I racconti del Premio Energheia Europa

L’ultimo ebreo_Asher Salah, Gerusalemme(Israele)

_Racconto vincitore Premio Energheia Europa 2005_

 

I

 Distacco, ovvero racconto alla maniera di un desiderio inconfessabile

È da tempo che mi struggo, a causa di un fastidioso prurito interiore, per la voglia di estirpare dagli anfratti del mio cuore tutto il ciarpame che ne ottura il già misero spazio. C’è chi chiama quel coacervo miopatico e dispeptico di tessuti macilenti, con una certa iattanza, il “foro interiore”, ma la verità è assai più desolata; si tratta tutt’al più di una modesta stanzetta di servitù che, con un po’ di buona volontà, cercando di metterla in ordine, si potrebbe descrivere alla guisa di un salottino piccolo borghese arredato con scarso gusto e innegabile albagia.

Anche il possessivo è inadeguato alla situazione, magari fosse tutto mio! Lo condivido purtroppo con vari altri individui, sola compagnia rimasta di trascorsi e chiassosi sodalizi; uno di loro è russo, così almeno pretende lui per scrupolo aristocratico – dal nome e dalla tremenda fronte quadrangolare direi invece che sia nato in qualche sudicia valle caucasica, – da poco immigrato da queste parti, degli altri non si può ormai più definire l’origine, sembrano essere sempre vissuti qua, tanto il loro colore si è stinto sulle pareti, a meno che non sia avvenuto il contrario, per l’angustia del luogo, per lo struscio costante dei corpi con gli oggetti e le superfici ruvide e muffose del monolocale. Quando parlano, per fortuna assai di rado non volendo sprecare le loro scarse forze, finiscono sempre per litigare e vengono alle mani per quisquilie mettendo tutto sotto sopra e rendendo l’aria, peraltro già rarefatta, del tutto irrespirabile, intrisa di umori, insomma fetida.

Il demiurgo, così tra di noi amichevolmente chiamiamo il russo, l’altro giorno lesse ad altra voce da un vecchio giornale grondante di avanzi di frattaglie, rigurgiti alimentari provenienti da chissà quale contrazione ventricolare o dissesto diastolico, la seguente storia: il rabbino Kransky, di venerata memoria, un giorno si era svegliato malato, non che provasse dolori o avesse la febbre, ma sul dito mignolo della mano sinistra gli era apparsa una preoccupante escrescenza, un tumore che dire, o peggio – che Iddio ci liberi e ci scampi -, un canchero. Non sapendo cosa fare, i suoi allievi convocano dai quattro angoli della terra medici, sapienti di ogni risma, senza disdegnare neppure quei loschi ed ambigui taumaturghi che per giorni e mesi si avvicendano al capezzale del povero rabbi’, incapaci di definire quella che a loro appariva come una strabiliante e portentosa patologia. Nello sconcerto generale vi furono insensate proposte di ricorrere a fumigazioni, litotripsie, dialisi, lugane, bombe a mano, calci o bastonate, ma il canchero nel frattempo cresceva a vista d’occhio e da piccolo calletto, era ormai diventato un’aitante protuberanza che si intratteneva di Torà e d’altre scienze con il santo rabbino. Quando fu decisa l’amputazione, era troppo tardi, il canchero era ormai un uomo fatto e per giunta un saggio senza pari se non per l’appunto il maestro Kransky, che per via collaterale gli aveva trasmesso tutto il suo sapere.

Essendo il corpo del reato cosa fisica e tangibile, ovvero in carne, seppur metastatica, ed ossa, dure quindi a disfarsene, ecco dunque il problema più scottante, come liberarsene, come evacuare quell’ingombrante protuberanza cadaverica.

Cosa fare, adesso, senza infrangere la legge divina, di ciò che per quella di natura s’era prodotto? Ammazzarlo no di certo, che di suicidio si sarebbe trattato. Non restava indi che di accollarsi dell’impegno del suo mantenimento, finché non si giungesse al modo, se possibile ecologico, di toglierlo di mezzo, di evacuarlo.

Consumandosi l’uno e l’altro Kransky, indistinguibili per la mostruosa somiglianza, sulla cavillosa questione di come espellere definitivamente il fardello (loro, mio, nostro?) pensarono di provvedere, per intanto, a limitarne il miasma insieme al macabro disfacimento. Kransky si procurò degli strani intrugli che gli permisero di preservarsi in tempo, imbalsamando il suo allievo. Con questo però il problema rimase, anzi assunse una sua più plastica e composta gravità, suscitando attorno a tutta la sua persona, che deperiva a vista d’occhio, consunta dall’atroce pensiero che si portava addosso, i peggiori sospetti degli astanti. Cercò dunque di evitare i luoghi più noti, ove ognuno avrebbe potuto misurare il degrado fisico e morale, optando per un esilio-reclusione in una stanza, dove da lontano potesse osservare quel corpo anormale che se ne stava lì, con la sua bella cera, a sopravanzare di un buon tratto quella spenta sanità dell’insieme.

