori di frecce, io dovrei andare o sotto terra (ma proprio sotto terra, a piombo, perpendicolare all’orizzonte fino al centro della terra dove fondono atomi di elio e idrogeno) oppure mi dovrei spaccare la testa su un muro di cemento armato che non fa passare neanche la paura e l’angoscia (non le trasuda, le riflette sprezzante) oppure invece che a sinistra (dove di solito bisogna andare) mi suggerisce “simbolicamente” di suicidarmi contro una piattaforma sospesa in un ipotetico quinto piano pensata per le future olimpiadi delle gomme da cancellare tristi. Se perdete il filo drogatevi, non è un mio problema. Ritornando alla mia situazione fattuale: un’ora ad aspettare che l’angoscia assuma materia e forma, processualità, causazione (diversa dalla mia bile), facce, nomi, cognomi, fronti aggrottate, bicchieri d’acqua severi, nasi direzionati ad un passo dal distacco facciale: 30 professori che ti guardano e attendono pazienti (e speranzosi) una tua autocombustione per tropp’ansia. Gongolo, non ho mai visto Venezia, ho i polpastrelli ricettivi, ma alla fine Venezia è turistica, non c’è più niente di autentico, non mi sono perso nulla.

VI

Penso a tutto quello che di bello c’è intorno alla mia vita ma sento solo i miei polpastrelli che mi dicono di fuggire e di aggrapparmi al più presto a qualcosa di sicuro e ben piazzato, possibilmente fatto di marzapane. Non faccio questioni, la sessualità dei polpastrelli al giorno d’oggi è ben nota e accettata, non sarò certo io a porre paletti di nessun sorta. Faccio tre giri intorno al palazzo, grazie a dio non ho un dio (non quello che sto ringraziando almeno) che mi insegue, che mi ucciderà, che mi spoglierà e mi attaccherà nudo sul suo carro e mi porterà in giro con i suoi cavalli scuri (non neri attenzione, solo scuri) intorno alle mura. Penso a questo ma non mi fa niente, figuriamoci stare meglio. Anzi, in tutto questo affresco visualizzo soprattutto i cavalli scalpitanti del carro e penso sempre più profondamente che sono degli animali assolutamente senza delicatezza estetica, come se la loro origine evolutiva risalisse, al momento esatto della loro speciazione, ad un cane che esplode dentro una mucca e la cosa funziona geneticamente: la chimerica matriosca si riproduce ed ecco che inizia la stirpe dei “cavalli”. La longilinea forma del cavallo deriva quindi da quel sottile equilibrio meccanico che si verificò eoni fa quanto una mucca spiccatamente elastica incontrò un cane dalla singolare forza deflagrante. Bene, ancora 40 minuti, non ho più voglia di leccare i muri e delirare, qua bisogna (a) evitare di morire di ansia; (b) far passare il tempo cercando di evitare di farmi esplodere la testa che, al contrario del cane, non porterebbe vantaggio evolutivo alcuno; (c) mi voglio sedere, l’ultima sedia l’ho vista in hotel. E in tutto ciò mi chiedo anche perché il naso debba arrivare sempre prima. Tutta una vita tu secondo e lui primo. Ecco due gradini, bene adagio i glutei sul marmo. Alcuni glutei sono di marmo (il ratto di Proserpina lo testimonia bene) ma nessun marmo è fatto di glutei. La ragione risiede nella fragranza di questi ultimi, infatti tirare su case di culi non converrebbe a nessuno. Mi interrogo intanto rispetto alla parola “job” nella denominazione “job interview”. Ma dico, come mai hanno specificato “job”?  