I racconti del Premio letterario Energheia

Saper piangere il dolore_Claudia Felisari, Bollate(MI)

_Racconto finalista tredicesima edizione Premio Energheia 2007.

 

Il locale era troppo affollato, la temperatura troppo alta e l’aria, stava diventando irrespirabile. Gemma non era sicura di essere in grado di reggere per tutta la durata della sua ultima esibizione. Si fece aria con lo strascico di seta trasparente del suo vestito e riaccostò la tenda che divideva le quinte dal palcoscenico. Guardò le sue compagne: qualcuna si ripassava il trucco, qualcun’altra civettava sull’ultima mancia ricevuta. Improvvisamente quello spettacolo di se stessa le sembrò troppo da sopportare e si allontanò istintivamente dalle altre.

Si vergognava di ciò che era diventata e allo stesso tempo era consapevole di non potere fare più a meno della sua nuova vita, delle bassezze e delle volgarità di quel locale in cui sputava anima e sangue tre notti la settimana da quasi tre anni.

Poteva dire di aver imparato quanto c’era da imparare sulla sua professione in poco più di otto giornate lavorative: quanto più corpo si mostrava con disinvoltura tanto più la tasca della giacca all’uscita sarebbe stata pesante di stipendio. Essere soubrette in Francia nel XXI secolo era esattamente come esserlo nel XIX o prima ancora: soubrette era semplicemente un termine più ipocrita ma più socialmente accettato con cui definire la puttana. La prestazione richiesta era fondamentalmente la medesima, cambiava solo la forma con cui questa si esercitava. Quand’era stata bambina si era sorpresa spesso a cantare le arie delle opere liriche sognando di trovarsi davanti all’estasiato pubblico del teatro Alla Scala… che ci faceva lì? Soffrire, punirsi, marchiare il proprio corpo, graffi are e strappare la propria bellezza, estirpare quanto restava della propria innocenza, proprio niente di tutto questo le avrebbe mai riportato indietro quanto aveva perduto. “E’accaduto, quanto il destino ha fatto sì, che accadesse. Non puoi addossarti la colpa della morte di Luca”, aveva detto sua madre. Ed era vero ma durante gran parte delle sue giornate lei si trovava a pensare esattamente il contrario.

La musica cessò. Ancora pochi istanti e sarebbe dovuta tornare sul palcoscenico. Si passò la sciarpa di seta intorno al collo. La pelle cominciò a pruderle al primo contatto con la stoffa: era sudata e quei vestiti non le permettevano di far traspirare il corpo. Era un anno che si trascinava microeczemi e irritazioni su tutta la superficie corporea. Marie le posò una mano sulla spalla:

E’ il tuo turno.

Gemma entrò in scena, guardando il parquet ad occhi bassi.

Ancora due passi e non sentirai più il dolore dei tacchi.

Un, due. Un, due.

Il pubblico le rivolse qualche fischio e commento che lei aveva ormai appreso a non sentire nemmeno. Mentre il pianista accennava le prime note del brano Gemma si rese conto di non riuscire a percepire la distanza tra sé e il pubblico. Le luci le ferirono lo sguardo: le parvero insolitamente forti. Cercò il proprio posto sul palco con la memoria dei propri muscoli e non con l’ausilio dei propri occhi. Cantando dimenticò il proprio malessere. Era una magia che si ripeteva ogni volta che cantava: lentamente le veniva concesso di farsi strada da sola lungo la via dell’oblio. La musica aveva per lei il sapore della malinconia e percepiva quando cantava la propria voce come un lamento funebre. Quando cantava era come se progressivamente lei si separasse dai propri sbagli per rivolgersi alla promessa di un futuro che non la raggiungeva mai. Ma durava appena pochi istanti. Gli applausi spezzarono il miracolo: il locale e il caldo la circondarono di nuovo. Scese dal palco sentendosi sudata e nauseata e si diresse al suo camerino.

Il barista la bloccò:

Un cliente ha chiesto se puoi andare al suo tavolo per bere un drink.

Chi è?

