I racconti del Premio letterario Energheia

Dauphine_Giorgio Ricci, Alessandria

_Menzione Giuria quindicesima edizione Premio Energheia 2009.

 

Il bambino si è sporcato un dito e guarda fuori dal finestrino.

Scorre un paesaggio così colorato, così caldo per essere inverno. Ma lì non è inverno.

Prima ha sentito parlare i grandi e anche se non ha capito tutto, sa che in quella nazione africana sembra estate, anche se domani è l’ultimo giorno dell’anno. Hanno dovuto spogliarlo di qualcosa perché, uscendo dalla grande nave, c’era un sole proprio caldo e un cielo che lui vede solamente a giugno, quando festeggia il suo compleanno. E’ felice di essere nato a giugno, le giornate sono così lunghe, sembra non finiscano mai, e lui può sempre correre nei prati.

I grandi hanno detto che però lì il sole tramonta alle sei di pomeriggio. Va’ in quella maniera tutto l’anno, fa sempre caldo ma alle sei viene buio, magari a volte piove, ma oggi è una mattina di quelle che se lui fosse grande e potesse mettere gli occhiali da sole, sarebbe proprio meglio. Invece guarda fuori e stringe gli occhi, vede strani alberi che corrono al fianco della strada e non sa cosa fare del suo dito sporco.

È seduto sul sedile posteriore che sembra un divanetto bordò, i piedi non arrivano a terra, così i suoi sandali estivi – quelli con i due occhietti sulla punta – se ne stanno sospesi a prendere aria. Lui è un po’ schiacciato contro la portiera perché sua sorella grande si è messa tutta storta per capirsi meglio con il tassista. Il bambino una pelle nera così l’ha vista solo in certi film alla tv. L’uomo tanto nero che guida ha denti così bianchi che sembrano finti, ma ora gli pare di capire che sembrano super puliti perché stanno in mezzo alla faccia nera. È proprio simpatico, ride ogni tre parole e tiene un bastoncino in bocca, come se fosse uno spazzolino di legno con un dentifricio invisibile.

Sua sorella e il tassista parlano in francese e quindi il bambino non capisce una parola. Non ha nemmeno idea del perché non parlino africano, ma forse è sua sorella che non sa l’africano e quindi hanno deciso di usare il francese. Ha riconosciuto quella lingua perché ci sono tutte erre bagnate di saliva e a volte le parole escono troppo dal naso.

La mamma sta dietro anche lei, è all’altro finestrino e un po’ ascolta le parole francesi e un po’ guarda quella bella campagna senza erba e con alberi strani. Spesso si vede il mare in lontananza, ma poi arrivano cespugli di spine o una curva e il mare non si vede più. Tra l’altro sembra che in Africa si chiami oceano, ma il bambino non sa bene quale sia la differenza. Forse il mare è una cosa italiana. Quando il mare-oceano ritorna, vicino alla strada il bambino fatica lo stesso a vederlo perché è solo un attimo e lui è piccolo e deve allungare il collo e l’acqua tanto blu è solo dalla parte del finestrino della mamma. Tutte queste cose, purtroppo, non fanno vedere veramente il mare al bambino, che ha un dito sporco e non vuole farlo sapere agli altri perché non sa di che cosa è sporco e lui ha un po’ paura di saperlo.

Il papà è seduto di fianco all’autista, il posto in cui deve stare papà. Continua a guardare la sua figlia più grande e il tassista tanto nero, sorridendo perché un po’ capisce e un po’ è contento che lei parli così bene il francese. Una volta il bambino è andato a vedere dei cugini grandi che giocavano a tennis e ora suo padre sembra uno che guarda una partita di tennis, gira la testa verso il tassista poi sposta la testa verso la sorella grande che tanto bene parla il francese. Lei, ogni due o tre frasi, dice in italiano quello che il guidatore africano ha detto in francese, però il bambino non sta molto attento alla storia perché ha quel dito sporco di non sa che cosa e non sa bene cosa fare, se pulirlo sul sedile oppure dentro un fazzoletto, ma non vuole chiedere alla mamma il fazzoletto.