è un dottorato alla fine, a Roma a volte neanche viene chiamato “lavoro” (si inventano tipo “borsa di studio”, “ricerca”, “legge i libri”, “sta’ a casa”, “ma che è lavoro?”, “quindi puoi non fa un cazzo, no?!” ecc.), mentre qua specifica “job”. Mi renderò conto in seguito che sto andando a discutere del mio progetto con un gruppo di professori, professionisti che gestiscono direttamente i propri soldi e decidono in prima persona, stile real business, a chi dare lavoro per incrementare l’efficienza della propria “azienda”. Ma tutto questo per fortuna lo saprò solo molto dopo. Mancano 10 minuti e ovviamente la vescica pretende attenzioni nonostante la sua nota elasticità e pazienza plastica. Cerco un bagno e ovviamente è in fondo al paese, su una torre priva di ascensore dove i rubinetti sono fuggiti e il sapone si è dato malamente ad una donna ed è suo schiavo sessuale. Niente bagno quindi. La vescica ha ora una capienza di un piccolo furgone a noleggio blu-non-temere. Ed è quasi l’ora. Inizio a farmi strada nel vialetto, giro alcuni angoli, non succede nulla, non si sblocca nessun meccanismo, nessuna porta dietro librerie, allora li riposo e mi rimetto in marcia. Affronto una piccola arcata degna di nota solo perché quando passo mi fa il favore di non farmi crollare addosso tutti i sette piani di cemento che tiene sulle spalle, altrimenti il ritratto dell’inutilità. Cerco di suonare, ma dove diavolo devo suonare, la statura media di questo paese è la stessa che nel resto del mondo, ad occhio dovrei trovarlo un bottone. Ah! è aperto, bene. Busso comunque, mi apre un tipo singolare, occhialetti che ancora più piccoli doppierebbero quelli di Gramsci e Marx (il secondo quando doveva leggere) fino a divenire circonferenza piena senza spazio per la lente (microscopico gettone). Mi fa due cenni per stranieri, cioè anche con la mimica mi fa sentire fuori posto. Ci spostiamo in una piccola sala con tutti i macchinari per avvelenarsi di caffè tutto il giorno, evidentemente quel posto doveva essere (parlo al passato perché ora hanno buttato giù tutto, asfaltato con un rullo e ricostruito un laboratorio dove fanno esplodere cani dentro mucche) una postazione di lavoro per ricercatori che “leggono i libri”. Mentre cerco veramente di rendermi conto quanto può essere capiente un furgone blu – per rilassare i nervi e far lavorare i tessuti elastici del mio corpo – il tizio mi invita ad accomodarmi davanti a lui che sbriciola un giornale dentro una tazza di caffè a fianco a una donna in piedi davanti alla fotocopiatrice che scannerizza, mi pare di scorgere, sempre la stessa pagina. Va bene nessun problema, posso reggere tutto questo. Non faccio domande e mi guardo intorno con fare di uno che cerca un estintore per lenire l’asma. Non lo trovo, l’asma non arriva e io mi bilancio meglio sulla sedia, duemila anni di design e io ho male alla schiena comunque. O potrei dire, milioni di anni di evoluzione e ancora si soffre di mal di schiena. O potrei dire, milioni di anni di mal di schiena e l’uomo è sopravvissuto lo stesso attaccato a essa. Con gli occhi rotanti scorgo un foglio con un elenco di nomi un poco stropicciato: sono tutti i partecipanti all’intervista di oggi, il mio nome è l’ultimo, sono divisi in due gruppi da otto con una pausa pranzo centrale e due pause caffè intermedie. Tutti i nomi sono depennati tranne il mio, realizzo allora che sono l’ultimo della giornata. È rinomato che l’ultimo a fare un colloquio di lavoro vince sempre no? Il furgone blu è pieno e io ho sete.