Finché un giorno barcollando, sembrò ai due rabbi’ di essersi dilatati tanto da non riuscire più a vedersi. Essi si girarono intorno, attratti irresistibilmente, dalla vertigine di quel vuoto abnorme ed apparente. Che il cadavere infame, di chi poi è lecito domandarsi, si fosse infine altrove dileguato? Che fosse insomma davvero sparito? Non fecero in tempo ad accorgersene, che le ginocchia loro si andarono afflosciando per il peso insostenibile, cedendo infine in un punto duro, implacabilmente adamantino, che dentro si fece pietra, compatta nel buio intorno al suo nucleo, di crosta opaca, mirando al freddo rappreso del piombo. Come un nocciolo più antico, forse prenatale, atavico strato in continua formazione che infine tutto invaderà, portando il corpo all’estrema stasi. Una vaga speranza di liberazione, di scialo, subito respinta dal ricordo del problema iniziale: l’impossibile rimozione integrale, senza sbavature, del degradato interno del mio cuore. Mi aiuterete voi ad estirparmi?

II

L’ultimo ebreo

Vostre Eccellenze ambasciatori, egregi delegati delle nazioni, spettabili ospiti qui convenuti in nobile consesso per affrontare le sorti del nostro disgraziato ed afflitto pianeta: considero un soverchio, quanto immeritato, onore l’essere stato invitato a prendere la parola per sottoporre alla vostra attenzione una testimonianza personale che reputo, in sostanza, trascurabile in rapporto all’assunto preminente per discutere il quale il simposio è stato convocato. Se non mi trovassi ad essere infatti l’ultimo rappresentante di una stirpe estinta, probabilmente il mio caso non avrebbe mai sollecitato l’interesse di tante insigni personalità e a stento avrei potuto immaginare che una esistenza altresì priva di avvenimenti salienti come la mia potesse divenire oggetto di altro che dei tediosi e fondamentalmente innocenti pettegolezzi del quartiere di periferia dove ho avuto i miei natali.

Proprio per non cedere alla deleteria tentazione dell’aneddoto – insipido o piccante che sia, pur sempre di retorica si tratta -, mi atterrò alla ferrea stringatezza che più si addice alla mia indole ritrosa e riservata. Sono fermamente convinto, infatti, che i miei antecedenti biografici e le traversie esistenziali che hanno marcato uno sviluppo e una decadenza tutto sommato normali, non riguardino altri che il mio medico curante o tutt’al più qualche trapassato oggetto di esauriti ardori, ormai anch’esso sommerso tra le indistinte pieghe di un impietoso oblio. Lascio quindi ad altri la fatica di chiosare sui significati reconditi della mia attività (riconosco al massimo una leggera propensione per la tassidermia, che pratico però saltuariamente e solo per ricambiare favori), che come tutte le scelte professionali, sentimentali, intellettuali della maggior parte dei miei contemporanei (e non) sono dettate dalle imponderabili contingenze proprie ad ogni percorso umano.

Il mio giudaico e postremo statuto non mi abilita inoltre che a profferire pretestuose generalità, solitamente prosaiche ed evasive, sulla condizione degli innumerevoli esseri da cui derivo peraltro un retaggio parziale, confuso e ormai sfilacciato. Che dire allora per evitare le velleità implicite nell’inane condizione di relatore ai margini di un convegno internazionale? Non avanzerò, dunque che una considerazione circoscritta alla mia esile ed eccentrica singolarità. Avendo sempre vissuto al riparo, ho attecchito bene nelle intercapedini delle certezze verbali e dottrinarie altrui. Purtroppo così mi sono esposto all’incriminazione di non essere, che una particella enclitica, peggio, una mera epentesi o – somma ignominia! -, una sonorità volgarmente imparentata a raccapriccianti rigurgiti gutturali. Ahimé, la realtà è stata ben più dura: alla stregua di una mansueta consonante, inudibile articolazione occlusiva assediata da aspre e rotonde vocali, mi sono consunto al punto di dileguarmi per lenizione.

Sono stanco ma affronto la mia assenza ventura con imperturbabile e fiduciosa serenità. Con la forza di una memoria antica o di una citazione ripetuta sino allo spossamento del plagio estremo, posso ormai sostenere con atavica certezza che, sopravvissuto agli agguati, alle epidemie, all’inedia, al gelo, se prima avevo creduto che lo scomparire fosse stato per i miei consimili la magnanima accettazione di una sconfitta; ora invece so che quanto più si eclissano tanto più affermano il segreto di una incomprensibile vitalità, e su lidi ben più sterminati di quelli continentali su cui si esercitano le brame delle moltitudini informi, ovvero “nell’intrico dei pensieri di chi resta”. Dalla penombra delle paure e dei dubbi di generazioni ormai ignare, quando l’ultima ombra della loro immagine si sarà cancellata, il loro nome continuerà a sovrapporsi a tutti i significati, a perpetuare la loro presenza tra gli esseri viventi.

Adesso, cancellato anche il nome, non mi resta che attendere infine di diventare una cosa sola con gli stampi muti e anonimi del pensiero, attraverso i quali prendono forma e sostanza le cose pensate.

Ma il tempo è giunto ormai di separarci, senza drammi né colpi di scena, in punta di piedi, esattamente così come sono entrato per confrontarmi con questo eccelso auditorio. Porgo i miei distinti saluti e tolgo il disturbo.