I racconti del Premio letterario Energheia

Tombe di granturco_Marco Bonfiglio, Catania

_Menzione Giuria miglior racconto da sceneggiare Premio Energheia 2000.

Desolazione. Intorno piano il mio mondo sta morendo. Colpi di pistola scandiscono il ritmo della distruzione, assordanti le bombe piovono: regali indesiderati di messaggeri corazzati. Doni avvelenati si aggiungono a fame e freddo. La nebbia ammutolisce le grida e la neve candida seppellisce i cadaveri di uomini ignari, indifesi. Attendo la pace, vana speranza di un evento che mai giungerà. Per le strade la miseria corre veloce ed i suoi passi risuonano cupi sul tracciato delle vite. Immortali spettri ritratti in frammenti di vetri spezzati. Sognano con noi i cari dispersi, pensano e insieme pregano, maledicendo invocano vendetta. Nessuna lacrima lava i volti dei bimbi mutilati, seduti aspettano anch’essi nuove gambe, nuove braccia, nuove armi. Dolorosamente piagati girano per le strade, nudi e ciechi elemosinando briciole di civiltà; vagano senza sfiorare la terra secca, inaridita dal massacro. “Pace”: le scritte sui muri come incisioni sulle lapidi, vesti stracciate come crisantemi, carni putrefatte divorate da viscidi parassiti, ossa tra denti di cani scheletrici, senza coda, sanguinanti. Li guardo camminare nel nero della notte. Senza musica ballano, deformi si intrecciano accarezzandosi, logori leccano via la polvere dalle mani.

Scalzi, i sassi dilaniano la loro fuga verso il mare, sperano di bagnarsi ancora una volta, l’acqua salata seccherà le loro gole, infiammerà i loro occhi di nuova rabbia. Sono solo, in ginocchio aspetto appoggiato al rudere carbonizzato di una casa, mi nascondo nella polvere dagli spari degli assassini. So di dover scappare, desidero salvarmi, raggiungere il mare, fuggire. Da lontano riguarderò il mondo perduto, inorridito osserverò i carnefici scuoiare la preda, digrignando i denti si contenderanno il cadavere facendone brandelli che ingoieranno avidi; ascolterò turbato i rantoli del condannato che in labili tentativi cercherà di sottrarsi alla sconfitta, ma stremato cadrà esanime. Devo allontanarmi in fretta, correre verso il mare, devo partire se voglio salvarmi.

Gli occhi mi si chiudono pesanti ed il corpo non risponde al richiamo di salvezza, ipnotizzato da un torpore maligno. Non riesco ad alzarmi, sempre più cupi i rumori che mi circondano, non vedo più nulla, tutto diventa nero. Devo scappare, ma sono stanco. Devo fuggire, ma ho sonno. Andrò domani. Se sarò ancora vivo.

Non so che ore siano, il mio orologio si è fermato da tempo, ora segna le tre, a volte riprende ad andare avanti, mai con continuità. Il sole è alto in cielo, pallido non riesce a risvegliare nessuno dei miei amici morti, non è più capace di dare vita né alle piante né agli animali.

La nebbia inizia a raggiungermi; speravo, qui sulla collina, di essere al sicuro, ma eccola che arriva, appiccicosa si trascina e riempie ormai le mie vesti. Poco importa, è tardi, devo iniziare il viaggio, muovermi, camminare; non porto niente: non ho niente, non mi è rimasto nulla, della mia miseria mi è stato rubato tutto, vado avanti consumato dal freddo e dalla fame. Non vedo che a pochi passi di distanza, la bruma è densa, ingombrante, ma so in che direzione andare, la strada da percorrere è logora per i passi del viandante, in migliaia ci muoviamo, isolati nella foschia, verso la stessa meta, con uguali speranze. Spesso inciampo, cado a terra e mi rialzo, senza perdere tempo, senza pulirmi continuo a camminare; mi ronzano sempre le orecchie, sento pulsare le tempie con violenza, lo stomaco si contrae ad ogni passo, le fitte sono dolorose, a volte insopportabili, si alza il loro lamento in un rumoreggiare sordo e di giorno in giorno imparo a sostenere la fatica, ad accondiscendere al dolore con nuova volontà di sopravvivere. Sono stanco, ho camminato a lungo, rallento, sento il sudore che mi cola sulla fronte e giù per la schiena; ho pestato dei sassi, mi abbasso per guardare e vedo dei chicchi di granturco, li raccolgo eccitato e me ne riempio le tasche, alcuni inizio a masticarli, lentamente, risvegliano i muscoli della mia bocca lungamente addormentati.