VII

Con i padiglioni auricolari, unico vero successo evolutivo di anni di faticosa selezione naturale (mica le schiene, insoddisfatte strutture curvilinee portatrici millenarie del fardello “uomo”), sento un vociare confuso proveniente da dietro la porta oltre la quale, presumo, si stia svolgendo il colloquio precedente al mio. È una composizione confusa di voci, dove pare che uno vocalizzi e gli altri tubino solo per fame sessuale, senz’amore alcuno. Ad un certo punto sento una frase in tedesco molto distinta e poi uno scroscio di risate. In quel momento mi sono immaginato chiaramente una pennellata di luce che, con una geometria che oltrepassa i più spinti disegni immaginifici di “Newton e il suo prisma erotico”, raggiunge dolcemente e senza fretta (malgrado il paradosso) l’inchiostro ancora fresco (ad Hannover si scrive solo con le stilo gonfie) della firma appena apposta sul contratto decennale di ricerca sulla vita, universo e tutto quanto di questo alquanto spigliato e brillante giovane ricercatore che intrattenendo con ilarità la commissione, è ancora ignaro del suo promettente futuro. La porta viene aperta, esce la giovane promessa della filosofia della biologia con accanto il coordinatore delle interviste, un tipo alto, più Dublino che Hannover. Mi saluta, una grande stretta di mano e battuta british che a me però fa veramente ridere e quindi rido senza riserve (realtà e parvenza questa volta coincidono). Mi rilasso un po’. Anche se tale affermazione, comparata al mio stato di ansia solida localizzata per la maggior parte della sua massa al livello dell’ipotalamo, significa ricominciare a respirare con il sistema respiratorio centrale (polmoni e bronchioli) e non più attraverso una diffusione forzata degli alveoli sudoripari diffusi su tutta l’epidermide. In altre parole, riprendo a respirare con i polmoni. Mi accorgo che la stanza verso la quale mi sto appropinquando è molto grande, con un tavolo al centro, e trenta professori seduti che secernono sebo senza sosta, senza però essere né prodighi né avari, una produzione giusta e politicamente corretta. Sono pur sempre professori, non si possono mica mettere a fare esplosioni di sebo che neanche l’ultimo dell’anno, devono infatti interpretare il contegno confacente alla loro carica. Saluto tutti, cerco di muovere i primi passi verso di loro, ma sono veramente troppi, non i passi ma loro, i professori. Attraverso per lungo la stanza che corrisponde anche alla lunghezza del tavolo e quindi alla doppia fila di professori seduti, ci metto un minutino buono, salutando e strimpellando “nice to me you” a destra e a destra (a sinistra ci sono vasi e finestre). Con un sorriso molto professionale, ma vero, co-tutela-Dublino-Hannover mi fa cenno di sedermi al centro del tavolo, in fondo alla stanza, dall’altra parte dell’uscita. Ho un enorme bicchiere d’acqua come microfono e unico vero amico lì dentro. Mi siedo, per farmi sentire da tutti devo urlare. Poi mi danno un microfono vero per usarlo come microfono, che mi permette di smettere di strillare dentro un bicchiere, e tutti torniamo a espletare le nostre funzioni originarie. Il direttore inizia a parlare, rimango basito. Mannaggia peppino, ma il tuo accento tedesco lo hai picchiato a sangue e lasciato dentro il cofano della tua moto inglese parcheggiata sotto casa della tua donna “che tanto a lavoro oggi ci vado con la macchina sua?”