Il barista le indicò un tavolo appartato. Gemma riconobbe l’uomo che vi era seduto: veniva tutti i venerdì da più di due anni e più di una volta le aveva detto di venire unicamente per assistere ai suoi spettacoli. Non era un tipo né loquace, né aggressivo. Sembrava un uomo di classe, uno che si confondeva tra la marmaglia solo perché era abbastanza bravo da non dare nell’occhio e da mimetizzare adeguatamente il proprio abbigliamento. Era sempre stato, estremamente, gentile con lei. Gemma sapeva di non avere il diritto di rifiutare il suo invito. Camminò tra i tavoli e lo raggiunse. Quello si alzò in piedi e le sorrise. Il suo modo di fare nei gesti le ricordava vagamente un ragazzo che nella sua vita aveva contato molto, ma gli occhi di quell’uomo raccoglievano in se stessi molto mistero e timidezza, qualità che non avevano mai caratterizzato Jack. Gemma gli strinse la mano. Quello gliela baciò.

Pareva venisse da un altro mondo.

Signorina, si accomodi. Grazie per avermi raggiunto.

Mi fa piacere la sua compagnia. Non mi deve ringraziare.

Cosa le posso offrire?

Un whisky, grazie.

Il cameriere si allontanò con la sua ordinazione e Gemma accettò la sigaretta che l’uomo le offriva.

Poco fa la sua voce ha messo in ombra le brutture di questo locale. Lei è davvero brava.

E’ molto gentile da parte sua.

La sua voce è particolare. Non dovrebbe accontentarsi di cantare qui. Lei merita di meglio.

Non conosco nessuno che mi possa aiutare a crescere professionalmente. E poi sono contenta così.

Ora lei mente.

E non lo facciamo forse tutti verso noi stessi?

Probabilmente ha ragione. Non volevo rattristarla. – sollevò il bicchiere – A cosa brindiamo?

Alla felicità.

A lei.

I bicchieri si incontrarono con un leggero tintinnio. Gemma bevve con sollievo: era qualcosa che le capitava sempre più spesso con l’alcol sebbene fosse consapevole di non essere ancora arrivata al punto di esserne schiava. Guardò l’uomo che aveva di fronte: era difficile dargli un’età. Doveva aver passato i trentacinque anni ma non sapeva dire se fosse ormai oltre la soglia dei quaranta. Era nel complesso affascinante, ma non era particolarmente bello né magnetico. I gioielli che indossava, tradivano la sua condizione economica mascherata da vestiti comuni e di media qualità. Avrebbe potuto fare l’avvocato, come avrebbe potuto svolgere qualsiasi altra professione. Era una persona sostanzialmente indefinibile. Come lei, del resto.

E poi che importanza aveva in fondo? Lui non conosceva lei, come lei non conosceva lui. E così doveva restare. Non poteva né voleva stringere legami d’affetto con i suoi clienti.

La ringrazio per avermi offerto da bere – disse Gemma alzandosi rapidamente – Devo tornare al mio lavoro ora.

Si sieda, la prego. So che ha terminato il suo repertorio per stasera e vorrei che lei passasse la serata con me. Le va?

Lei rimase per un attimo inerte, stupita della proposta. Poi sorrise, fingendo persino con se stessa che quella fosse per lei una scelta libera.

Certo che mi va. Le chiedo solo un minuto per la toilette.

Gemma riattraversò il locale e accedette al camerino. Dopo essersi sfilata il vestito, si sedette davanti allo specchio per struccarsi.

Ancora poche ore e arriverà la notte. E allora tutto questo svanirà in un universo di perfezione nebulosa in cui ci sarà solo lui ad attenderti.

Guardando la propria immagine si spaventò. Non le era rimasto più niente ormai, nulla di ciò che Gemma era sempre stata prima di fuggire in Francia, nulla di ciò che la tomba di Luca ricordava e conservava. I capelli castani arricciolati e scomposti nelle ciocche, il mascara e il fondotinta pesanti, il rossetto bordeaux, il seno così esposto, lo sguardo vuoto: quella donna non era più Gemma, era solo la Marilyn del Cabaret di Du Champ. Passò una mano sul viso riflesso nello specchio. Era così che lei avvertiva il proprio corpo: un vetro freddo. Non riusciva più a percepirsi, per questo permetteva che altri usassero il suo corpo: comunque lei non lo sentiva più suo. Le lacrime le bagnarono le guance senza quasi che lei se ne accorgesse. Si asciugò il volto e si deterse la pelle per indossare un vestito pulito, più lascivo nelle forme eppure più confortevole. Non l’aveva mai messo per allontanarsi con un cliente, ma forse questa era la serata giusta. Forse quello era l’uomo giusto.

I suoi occhi mi parlano di un mondo che conosco… sembrano immersi nel dolore.

Ritirò il proprio stipendio e poi tornò ai tavoli. Il suo compagno le rivolse un sorriso.