Il bambino, sa perfettamente su quale automobile stanno viaggiando verso l’oceano o mare che sia. Almeno, così ha capito, devono fare abbastanza chilometri e poi arriveranno su una grande spiaggia bianca, dove vedranno pescatori e tante mogli che aspettano i mariti-pescatori. Quello è quasi sicuro di averlo capito perché in quel momento è stato attento.

La macchina l’ha riconosciuta subito perché lui ha un modellino uguale a casa, che peccato non averlo portato fino lì, in Africa, ma come poteva sapere di salire su una Renault Dauphine? Lui ha sognato spesso di farsi ancora più piccolo e infilarsi nel suo modellino, ma non pensava proprio che un giorno sarebbe entrato in una vera. Nella sua città non ne ha mai viste, mentre prima al porto di Dakar ad aspettare i passeggeri della nave ce n’erano almeno dieci, tutte bianche, più una gialla. E lui che fino a quel momento non pensava che esistessero Dauphine gialle!

Dakar invece l’ha imparato quasi subito, è un nome facile e ha un bel suono. Non sapeva fosse così lontano, però. Con la nave ci hanno messo tanto, giorni e giorni di mare-oceano pieno di onde che a volte avevano come una cresta bianca in cima. Il bambino ha sempre creduto che la schiuma fosse una cosa delle onde sulla spiaggia e che al largo l’acqua fosse più piatta e senza onde, di sicuro non con la schiuma in cima.

Ha deciso di preferire il mare che c’è sulla spiaggia, almeno lì si sta fermi. Due giorni fà la nave ha incontrato così tante onde, alte e con la cresta bianca, che lui ha dovuto fuggire e nascondersi in cabina a vomitare la minestra che aveva appena mangiato, e poi è stato male ancora un po’ e gli è rimasto un gusto cattivissimo in bocca che faceva bruciare la gola.

Che schifo vomitare, si sente anche tutta quella puzza nel naso che fa lacrimare gli occhi.

Sì, meglio il mare sulla riva! Quello che ti bagna i piedi e non ti fa ballare.

L’autista guarda il bambino nello specchietto e a volte gli fa l’occhiolino. Il bambino però non sa bene cosa fare, se sorridere o chissà che. Intanto non è capace a fare l’occhiolino – se prova li chiude tutti e due – così abbassa lo sguardo e vede il dito sporco. Ha toccato qualcosa sotto il sedile che sembra un divanetto bordò e ha sentito qualcosa di unto e molle, si è spaventato perché lì è Africa e lui non sa esattamente cosa ci sia sotto i sedili delle macchine, in Africa. Non importa che sia una Renault, non importa che quella sia una Dauphine come il suo modellino, quella è sempre Africa e il tassista nero e simpatico, magari spalma della roba sotto i sedili. Appena si guarda di nuovo il dito, subito alza la testa e guarda fuori che gli piace di più. Questa volta anche non volendo ha visto sul suo dito una cosa che sembra brillantina, però più spessa, e senza colore, proprio come la brillantina che lui vede ogni tanto a carosello quando fanno la pubblicità, con quegli at tori che se la mettono nei capelli e i capelli diventano come bagnati e anche più scuri. Cosa ci fa della brillantina sotto i sedili di una Dauphine? Sarebbe meglio domandarlo a papà… Ma lui non vuole essere uno di quei bambini che fanno tante domande, così si tiene la brillantina africana sul dito e sta’ zitto. Dirlo a mamma proprio no, pulirsi sul vestito di sua sorella guai a lui, così abbassa di nuovo il dito e per un po’ non ci pensa più. Da qualche chilometro poi, gli gira in testa un’altra domanda, si chiede se il tassista parli francese perché guida una Renault, però ha come la sensazione che sia una domanda tanto stupida, anzi la più stupida di tutte, così non la fa. Meglio guardar fuori.