. No, perché capisco l’accento pulito, ma dio santo il gusto di avere una virgola fonetica della tua lingua di origine culturale mentre parli una seconda lingua non è solo importante è proprio estetica. Ho sempre pensato che se imparassi veramente una lingua mi terrei non di meno stretto quello spazio fonetico infinitesimo che mi rende sempre abitante, nonostante tutto, di casa mia. È importante, è un discorso antropologico, rimanere sempre attaccati, anche con il suono, alle proprie origini. Colui-che-ha-venduto-la-sua-origine-per-una-moto-inglese parla, mi presenta tutti i professori, un lavoro di circa 13 minuti, elenca tutti i loro nomi e io, che ho davanti l’abisso profondo, assimilo tale elenco come una stampella può assimilare il racconto di mia madre che parla di quanto negli anni Ottanta le cose erano colorate e avvenivano davvero, non come ora che tutto è una ripetizione del passato, e di come nonostante tutto, alla fine, lei è ancora “quaa ragazzina dell’epoca”. Comunque dopo il ventiquattresimo nome ho perso l’olfatto, al ventinovesimo il tatto. Al trentesimo nome il mio corpo chiede scusa e va via. Quindi io, ormai puro spirito tenuto ancora insieme dalla colla-ansia, inizio il mio discorso faticosamente preparato per mesi. Mentre parlo mi rendo conto che l’ansia è una bella struttura di contenimento in fin dei conti, infatti senza di lei penso che sarei esploso in quella stanza come quel cane dentro quella mucca in quel tempo così lontano dal mondo. Tutti gli studiosi mi guardano, sessanta bulbi oculari fissi sull’intervallo che va dalla mia fronte alla parte bassa del collo (anche se qualcuno, per dirla tutta, “scivola” anche più sotto, sul mio decolté fatto da una brutta piega della mia polo… buongustaio!). Mi viene un pensiero, ma non è che tutti questi sguardi mi bucano la faccia? No, capisco che scientificamente non è possibile, ma io mi sento come Woody in mano a Sid che, con una lente di ingrandimento, cerca di bruciare la fronte al povero cowboy. Il mio inglese risuona come una malattia mentale in un manicomio di fine Ottocento: ridondante e senza possibilità di miglioramento. Ma continuo la mia degenza. Parlo di Darwin, di come il caso (inteso come stocasticità, contingenza) sia molto studiato in filosofia solo ad un certo livello di organizzazione biologica, di come manchi un certo studio di questo concetto nella micro e macro evoluzione, i due termini ultimi del vivente. Penso che la vita abbia capito da un pezzo come il caso sia uno degli strumenti più potenti per creare variazione e diversità. Se tu metti una playlist e la imposti su casuale, la somma delle canzoni che sentirai non corrisponderanno affatto a quelle stesse canzoni messe nello stesso ordine una per una, subito prima dell’ascolto. C’è qualcosa in più. E non mi si obietti che è la “sorpresa” l’elemento magico della casualità, è una magra spiegazione. Cerchiamo quindi di non fermarci sulla superficie delle cose, grazie. Sorsatone d’acqua, appoggio le labbra sul bicchiere e mi accorgo di quanto è caldo il vetro di cui è fatto, bene, quindi la mia temperatura corporea rasenta oramai lo zero kelvin. Cerco di riattivare il mio sistema circolatorio calcando da morire le erre nelle parole inglesi che sto pronunciando per portare a casa questo contratto. La cosa sembra funzionare e il mio corpo torna, riparte e vibra. Si stabilizza ai 20 gradi centigradi, caratteristici dei cadaveri morti da poche ore, ma poco male. Grazie bicchiere, ti lascio il contatto magari con più calma ci si prende una birra insieme. Sto per terminare la mia mostra fonetica di oscenità e pronunce quando per la prima volta mi appoggio un poco di più sugli sguardi dell’uditorio.

VIII

Sono tutti figli di dio più o meno attenti alla mia voce (oramai rettangolare per l’inglese esanime). È più di un’ora che mugolo. Loro sono impassibili, ognuno un poco sporto in avanti per evitare di essere impallato da quello vicino. Ma dico, ma perché non fate i tavoli triangolari, in queste situazioni sarebbero essenziali, dico essenziali, un gioco di prospettive raro, in cui tutti i commensali potrebbero benissimo abbandonare i muscoli corporei sullo schienale della sedia quasi rasentando la morte celebrale e, cionondimeno, avere un’inquadratura ottimale del parlante di turno a capo tavola (cioè alla base del triangolo). Ma ora tale parlante sono io su un tavolo volgarmente rettangolare. Ecco, arriva una domanda. Dal nome del professore capisco che è uno in contatto con il mio professore da Roma, bene