Cosa ne pensa di camminare un po’ qui fuori? E’ una bella serata.

D’accordo.

Il buttafuori aprì loro la porta del locale e salutò Marilyn.

La notte era stellata e spirava un vento fresco che sapeva di primavera. L’uomo le posò sulle spalle la propria giacca. Il cuore di Gemma sobbalzò e lei fece fatica a non piangere.

Quell’uomo aveva troppe somiglianze con Jack e lei non riusciva a non sentirle. Senza volerlo, la presenza di lui, le suscitava nostalgia del tempo in cui lei credeva che fosse possibile vincere la morte.

Lei è italiana, vero?

Sì… Come lo sa?

Lei non ha l’aria di una francese. Da quanti anni vive qui?

Abbastanza da dimenticare quelli che ho trascorso altrove.

O almeno quanto era necessario dimenticare di quel periodo.

Qual è il suo vero nome?

Perché me lo chiede?

Vorrei conoscerla.

Io sono Marilyn. Chiunque io sia stata prima di essere Marilyn, ora quella ragazza non esiste più.

E lei davvero pensa cambiando il proprio nome di poter sfuggire il suo passato?

Gemma tacque per qualche istante. Pareva riflettere sulla domanda che le era stata posta.

No, suppongo di no… ma almeno, facendo così, mi nascondo al suo fantasma.

Qual è il suo nome, Marilyn?

Gemma lo guardò negli occhi e sorrise amaramente. Si strinse nella giacca. Faceva sempre più freddo o era lei a sentirlo?

Sai, lei mi ricorda tanto un ragazzo che conoscevo tanti anni fa… sebbene lui ora abbia molti meno anni di lei e non sia francese.

Io non sono francese, signorina.

Signorina. Nessuno la chiamava signorina da anni. Perché aveva tanto rispetto di una prostituta?

Se lei non è francese, allora da che paese viene?

Da un paese in cui ho abitato molti anni fa, abbastanza da dimenticarmi che fosse veramente casa mia.

Lei si prende gioco di me.

Affatto. La capisco. Lei è gelosa del suo dolore e non è pronta ad aprirsi con nessuno. Pertanto è giusto che noi manteniamo un rapporto neutro, il più neutro possibile.

Sì, ha ragione. Ma mi dica, almeno come chiamarla. Lei sa come chiamare me.

Dovrei dirle il mio nome vero o usarne uno fittizio?

Quello che preferisce.

Mi può chiamare Gerard.

Immagino che questo non sia il suo vero nome.

No, infatti, non lo è.

Gemma gli sorrise piano e poi istintivamente infilò il braccio sotto il suo. Sentiva il bisogno di essere sorretta quella sera.

Si rendeva conto che era assurdo avere quella conversazione con un uomo sconosciuto e nemmeno lei era in grado di dire se fosse strano in modo piacevole o doloroso. Ma le pareva di avvertire di fianco a lui un senso di pace, di sicurezza quasi, una sensazione che non provava più da molti anni. Quand’era stata l’ultima volta che si era sentita davvero sicura? Forse durante l’ultimo anno delle scuole medie, prima di partire per Milano, prima di lasciare il Luca che conosceva per sempre.

Perché il suo Luca non era morto a diciotto anni, ma era morto ad appena quattordici, il giorno che si erano lasciati a Torino. Tutto ciò che era seguito, dopo di allora, era stato solo un infelice prolungarsi del secondo che precede la caduta della ghigliottina sulla testa del condannato. La sicurezza e la fiducia che lei aveva nel mondo le aveva abbandonate allora.

Non avrebbe mai pensato di ritrovarle quella notte, così assurdamente e inaspettatamente. Era proprio questo ciò che lei provava: sicurezza e fiducia. E la tranquillità che ne conseguiva le faceva gravare sulle spalle il peso della stanchezza e della fatica di avere solo ventiquattro anni e trovarsi in un paese straniero senza genitori e senza affetto alcuno, tranne quello che lei stessa provava per i suoi ricordi. Stanchezza di vivere di dolore e di rimpianto da cinque anni. Le palpebre le diventarono pesanti mentre camminava. Sentiva il vento fresco accarezzarle la pelle. Il suo braccio pesava sempre più su quello di Gerard. Avrebbe voluto sedersi su una panchina e dormire per tutto il resto della notte tra le braccia di lui, solo gustando la sensazione del riposo. Gemma sospirò poggiando la testa sulla sua spalla. Si rese conto che se in quel momento lui l’avesse strangolata o violentata lei non si sarebbe nemmeno difesa. La totale rilassatezza che provava in quel momento le impediva di muovere il benché minimo muscolo e più restava, così appoggiata a Gerard, più credeva ciecamente che lui non le avrebbe mai fatto niente di male. Era quasi convinta anzi, che lui fosse lì solo per proteggerla, da se stessa e dal mondo. Egli con un braccio le circondò dolcemente le spalle e lasciò che lei si riposasse senza dire nulla. Il cuore di Gemma batteva piano, senza farle sentire dopo tanto tempo il dolore dei battiti. Lei non riusciva più ad avvertire quel gocciolio continuo che l’accompagnava sempre: il suo cuore malato era come per magia rimarginato. Non stillava più sangue. Gerard era come la mano di Dio sulla sua solitudine.