Sono piccoli e teneri, alcuni gialli, altri meno maturi, ancora bianchi, non hanno nessun sapore ma placano la mia fame, deliziosi si schiudono tra i miei denti, invitano il corpo a gioire del nuovo pasto; intratterranno l’intestino impigrito ricordandogli il lavoro da svolgere.

Le briciole delle pannocchie sono disordinatamente disposte in fila, mi allontanano dal sentiero ma non so resistere; a volte le tracce si infittiscono altre si diradano finché giungo ad una piccola montagnola di cibo per galline, arriva al mio petto, rimango senza fiato, per molti giorni i miei pranzi e le mie cene si sono limitate alle radici di qualche pianta senza frutti e adesso finalmente ho del cibo.

Affondo le mani nell’irreale piramide e mi riempio la bocca dei semi dorati, li stipo nelle tasche, nei risvolti delle maniche, preparo le provviste pensando al viaggio; proseguo a scavare finché lo tocco. Ritraggo la mano impaurito dal freddo della carne morta, dai buchi che ho aperto escono zampettando degli scarafaggi, terrorizzato cado sulla schiena strisciando velocemente indietro, con un piede in un gesto involontario calcio il castello d’oro frantumandolo in mille pezzi. Dai resti viene scoperta la carcassa decomposta di un pollo, affogato dal suo mangime e da esso seppellito, due insetti neri si contendono la cresta rossa dell’animale, insegne regali della tomba. Inorridito mi alzo e corro ma agitato non riesco più a trovare la via; supero altre costruzioni di grano, conosco il loro segreto e le guardo nauseato.

Sento dei passi. Appare una sagoma, la chiazza amorfa esce dalla nebbia e si rivela una vecchia. Curva sotto il peso di un sacco dai cui buchi rotolano chicchi, si muove a fatica, imitando il verso delle galline, chiamandole con voce monotona: “Venite.. Venite a mangiare…”, ripete le parole cantilenando, sparpagliando a manciate il granturco del sacco. La donna gira intorno agli animali morti, sembra che vi debba inciampare sopra ma li scansa tutti e continua il suo percorso.

Resto immobile, incuriosito, vorrei avvicinarmi e parlare con lei, ma il coraggio di interrompere la sua cantilena mi vien meno, così la seguo e mi accosto di qualche passo e vedo che le orbite della contadina sono vuote! Non riesco a trattenere un moto di stupore e la vecchia girandosi verso di me con una smorfia di paura grida: “Chi è là? Chi è là? non fate male alle mie galline!”. Scappo, ritrovo la strada e sento in lontananza le grida che si spengono nella loro eco.

Ripenso a quello che ho visto. Le scene scomposte in fotogrammi si ripropongono alla mia vista colorite di nuove sfumature, capaci di evocare nuovi sentimenti, nuove impressioni. Rivedo la povertà degli stracci che la donna indossa e mi sento spinto alla pietà; rivedo l’atroce sfregio di cui è stata macchiata e provo orrore, a cui si aggiungono odio e rabbia verso gli aggressori capaci di un simile gesto di ferocia su di una vecchia inerme. Stimolato da tutte queste immagini giuro vendetta contro gli invasori. Recuperato il fiato proseguo nel cammino.

Giungo intanto in una valle paludosa, seguendo il sentiero arrivo ad un bacino d’acqua stagnante che, in parte prosciugata, mostra il fango del fondale. Ho molta sete e mi avvicino; sciacquo prima le braccia e poi il volto e unite le mani a forma di calice le riempio del liquido verdastro. Vedo i tagli sulle dita, il sangue raggrumato è scuro di sporcizia, avvicino le labbra per bere ma lo sguardo prosegue e si ferma sulla testa di un bue che dallo stagno mi fissa. Girando intorno il capo scorgo cadaveri di uomini e di animali, un’intera mandria di mucche, annegata nella melma d’acqua torbida avvelenata dagli escrementi.

Per fortuna non ho ancora deglutito e sputo il sorso che avevo succhiato, con la tela della camicia asciugo la lingua e infilando il tessuto fino alla gola raschio via tutto con disgusto, spinto dal terrore; con un gesticolare convulso mi ripulisco i denti dai fili vegetali morti che mi avrebbero ucciso. Ritorno sulla strada mi stendo supino e spalanco le braccia, fisso la cupola grigia che opprime l’esistenza del mio popolo, il colore rimane lo stesso dietro le lacrime, vacuo e irreale è immutabile, rido sempre più forte, il sangue scorre sulla pelle del mio volto fino agli angoli della bocca, assaporo le lacrime salate e calde, unica acqua di cui mi sia concesso dissetarmi. Asciugo il viso, mi rialzo, consapevole dell’inutilità del piangere, odo in lontananza un ronzio soffuso, insistente che si ripercuote tra gli spettri della palude, che sembrano danzare intorno ad un albero squamato di muschio.