è dalla mia parte, mi aiuterà senza infamia e senza lode. Si inclina un poco più degli altri per porre la questione, oramai siamo tutti prede del gioco geometrico di prospettive e angoli. Mi chiede perché io penso che la concezione del caso (inteso come casualità) nella moderna letteratura scientifica sia “negativa”. No dico, ma di cosa vogliamo parlare. Tutti gli studiosi della stirpe “faccio-filosofia-della-biologia-così-evito-l’analitica e non-mi-spacco-la-testa-con-la-logica e non-sto-a-fare-la-ceretta-linguinale-a-personaggi-storici-oramai-morti-ma-che-da-vivi-dovevano-essere-di-una-noia–tale-che-non-si-è-notata-la-differenza-nel-momento-del-trapasso” scrivono del caso quale grande baluardo contro la possibilità esplicativa, ultimo vero nemico della scienza razionale (tranne che per Darwin, è chiaro…o forse non non è chiaro, ma non fa nulla). Il caso, così astratto ma così vicino ai sistemi di cui sancisce l’impredicibilità. Perché il caso è negativo? Il caso che non permette di fare previsioni, no dico sappiamo cosa vuol dire per uno scienziato non essere in condizioni di fare previsioni rispetto a quello che succede dentro la beuta o dentro la Palla di Peleo? Isteria o ossessione, a seconda del profilo psicologico del singolo scienziato in questione. Ora, non potendo fare psicopatologia della vita quotidiana (pessima, pessima citazione, me ne rendo conto) in quella circostanza, la mia risposta è soddisfacente come quando cerchi una spiegazione edulcorata per dare ragione stringente del profondo motivo per il quale il nero è nero (senza ovviamente ricorrere alla teoria della luce altrimenti si vince facile e l’esempio collassa su se stesso come penso che succederà a Parigi con tutti quei palazzi pesanti, quelle metro sottoterra, e quelle catacombe lunghe 100 chilometri situate sotto le suddette metro). Ovviamente la mia spiegazione cromatica senza ricorrere a Newton non piace, e mi sembra di notare come tutti, come in un sincro sul palco, storcano la bocca, nello specifico la parte più piana di essa per dare una più fisiognomico contrasto a tale distorsione. Il risultato di questa risonanza facciale di gruppo dà un suono cacofonico molto più suggestivo del “gre gre di ranelle” di Pascoli. Se lo dovessi riprodurre nel presente lavoro dovrei fare un immenso lavoro alchemico-uditivo di trasformazione, ma più o meno suonerebbe così: “creeepppete”. Non appena la cacofonia inventata termina io mi chiedo a che ora devo fare il check-out in albergo il giorno dopo. Ma non perché mi do per vinto, no (penso con tutta onestà di avere il contratto in tasca). È perché questi tipi non ti sanno proprio intrattenere e passo da uno stato di ansia mortale ad un altro di facile volatilità a temperature ambiente. Cerco di riprendere terreno affermando che nella mia ricerca vorrei lavorare a stretto contatto anche con i biologi evoluzionisti per cercare di corroborare e confrontare sempre meglio la mia idea e la mia teoria generale con la scienza pratica vera e propria. Una professoressa con i capelli rossi ricci e vitali mi risponde che loro, nel loro laboratorio, sono gonfi di biologi evoluzionistici, ne trasudano i muri. Bèh, che dire, meglio per me no? Però dai suoi begli occhi celeste-marroni capisco che ce ne sono così tanti e così bravi di questi biologi evoluzionistici nei loro laboratori che forse il problema è esattamente che non ci sarà un pertugio per me dal quale trasudare. Non c’è problema, non volevo portare avanti questo insano connubio tra architettura, cemento, umidità, conoscenza, scienza e corpi umani. Mio dio che immagine immonda. Alla fine sono contento di non essere murato vivo in attesa di evaporare dalle pareti (visto che, essendo narratore onnisciente, so che ad Hannover alla fine non mi hanno preso malgrado le sensazioni “positive” durante l’intervista). Co-tutela-Dublino-Hannover riprende la parola, siamo arrivati all’ultimo atto, mi preparo per la deflagrazione finale.