Fuori non si vedono città, e nemmeno paesini. Da quando hanno lasciato Dakar – quella sì che era una città con viali e traffico e semafori – da quando sono usciti da Dakar il bambino non ha più visto un vero paese. La gente cammina sul bordo della strada e si porta in testa dei fagotti legati con un nodo in cima o della legna che sembra proprio pesante. Dove andrà tutta questa gente? Non ci sono paesi. Non ci sono nemmeno marciapiedi. Alcuni prendono sentieri che si infilano nei prati, poi girano attorno ai cespugli e ai pochi alberi e spariscono subito, anche perché la Dauphine fila veloce e il bambino deve girare tutto il collo per poter scoprire dove va quella gente.

Le donne hanno un sedere così grande e dei vestiti colorati che, tanti colori insieme lui, non li ha mai visti. Gli uomini hanno le gambe lunghissime e sottili e camminano lentamente, un po’ come i cammelli che ha visto in un documentario, non esattamente come loro, ma quasi, anzi a dire il vero, proprio per niente. Gli dispiace solo averlo pensato, i cammelli sono cammelli e sono bruttissimi, gli uomini sono uomini.

Tutti guardano passare la Dauphine e fanno un piccolo sorriso, lo si capisce dai denti bianchi che luccicano in mezzo alla faccia nerissima. Nera come quelli dell’autista. Sono gentili a sorridere quando passa un’automobile, il bambino non ricorda se ride anche la gente per le strade della sua città, ma non gli sembra proprio.

Gli africani sono tanto gentili, se sorridono alle automobili.

Quante domande vorrebbe fare. Ma su quella macchina tutti sono presi a parlare francese o a capire il francese, e lui è un po’ tagliato fuori. Ricorda quando era ancora più piccolo e credeva che, nella piccola luce rossa del giradischi di sua sorella, si potessero vedere i cantanti cantare e suonare.

Passava davanti al disco che girava e metteva un occhio appiccicato alla luce rossa. Una volta aveva visto un intero complesso suonare, con chitarre e tutto quanto, era sicuro!

Poi l’aveva detto e l’intera sua famiglia aveva riso e l’aveva abbracciato dicendo che non poteva essere vero, così da quel momento aveva fatto meno domande sulle cose strane.

Però quella specie di brillantina che lui ha trovato sotto i sedili è una cosa che un po’ lo fa preoccupare. Comincia anche a fargli male il dito. Non è colpa di quella roba unta e grassa, il fatto è che lui tiene il dito abbassato e rigido da almeno un’ora perché non sa che farne. Quando aveva sognato di farsi piccolo per entrare nel modellino della Dauphine era stata tutta un’altra storia. Immaginava di guidare per le strade di Parigi.

Sa poco di tante cose, ma il nome di qualche capitale la conosce. Parigi, ad esempio. Lui sulla Renault a guidare per strade e stradine, per poi magari finire su una pista da corsa dove poter schiacciare ancora di più sull’acceleratore, anche se la Dauphine non è un’auto da corsa, ma da città. Un’automobile così carina. Il muso un po’ grasso. I fanali rotondi.

Sembra sempre fare un sorriso, la Dauphine.

La lanciava dalla discesa di cemento nel giardino e lei che andava sempre dritta e senza mai sbandare una volta. E lui a pensarsi dietro al volante. Ora è diverso, lui sta rintanato, il viso quasi attaccato al finestrino, a guardare un po’ d’Africa.

Fuori c’è sempre un bel cielo blu. Il sole batte sul vetro e fa scottare la pelle del bambino. Che dicembre diverso.

Qualcuno ha detto ventotto gradi, che sono proprio tanti per essere fine dicembre. C’è anche qualche nuvola bianca. Prima, all’improvviso una di loro ha coperto il sole per un secondo e c’è stata una differenza strana, come se lì in Africa il sole fosse più forte e le nuvole più spesse e tali da fare un’ombra più scura che in Italia. Un’ombra quasi cattiva, che gli ha fatto venire i brividi. Ma quella nuvola è già passata e ora il vetro brucia di nuovo la pelle del bambino in una maniera che non fa male e che a lui piace.