Lei è molto stanca. Mi permetta di riaccompagnarla a casa.

La stanchezza… la sofferenza… il senso di vuoto… la paura… il desiderio della morte. Sì, portami via, fammi dimenticare tutto.

Gemma lo seguì fino all’automobile e gli diede il proprio indirizzo. Con la testa reclinata sul poggiatesta guardava le luci e le case scorrere veloci sotto il suo sguardo. Le sembrava di correre via dal suo dolore su una strada liscia e vellutata mentre l’impianto stereo suonava una melodia dolce e positiva che scivolava via insieme alle strade che stavano superando. Gemma avrebbe voluto che quel breve viaggio durasse per sempre, avrebbe voluto arrivare alla fine del mondo per rendersi conto che non c’era più niente da temere, niente da negare a se stessa, niente da dover pagare. Il profumo di lui la cullava mentre si lasciavano alle spalle il sentiero dei ricordi e dei passati errori. Tutto poteva cambiare da quel momento. Lo sentiva. A partire da quel momento, lei non era più Gemma, ma non era nemmeno Marilyn. Ed era meraviglioso poter viaggiare senza un’identità, dover scrivere ancora la propria storia di fronte ad un blocco rilegato di pagine immacolate. Sospirò intensamente nel vedere la via in cui abitava comparire allo svincolo. Non poteva essere durato tutto appena due secondi.

E’ questa casa sua? – chiese piano Gerard, indicando un edificio e accostando l’automobile.

Gemma avrebbe voluto dirgli di no, che casa sua era molto più lontana e di continuare a guidare senza mai fermarsi.

Silenzio.

La paura di restare sola è il mio fardello. Non si può rinnegare il proprio destino.

Annuì lentamente con la morte nel cuore.

Sì, è casa mia.

La sua voce era suonata per la prima volta incrinata dalla stanchezza e dal dolore. Gemma si sentì vecchia e usata, come uno straccio troppo logoro per poter essere di nuovo passato sul pavimento. Sorrise appena.

Grazie, per avermi accompagnata.

Si immagini.

Gerard prese una busta dalla tasca interna della giacca e gliela porse.

Tenga…

Gemma la prese con titubanza. La aprì. Conteneva duecento euro.

Perché mi dà questi soldi? – chiese, sconcertata.

Per aver trascorso la serata con me.

Vuole scherzare?

La prego, li accetti.

Non posso.

Se non fosse stata con me, li avrebbe guadagnati e mi sentirei a disagio se lei stanotte dovesse rientrare a casa con meno di quanto prende di solito. Non rifiuti di nuovo.

Gemma guardò di nuovo il denaro. Era molto. Più di quanto lei chiedesse di solito per molte più ore e per ben altri servizi che non passeggiare. Poi posò gli occhi su quelli di lui. Comprese che se avesse cercato di nuovo di restituirglieli lui l’avrebbe interpretato come un insulto nei suoi confronti.

Anche se prendere quel denaro, Gemma lo sapeva, era come sporcare il ricordo di quella notte. Chiuse la busta e sorrise piano.

Lei è molto generoso. Saprò sdebitarmi.

Ha già fatto più di quanto crede.

Non credevo che qualcun altro, oltre me, sapesse piangere il dolore. E invece tu lo fai. Ti sento vicino al mio spirito. Non so cosa mi stia accadendo. E’ meravigliosamente terrificante come io comprenda il tuo cuore senza conoscerti affatto.

Tum-tum. Ascolta. Tum-tum. Di nuovo. Il mio cuore. E il tuo. Perché? Chi sei? Il tuo dolore mi scende nelle viscere e danza con il mio animo sulla musica della morte. Tu hai conosciuto il mio nulla.