 

IX

Il Professore mi ringrazia vivacemente di aver fatto un viaggio di 1200 chilometri, di aver preso due auto e una metro per arrivare lì, di aver sudato bile di ansia dal giorno in cui mi è arrivata la mail di conferma dell’interview ad adesso e infine, a nome di tutti, di aver dato modo a quei volti normalmente pigri di fare un poco di ginnastica facciale. “Le faremo sapere più o meno tra una settimana”. Ripete: “è stato veramente un piacere”. Nessuna deflagrazione finale quindi, solo un tiepido congedo. Prendo la mia testa oramai gocciolante melanconia e liquido spinale e me ne vado da quel piccolo appartamento adibito a sanguinosi colloqui “di lavoro”. Esco dall’edificio e il mondo non c’è (!). No, non è vero, c’è ancora. Dispiaciuto? Bah, andiamoci a prendere un caffè va! Percorro le strade di Hannover con un inspiegabile e dissociato stato di euforia: è palese che non mi abbiano preso, eppure… eppure il mio corpo suona la tromba senza temere un domani. Trovandomi di fatto all’interno del suddetto corpo assecondo senza problematizzare. Ho il maglioncino in mano, fa caldo, entro in un negozio a caso, compro uno zaino a caso, e metto l’ingombrante maglioncino finalmente dentro lo zaino nuovo (quindi il negozio non era così a caso, era un negozio di zaini). Zainato così come mi trovo continuo a camminare per miglia e miglia, fino a che noto un piccolo baretto/chioschetto con le sedie celesti e i tavoli verdi. Ordino un caffè, mi dice che non posso pagare con la carta e che un bancomat è distante qualche anno luce, scavato dentro il ventre di una balena nella costa nord della Borgogna oscura. Ma non stiamo in Germania? Alla fine il caffè me lo offre, le dico “ma no ci vado volentieri in Francia per immergermi nei mari gelati dentro il ventre di una balena morta in una grotta a ritirare 10 euro”. Insiste, demordo facilmente. Mi siedo su una sediolina celeste all’aperto e poggio il mega caffè stile starbucks sul tavolo verde. Ma come sono belli questi colori. Mi rilasso, le spalle cercando di scaricare a terra la tensione, allungo lo sguardo sulla strada geometrica e pulita, osservo un edificio magenta fatto di piccole piastrine quadrate, un incrocio tra una basilica e un lego per 18 anni in su – livello difficilissimo -. Mi arriva una mail. La apro. “Siamo spiacenti di informarla che non è stato selezionato positivamente e che la commissione non le offre il lavoro, questo ovviamente non significa assolutamente che il suo progetto non sia di qualità ma, data la forte competizione, purtroppo deve capire…”. Sì, male ci sono rimasto, tipo che mi si è quasi aperta la scatola cranica con il cervello che voleva volare via e gli arti che si stavano per trasformare in numerose zampe, con il rischio di vivere il resto della mia vita da scarafaggio in un libro già scritto da terzi anni fa. Ma… Ma… ma alla fine cosa mi fregava? Cioè nel senso ovviamente era un’ottima occasione per la mia carriera universitaria, il dottorato, la speranza nel futuro ecc. Ma alla fine chi erano quelle persone, chi le conosceva? Volevo lavorare con loro? Erano brave persone? Penso che in questo tipo di situazione ci siano due “cose” sovrapposte. Occorre dividerle per vedere chiaro nel gomitolo di emozioni che seguono la ricezione del sopra citato messaggio. Allora da un lato c’è la speranza, inchiostro indelebile che cerca di macchiare tutta la realtà per trasformarla a sua necessità e somiglianza. Dall’altro c’è la realtà, ovvero l’università che mi ha convocato a fare questo collouio ad Hannover, chiamiamola Monsters University.  Questa Monsters University cerca semplicemente due o tre nuovi dottorandi per rafforzare il suo gruppo di ricerca molto prestigioso e ambitissimo in Europa per quanto riguarda la filosofia della biologia (e non solo). Questi due aspetti nel mio animo non sono mai stati separati (male!) e quindi, ovviamente, il primo tende a trasformare il secondo: lo sconosciuto gruppo di ricercatori si trasformano nei nuovi messia della mia salvezza ultima, trascendentale, eterna ed economicamente gonfia. Ma le cose non stanno così. Ho fatto 12-13 colloqui di lavoro all’università (finora!), con la speranza fissa di costruire una strada, ma di tutti questi nessuno mi fregava veramente emotivamente, erano tutti stranieri che andavo a conoscere/con cui mi andavo a scontrare, poi magari avrei vinto, ma chissà poi, di fatto, a cosa sarei andato a fare. Quindi dopo dinamiti di emozioni contrastanti e contrarie seduto su quella sediolina verde e questo tavolino celeste (sono cangianti e si scambiano le tonalità a secondo dell’umore del seduto di turno), mi sono girato e ho continuato a guardare la strada di Hannover così geometrica e pulita come lo era pochi minuti prima. Torno in hotel, festeggio la mia avventura, bacio la poltrona nera che più seria non si può, scendo alla reception, chiedo cose, mi richiudo in camera e dormo come un bimbo dopo una ricca poppata.