Passano mamme con bambini, li tengono legati alla schiena. I bambini africani hanno la testa senza capelli o al massimo con qualche ricciolino nero nero. Proprio una testa rotonda. Il bambino si chiede se anche lui, sotto i capelli, ha una testa così rotonda. I bambini africani sono legati alla mamma, stanno come fasciati nei vestiti colorati delle loro mamme, così non possono cadere. Alcuni dormono, con la testa rotonda all’indietro che ciondola, ma mica si svegliano.

Ecco una buca gigante! Questa volta l’autista ci è finito dentro con tutte e quattro le ruote. La strada è piena di buche, quando va bene, lui gira il volante da una parte e poi subito dall’altra e allora il bambino e la sua famiglia ondeggiano sui sedili e a qualcuno viene un po’ da ridere, perché sembra una gimcana. O uno slalom, che poi è la stessa cosa. Adesso si è sentito un bum e forse un trak, la buca era proprio fonda, ma non è successo niente di grave, le gomme non si sono forate e il tassista ride, come se avesse la raucedine in gola e poi guarda nello specchietto per fare di nuovo l’occhiolino al bambino che, di nuovo non sa cosa fare, così abbassa lo sguardo e vede il suo dito sporco di brillantina.

Gli capita di scoprire cosa vuole dire una parola quando meno se lo aspetta, e si dà dello stupido perché avrebbe dovuto capirlo fin dalla prima volta nel carosello. Brillantina: si chiama così perché i capelli diventano più luccicanti, sembrano bagnati e brillano. Ma il suo dito non brilla, è solo sporco e bagnaticcio. Che fastidio. L’unica cosa freddina dentro alla Dauphine.

Dai finestrini mezzi abbassati entra aria come di primavera calda, piena di odori di animali che il bambino vede alla ricerca di un’erba da mangiare che è solo a ciuffetti sparsi qua e là. Mucche diverse da quelle italiane, più magre e con lunghe corna. Allora magari sono buoi. Sono così magri che sotto la pelle si vedono subito le costine. Lui dice costine, e gli altri sempre a correggerlo: costole, costole. Se è solo per questo, quando era ancora più piccolo diceva samale e cimena e tutti giù a ridere come matti e a farglielo ripetere dieci volte. Ora che ha imparato a dire giusto, tutti vogliono sentire ancora samale e cimena. Che noia. Fuori nei prati africani ci sono anche delle caprette che corrono sempre da qualche parte, alcuni pastori cercano di raggrupparle dando piccoli colpi di bastone, ma non sono colpi forti e qualche capretta fugge lo stesso.

Intanto i sedili della Dauphine fanno sudare le gambe, mentre dentro ai nasi rimane un profumo di incenso di chiese, o candele di chiese, ma forse è il vestito africano del tassista che ha quel profumo, un odore di fumo umido che è un po’ una novità per tutti loro. Un vestito che è proprio un vestito, cioè non una camicia e un pantalone con magari una giacca, ma un pezzo solo e lungo, che scende fino ai piedi e che svolazza come una gonna. Prima l’autista ha detto che tornando a Dakar vorrebbe portare la famiglia italiana a casa sua, a conoscere la moglie e i suoi tre bambini. Chissà se in quella casa ci sarà odore di incenso, e chissà con che cosa giocheranno i bimbi africani, se con soldatini neri o con piccoli taxi Dauphine.

Quando sua sorella grande ha detto in italiano dell’invito dell’uomo africano, tutti sulla macchina sono stati in silenzio, quasi non sapessero cosa rispondere, così la storia è finita in un angolo, come in attesa. Magari quella specie di imbarazzo c’è stato a causa della lingua francese, o del caldo, o della stanchezza. Il bambino vorrebbe alzare un braccio e dire sì dai, andiamo che voglio conoscere i bambini africani ma, poi, non lo fa perché c’è sempre quel dito sporco da tenere nascosto e lui non vuole muoversi tanto.

Che brutta cosa non conoscere il francese, ma lui va a scuola da poco e non glielo insegnano. Sarebbe bello avere una maestra di francese, però.

Che brutta cosa non essere bravi a schiacciare un occhio per volta anziché due insieme.

Meglio non pensare alla scuola e agli occhiolini, ma guardare il mondo che vede correre fuori e che è tanto bello, non esiste il grigio e tutti sembrano in movimento, sembrano andare tutti da qualche parte, anche se è difficile capire dove.

