I racconti del Premio letterario Energheia

Ricordo del capezzale_Maurizio Canosa, Matera

_Racconto vincitore prima edizione Premio Energheia_1994.

 

“… il mondo che è nostro per non essere di nessuno…”

(Blanchot)

         

Mia madre giace nel suo letto: sta male da dodici giorni. Penso che, tra non molto, morirà.

Ci ha tenuto vicino al nido per anni, come il vino buono nella botte. Adesso ha un’espressione perenne, la pelle avvizzita, il respiro breve. Tutto quello che rimane, è un involucro sottile che avvolge un corpicciolo inutile.

Non parla. Preferirei essere altrove… un caffè caldo che mi tenesse sveglio. Sono le tre, a quest’ora dovrei essere a letto anch’io.

Mio padre è al lavoro. Per le veglie ci diamo il cambio. On durerà molto.

La sera, in gioventù, mia madre mi raccontò dei fidanzati timidi che non osavano farle la corte e che ostentavano al bar degli amici una virilità rimasta presunta.

Rideva, pensandoci. Anche lei avrebbe voluto per sé una vita meno ineccepibile. Ha aspettato l’uomo come si conviene; ha lavato i panni sporchi senza un lamento. Ma ora pretende un contatto disperato dalle mie mani… esito… non seguo il suo sguardo ottuso di rimprovero. È cattiva! Piena di rancore contro tutti. Il mondo intero è responsabile dei suoi mali.

Non vive più sebbene respiri.

Vomita! Ad ogni convulsione emette suoni gutturali deprimenti, lacrime, saliva, un reciticcio che si sparpaglia nel catino con un rumore caratteristico.

Forse si è accorta della mia volubilità. Non riesco a rimanere insensibile al disgusto che il suo corpo sfinito mi provoca.

Un caffè! Avrei bisogno di un caffè, oppure di allacciarmi le scarpe per prendere aria.

Questa camera è troppo bianca, asettica come un sanatorio. Eppure è la mia casa. Un tanfo maligno ha impregnato i muri, e mia madre ha chiuso gli occhi. Vorrei che dormisse solenne per non infastidirmi, che non mi stimolasse a cattivi pensieri da omicida.

Sono paradossale: voglio che muoia, ed esserle accanto per poterla piangere, o ridere con lei (in ogni caso non ci riuscirei).

Il paralume così triste. La sua luce è impigrita per effetto del carcinoma, io credo.

Contrasta con il gelido candore della stanza.

Ho le gambe quasi in dissesto, prive di ritmo. Son seduto da più di un’ora, in solitudine. Devo maledire mio padre che mi ha abbandonato?

Da bambino, ricordo, inseguivo le mucche mentre pascolavano sulla collina di Torrevecchia. Placide e bonarie, si lasciavano catturare presto e a me piaceva cavalcarle credendomi un cow-boy.

Altre volte, non visto, infilavo manici di scopa nei loro grandi orifizi, per cercare le loro reazioni. Muggivano impazzite di dolore, e molte, purtroppo, morirono dissanguate.

Nessuno riuscì a capire chi fosse l’autore di tanto strazio. Io rimasi in silenzio, masticai nel petto pensieri di pentimento. Soffrivo e gioivo, a quel tempo. Concedo un’occhiata ulteriore alle pareti. Spoglie, logore, rimandano un’immagine che si stampa tra le mie visioni puerili, peggiorandole.

Quell’ombra sono io! Qui, è come un gigantesco mausoleo.

 

***

 

Mio padre ha lasciato tracce che non ho ripreso. È entrato, uomo suggestivo, liberandomi da un peso intollerabile: non sono più solo. Come sempre, ha una maschera di durezza che rispetto. Ha messo in discussione le mie convinzioni, la mia maggiore età. Ora vede nella mia indecisione il baluardo di un inabile, e pensa a ferirmi.

– Accarezzale il braccio! Ma proprio non ti accorgi di lei?

– Ne ha bisogno – ammetto – hai ragione tu.

È un gesto ripetuto di affetto esteriore. Faccio forza su me stesso. Mia madre è     sveglia del tutto.

– Ora devi baciarla sulla fronte. Baciala!

Eseguo. Vuol costringermi a combattere la nausea e l’ingratitudine.

Eseguendo, penso alla barba di tre giorni, al rasoio elettrico che non funziona. Mi viene in mente che è notte fonda e non ho mangiato.

Quel volto ha una bianchezza assoluta; una neutralità che non dimenticherò. E mi rimarrà nel ricordo l’alito malsano, da moribondo.

– Sei stanco! Dovresti dormire un po’ – dico meccanicamente.

Mio padre non risponde. Chiede del dottore.

Ritorniamo nel silenzio come in un sepolcro: c’è troppa distanza!