Seguo incuriosito il suono, un alternarsi di melodie allegre e tristi, pause equilibrate ma scomposte di un cantore adirato. Procedo sul sentiero, non mi scosto dalla strada temendo di potere perdere l’orientamento.

Finalmente vedo qualcosa muoversi: una persona si agita, saltella in mezzo al lezzo nauseabondo, a destra e a sinistra, si infossa nel fango fino alle ginocchia e quando cade lancia in aria quello che riesce ad afferrare, lasciando che gli piova addosso. Poi si lecca le mani, se ne nutre golosamente, lo mastica con gusto e lo ingoia, le mosche la imitano e le si posano sopra attirate dalla sua sporcizia.

Ecco: mi ha visto, allungando il pugno pieno, apre la bocca e il rigurgito gli cola sugli stracci e mi grida: “Mangia! Mangia anche tu! non è possibile che miliardi di mosche si siano sbagliate”. Disgustato affretto il passo e me ne vado.

Ritorna la notte. Nel cielo cupo non compare nessuna stella, nessuna speranza. Per me sono terminate anche le missive divine. Senza guida mi sono avvicinato al cammino, adempiendo al fato che mi ha voluto esule, vago nell’eterna notte della rabbia, dell’odio. M’illudo dell’aurora che rischiara la disperazione ma dopo il tramonto ritorno nudo e infreddolito nella condizione di escluso ed emarginato. Ho distanziato la palude proseguendo per uno stretto sentiero. L’aria fresca mi rincuora, concedendo al corpo un senso di serenità. L’erba umida accoglie i piedi lasciando che si riposino per la lunga strada percorsa, avanzo su uno dei rari prati dove la natura non sia stata uccisa dalla polvere da sparo; con grande attenzione scanso i pochi fiori non insudiciati dal putridume umano. Passo accanto ad una collina, trovo un avvallamento nel terreno e decido di riposare. Dormirò fino all’alba in questa fossa, come un soldato che attende in trincea lo squillo della carica, o un morto che si sforza di sentire le trombe del giudizio.

Il sonno è agitato. Dormo su un fianco, senza coperte che mi riparino dal gelo né guanciali su cui abbandonare i pensieri stanchi, rasento il confine dell’oblio. I sensi acuiti dal bisogno sondano i rumori, i movimenti circostanti; indagano i pericoli, inseguono le opportunità.

Stravolto dai dubbi e assillato dalla necessità, vedo i sogni muoversi sul campo dinanzi agli occhi socchiusi. Mi volto improvvisamente, disturbato da grida lontane. È ancora notte e nulla è cambiato.

Alla sommità del colle si accendono delle luci e una numerosa folla appare improvvisamente. Si dirige verso l’alto tra canti, risate e lamenti conquistando il pendio. Distinguo uomini con le torce, resinose, e vecchi con bastoni ritorti; dietro vengono le donne con lunghe sottane, alcune incespicano ma le vicine non concedono loro tempo per cadere sostenendole, in coda i bambini si trascinano a piccoli balzi tenendosi per mano. Nel loro gruppo un uomo con la barba, curvo sotto il peso di un tronco che trascina a fatica. Piegato dal legno, da cui non sono stati divelti tutti i rami, gronda sudore e lacrime, rese lucide dal fuoco delle torce, intorno i bambini lo deridono tirandogli pietre e insultandolo. Subito ho voglia di unirmi a loro per camminare e parlare; voglio entrare a far parte di quella congrega, e insieme andare verso il mare. Scatto in piedi e li rincorro, avrei recuperato il breve vantaggio senza fatica ma, inciampo e cado, rotolando lungo il fianco opposto della collina fino a sbattere contro un sasso restando stordito e dolorante con il braccio destro schiacciato. Il giorno si è riacceso e mostra la nebbia che lentamente si infittisce. Distendo le giunture intorpidite e risveglio gli arti assonnati; il braccio destro è lento nella ripresa per la forzata posizione assunta, torno a fatica sul sentiero. Vedo il sasso su cui sono inciampato, lo scanso perché ormai conosco bene la strada. I ciuffi d’erba diradati svelano la terra arida. Il terreno intorno è pieno di larghe buche che evito aggirandole, devio di poco per poter continuare, sovrappensiero ricordo la folla che marciava condotta dai propri fuochi con i bambini e i vecchi affaticati.