Istintivamente Gemma si avvicinò a lui e lo baciò delicatamente sulle labbra. Il benessere che aveva raccolto in quella serata si rafforzò al contatto fisico con Gerard. Sentì la mano di lui, dietro la propria nuca. Aveva un tocco gentile. La sua saliva le bagnò appena la bocca. Le loro labbra erano in tale sintonia da dare l’impressione di essersi attese per tutta l’eternità.

Gemma non aveva mai ricevuto un segno d’affetto così intenso e fugace allo stesso tempo. Accarezzò il viso di lui, con la mano e lasciò che la sua guancia, leggermente ispida, le pizzicasse la pelle. Egli la guardò con una dolcezza infinita.

Dio non lasciarmi. Questo sogno è durato meno della pausa tra il mio e il suo respiro. Ho bisogno di amare.

Gemma scese dalla macchina di fretta, senza guardare indietro, e chiuse la portiera. Mentre l’auto si allontanava si rannicchiò su se stessa, passandosi attorno alla vita le braccia.

Entrò in casa. Si concentrò sui preparativi per la notte con estrema lentezza e cura, tenendo la mente sull’immagine di quel bacio.

Non pensare: non scordare e non ricordare. Poche cose alla volta, una dopo l’altra.

Indossò la camicia da notte e si sedette sotto le coperte.

Ma sebbene lei non lo volesse, Gerard era già lontano. Non riusciva ad immaginarlo mentre si allontanava nella sua auto.

Come faceva sempre prima di dormire posò gli occhi sul diario di Luca. Ne accarezzò delicatamente la copertina in pelle marrone. Le sue unghie tinte di rosso intenso stonarono sull’innocenza di quel libretto. Ritrasse la mano. Sapeva che Luca non avrebbe approvato il modo che lei aveva di onorare il loro passato, avrebbe detto che il dolore che lui aveva provato e che gli aveva impedito di vivere stava avvelenando anche lei e che questo era sbagliato. Ma non aveva più importanza ormai. Era certa di aver provato a cessare di guardare il passato per vivere solo il suo presente, ma più aveva cercato disperatamente di voltarsi e afferrare la mano di Jack più era rimasta saldamente attaccata all’immagine che la memoria le aveva lasciato di Luca. Andando in Francia aveva temuto per molto tempo di vedere il ricordo di Luca sbiadirsi fino a diventare una fotografia invecchiata e statica; era straordinario invece come Luca fosse ancora vivo nella sua mente. Era perfettamente in grado, se solo si concentrava un po’, di vederlo alzare gli occhi su di lei, quegli occhi, azzurri profondi e infelici; era in grado di sentire la morbidezza e il profumo delicato dei suoi ricci, la pienezza delle sue labbra a forma di cuore. Il suo ragazzo perfetto, il vero amore.

Gemma sospirò forte. Spense la luce. Al buio poteva fingere che niente fosse accaduto, che Luca l’avrebbe aspettata a scuola per completare quell’esame di maturità che non aveva mai terminato. Di tanto in tanto si domandava perché Luca continuasse ad essere suo compagno ed invece Jack fosse rimasto ingabbiato nei suoi ricordi più lontani. Era come se lui fosse morto con Gemma e potesse vivere solo nella tomba di lei. Perché Gemma ormai era in tomba: l’aveva sepolta Marilyn e le aveva donato una lastra di marmo bianco su cui erano incisi solo i segni del tempo. Chiuse gli occhi.

Gesù, aiutami… Non è questo che voglio. Desidero solo che la morte mi abbracci senza che io me ne renda conto.

Lo sguardo del nulla è troppo vuoto da poter sopportare.

Cercò di richiamare alla mente l’immagine di Gerard, di ricatturare quel calore che lui le aveva trasmesso con il suo tocco, ma non riusciva a vederlo. Aveva dimenticato i suoi tratti, aveva scordato i suoi occhi. Ecco, Luca le sorrideva già.

Gemma lo guardò con paura. Con timore allungò una mano e attese che lui gliela afferrasse. Il suo tocco era, gentile, ma inconsistente.

Gemma riusciva a vedere, attraverso il corpo di lui, lo scivolo su cui loro giocavano quand’erano bambini. Cercò di parlare, vincendo la voce che voleva restarle in gola.

Forse… può esistere… qualcosa di più intenso del ricordo…

I tuoi occhi mi accecano. Il tuo sorriso è amaro come il fiele.

Il dolore conosce una sola porta. E’ quella dell’entrata. Tu non puoi più uscire.