Lì sì che camminano, però. La gente si ferma quando trova piccoli mercati che il bambino vede solo sfrecciare perché la Dauphine va tanto forte. Mercatini con strana frutta, più grossa e colorata di quella che lui mangia a casa. I mercati sono sul bordo della strada. Ci sono altre capre che tengono compagnia ai bambini più grandi, quelli che non dormono più sulla schiena della mamma. Bambini che hanno la sua età o che sono anche più grandi e che camminano scalzi sull’asfalto e sui sassolini aguzzi. Che male che deve fare, lui non ci riuscirebbe e si taglierebbe tutti i piedi. Forse è per quello che i bambini africani non sorridono, hanno i piedi insanguinati e non hanno voglia di sorridere alle automobili che passano su quella strada. È come se fossero arrabbiati, ma anche un po’ tristi.

Il bambino pensa che invece nella sua città è il contrario, gli adulti hanno i pensieri e sono seri, mentre i bambini sono sempre allegri e vogliono sempre giocare. Comunque le scenette da mercato durano pochi secondi, poi il mercato non c’è più, sparisce nella polvere. Bisogna dire che il tassista, che si pulisce i denti con il bastoncino, non rallenta mai. Che forza, la Dauphine. Il motore fa un rumore così bello. Come di macchina piccola che va forte.

Regardè regardè! Arivè arivè!

A forza di ascoltare il francese il bambino ha quasi capito le parole dell’autista. E poi non è difficile, lui ha frenato e sta indicando una spiaggia lunghissima che è apparsa all’improvviso, dalla parte del finestrino della mamma e anche davanti alla Dauphine. E poi sono parole che assomigliano tanto alle italiane. Regardè, arivè. Hanno lo stesso suono. La sorella grande del bambino non deve nemmeno tradurre, questa volta. Tutta la famiglia guarda dove il pilota africano, che li ha portati fino lì, ha detto di guardare. Che sabbia bianca. E quanta gente. Donne e bambini che aspettano. Tante barche in arrivo tra le onde. Cento barche. Mille barche. Il mare quasi sparisce tante barche ci sono. Il bambino rizza la schiena, allunga il collo e vede ancora più sole e ancora più colori.

Forse è la sabbia bianca a dare al mondo una luce così forte.

Che peccato non avere occhiali scuri. Ormai la Dauphine è ferma, e starà al fresco dell’ombra di un albero che è diverso dagli altri alberi africani, questo sembra italiano.

Il bambino non attende che mamma e papà gli dicano di scendere.

Ha deciso in un attimo: sta già aprendo la portiera e subito corre.

Ora sì, che sa cosa fare del suo dito sporco.

Corre verso il mare e non sente nemmeno che la sua famiglia gli grida qualcosa dietro. Vorrebbe fermarsi perché si ricorda di non aver chiuso la portiera e la Dauphine sembrerà meno bella con una portiera spalancata. Qualcuno intanto ci penserà, no? Allora lui continua a correre alzando troppa sabbia con le scarpe e ascoltando appena parole africane e voci di donne dai vestiti colorati. Sa che quei bambini che aspettano il papà sulla spiaggia lo stanno guardando perché deve essere parecchio strano vedere un bambino, non africano, correre su una spiaggia tanto bianca. L’odore di pesce crudo gli fa venire un tipo di fame che prima non ha mai conosciuto.

C’è tanto pesce nelle barche e nelle reti. Pesce d’argento che vede solo come lampi perché deve correre e non fermarsi mai.

Ah, come corre! La sabbia entra dentro i sandali dagli occhi, ma lui non se ne cura e tiene sempre il dito sporco ben sollevato.

Il mare manda un profumo forte e bello che lui non ha mai sentito, sarà l’odore dell’oceano. Ecco la differenza!

Che bello correre su una spiaggia nel mese di dicembre.

Che bello finire un anno così.

Tra poco laverà il dito nel mare e al ritorno, sulla Dauphine, non metterà più le mani sotto il sedile.