Avanzavano disordinatamente, elementi di uno stesso composto, uniti senza nessun ordine, nell’organismo che creavano non vi era separazione.

Proseguendo nel cammino incontro parecchie file di buche eseguite nel terreno con rigore geometrico. Vedo due uomini che scavano, sembra che abbiano fretta, spalano con vigore. Mi accosto incuriosito.

Con pale arrugginite lavorano con impegno, stringono tra le dita callose le impugnature di legno fradicio delle vanghe, ritmici i gesti dei due si susseguono allargando velocemente la buca in cui si trovano. Ne hanno appena finita un’altra, escono fuori, percorrono pochi metri e completati i conteggi riprendono con maggiore alacrità.

Sono robusti e i loro vestiti appaiono ben tenuti, eleganti e inadatti per il compito in cui sono impegnati; si trovano ai bordi della fossa nascente e li guardo, sembra che non mi abbiano visto e continuano piegati dalla fatica, hanno capelli scuri e i tratti comuni del mio popolo, si assomigliano molto, potrebbero essere due fratelli, ancora giovani e vicini di età. Li saluto cordiale, rispondono senza interrompere di scavare, sembrano lieti di vedermi, dicono che da molto tempo da quelle parti non passa nessuno; mi informo se la strada da percorrere è quella che porta al mare, confermano rassicurandomi; l’uno aggiunge che ormai non manca molto, mentre l’altro si congratula con me per la vicina conclusione del faticoso viaggio. Il vagabondare è quasi concluso, gli ultimi sforzi e raggiungerò la meta! Pronta per salpare una nave già mi attende e imbarcatomi riuscirò a dimenticare i disagi vissuti. “Perché scavate queste fosse?” domando, “ma queste non sono fosse” risponde l’uno, e l’altro conclude “sono tombe”. “Sono più larghe delle tombe di un normale cimitero” osservo interessato, “vedi, la nostra non è una situazione normale” rispondono, “per le ingenti stragi avvenute abbiamo bisogno di tombe più larghe”; “le lapidi le porteranno?” proseguo incuriosito, “pensiamo di no” sentenzia il primo, “abbiamo riflettuto a lungo sullo stesso problema” e l’altro inserendosi nel discorso “ma riteniamo che non ve ne siano in numero necessario”, “senza contare che le dimensioni delle tombe lasceranno perplessi i futuri visitatori che vedranno lapidi non comuni”.

“Volete forse seppellire più uomini nello stesso anfratto?” continuo a chiedere, “sì, abbiamo deciso criteri rigorosi”, “schemi esatti”, “regole ferree” si intercalano i due, “vogliamo seppellire i familiari insieme!” esclama con aria convinta il più anziano. Valuto silenziosamente la scelta a cui sono giunti, vi avranno sicuramente meditato lunghe ore e si saranno accorti che era l’unica valida fra le tante analizzate; ma se avessero trascurato qualche dettaglio? Non era credibile come ipotesi: erano in due e le loro opinioni si erano perfezionate arrivando infine alla giusta conclusione. Appaiono fieri del loro operato e con crescente foga liberano la loro energia, sono certi di avere progettato minuziosamente l’impresa e la realizzano con determinazione; non hanno più bisogno di considerare le decisioni da seguire, poiché una volta stabilite si sono votati completamente con cieca devozione alla loro realizzazione. “Che grado di parentela privilegerete negli accoppiamenti? ” chiedo ancora, “per primo si terrà conto del vincolo coniugale” mi spiegano, “è la scelta che rende l’uomo superiore all’animale ”, “vogliamo valorizzare la volontà di ognuno”,

“renderemo immortale il privilegio umano di essersi saputi affrancare dall’istinto, “la presenza dell’etica è il più alto simbolo della società umana”. Sono euforici e anche io sento crescere l’entusiasmo nel contemplare la solidità delle loro convinzioni, proseguo: “cosa farete di quelli che non si sono sposati?”, “riposeranno accanto ai genitori”; voglio conoscere tutto: “utilizzerete le bare per i corpi?”, “no, quasi tutti gli alberi sono stati inceneriti” mi spiegano “e le bare esistenti sono rovinate dai vermi”; il mio desiderio di conoscere è tanto, insisto “come farete per quelli che sono già stati sepolti?”, “semplicemente li tireremo fuori e li risistemeremo”. Agli occhi dei due burocrati mortuari era lampante ogni soluzione. Il sorriso sulle mie labbra va allargandosi, non so perché ma provo una profonda soddisfazione, gioisco della mia curiosità appagata e ammiro i propositi scoperti, ma pretendo di saperne ancora di più e domando: “come siete pervenuti ad un ideale così elevato?”; i due non accennano a interrompere il lavoro e parlano sicuri “ma cosa c’è di più bello, di più nobile dell’amore per l’umanità?”, “per altruismo!”, e mentre parlano l’espressione dei volti conferma la sincerità dei loro propositi. È tardi, adesso ho fretta di congedarmi, li ringrazio e li saluto con calore, replicano con tono amichevole, e soddisfacendo l’ultima mia curiosità mi spiegano il motivo della loro serenità: la certezza di sapere che i successori, partecipi degli stessi progetti ed ideali, continueranno comunque il lavoro rimasto incompiuto, dopo che essi saranno morti.

Sogno tutte le notti, vivo vicende, confuse e inspiegabili, torbide imitazioni della realtà che col buio escono fuori inorridendola; li potrei chiamare incubi ma non incutono terrore, si limitano a sconvolgere il riposo con squallide fantasie da cui la mente lucida si astiene nauseata. Non trovo più divertimento nel valutare quello che incontro quotidianamente, nessuna situazione mostra la forza di stimolare i miei riflessi, disdegno la contemplazione della natura circostante; ritengo ormai inutile cercare attrattive nella miseria e avanzo passo dopo passo contro voglia. Solo una notte ripensai ai due uomini in cui mi ero imbattuto e mi chiesi quanto alti sarebbero stati i cumuli di terra posti sopra i cadaveri. Quando mi addormentai sognai di camminare tra le enormi masse che gli uomini avevano spalato, ma nel quadro che avevo davanti non erano di terra bensì di granturco; mi muovevo spaventato tra di esse attento a non farle crollare, ma un colpo di vento improvviso le spinse a franare e ne fui sepolto. Ho perso il conto dei giorni passati. Ripenso a ciò che ho visto e sono contento di credermi sempre meno lontano dal mare, dalla salvezza. Ho smesso di numerare i sassi pestati sulla via e gli alberi anneriti; vengo lentamente invaso dalla stanchezza, sono esausto, vorrei fermarmi, abbandonare la fuga sperando di incontrare una soluzione più rapida. Il freddo mi scuote dal torpore durante la notte ma la nebbia del giorno ostacola l’avanzare appesantendo i movimenti, assecondando la debolezza.

Sono arrivato su un piccolo promontorio, finalmente scorgo la strada che si allunga dritta dinanzi a me e sullo sfondo c’è il mare! Per un attimo temo che si tratti di un miraggio, chiudo gli occhi, li riapro: c’è ancora, per fortuna. Ho seguito il sentiero e sono qui, in piedi.

Respiro a pieni polmoni l’aria marina e affascinato ammiro le increspature argentee che ricoprono l’acqua. Ormai sono quasi arrivato.

Vedo da lontano le luci di una barca in partenza, scorgo i miei compagni che si affollano ammassati sul ponte salutando senza rimpianto la terra arida da cui fuggono, certamente si congratulano a vicenda.

Sono in ritardo, ancora una notte, l’ultima; mi basterà attendere l’alba per allontanarmi, inizierò da adesso a progettare la mia nuova vita.

Non è stato nulla, nessuna immagine mi si è presentata durante il sonno e il mattino è arrivato. Rimango sdraiato e fisso il cielo, la nebbia è scomparsa e ascolto le acute grida dei gabbiani. Mi alzo in piedi e mi affretto; ma il mare dov’è? E’ scomparso! Davanti mi si apre una ripida discesa coperta di alghe marce e scogli aguzzi. Corro e raggiungo il molo, la banchina di cemento è ancora bagnata, lecco per terra e sento il sapore salato, seduto con le gambe sospese nel vuoto un vecchio pescatore stringe in pugno una canna, l’esca trafitta dall’amo si muove sui sassi melmosi cercando un riparo tra la vegetazione marina. Cado in ginocchio soffocato dai singhiozzi e sconvolto domando con un soffio all’uomo dov’è la nave, pensieroso si volta verso di me e mi dice che l’ultima è partita poche ore addietro. Con minore forza insisto nel chiedergli del mare e quello: “sei in ritardo figliolo, il mare l’hanno appena spostato”.