Rivedo per l’ennesima volta il bicchiere sul cantonale; così sporco, pieno di acqua rigurgitata. È il sego della malattia; uno dei tanti.

Macchie d’umidità sul soffitto; barlumi di cielo pietrificato che ci sovrastano; linee d’ombra; luci geometriche; e mio padre piange di nascosto.

Mi parlò un giorno della sua infanzia di paese; di quando, svegliandosi nella stanza, i suoi occhi incontravano la prima serpentina di sole incuneata tra le fessure della persiana, e il chiarore illuminava il piccolo cane di pezza appeso al muro.

Credeva di essere davvero felice…

Ascoltandolo, io mi annoiavo.

Parlò del panorama sullo sfondo della casa di campagna, a Torrevecchia: la fuga irregolare di altipiani rocciosi; la bellezza energica delle brughiere; i terreni coltivati a grano; i tramonti; le voci urlate dei lavoratori.

Ora è un adulto, non come me; tiene tutto dentro.

Vuole che diventi imponente come lui. Si stropiccia gli occhi di fatica. Rimane con la mano sul volto per alcuni secondi.

– Riposerò sul divano del salotto un paio d’ore – dice.

– Ti sveglio, casomai.

– Naturale! Preparati del caffè.

– Mi dai il cambio, tra un po’?

– Ti dico di sì! – liquida, spazientito.

Scompare dietro la porta. Sono di nuovo solo.

 

***

 

Mi hanno detto che così dovevo essere: livido di carnagione e perbenista; un portamento contegnoso e studi importanti. Ho accettato tutto; non me ne dispiace.

Aspetterò le ingiurie degli anni e dei minuti cambiando poco. Continuerò a rifiutare le cerimonie delle bevande alcoliche, che hanno umiliato mia madre, fisico ormai indisuso. Mi affiderò alla speranza di amuleti a basso costo, venduti dagli zingari agli angoli delle strade. Non odierò, non amerò.

Ho imparato a detestare quelli che si mettono in gioco; che attendono la stagione del disgelo per rifiorire; che hanno bisogno di generatori che trasformino le paure in energie (assurdo); che inseguono simulacri, imbuti carnali, per sentirsi vivere. Quelli che si dipingono come sentieri disturbati, blasoni di terreni bruciati, con una turbolenza in miniatura nei sessi; quelli che vogliono brillare di luce propria e non hanno bisogno di me; quelli che urlano ai venti la loro retorica animalità; quelli che bevono sangria.

Una ribellione indifferente…

– Perché non chiudi gli occhi? – mia madre è lì.

Non sono sicuro che mi ascolti. Mi guarda, ma respira a fatica.

Una mano sulla fronte. È gelida, ne avrà per poco.

– Vuoi che vada a prenderti dell’acqua?

Sono patetico. Non mi risponderà.

Ha i capelli radi e scarmigliati, gli occhi cisposi, un’immobilità che mi atterrisce.

Solo il fetore dell’alito la fa sembrare viva.

Le mani ossute sono distese lungo il letto; una vena fragile batte in gola, pianissimo.

In questa pietosa immagine, senza dubbio, Dio è scomparso da tempo. Le sto sempre accanto, alla sua destra, su una sedia in vimini sfilacciata. Le sto sempre accanto ma, davvero, è come se non ci fossi.

Mio padre si è addormentato. Sento il suo rantolo volgare dall’altra parte della casa.

Sì! Dovevo prepararmi il caffè! Ora ricordo.

 

***

 

Poca acqua e tre cucchiaini basteranno. Senza zucchero, per assaporare tutti i tipi di torrefazione contenuti. Una preparazione lunga, per attardare il ritorno. L’aria è più pulita, qui in cucina, e già l’odore di questa droga è una salutare panacea.

Rivivo. Penso al mio futuro, solo per un momento; poi scaccio dalla mente il pensiero colpevole, per il rispetto dovuto a colui che muore. Ma intanto mi sento meglio.

Medito di rimanere in questa stanza.

Non sarebbe corretto. Dovrò tornare in quel silenzio atroce di tomba; in quel pantano maleodorante.

Il caffè è pronto. Lo bevo d’un fiato. È finito. Ancora l’immagine del Niente di fronte. Sono di nuovo vicino alla Morte, e mi sconforto. Le ore della notte non passano. Saranno appena le quattro.

Questa veglia è inutile; perché continuano a tenermi qui? Il tempo migliore è andato via nella figura consunta riesco a vedere soltanto un’esistenza violentata, una qualità impura. Mia madre non c’è quasi più.

Sono distratto, ma vedo le dita della sua mano cominciare a muoversi, lente, come un fiore che scampana, dirigersi indolenti, verso me, verso la mia mano.

La raggiungono finalmente.

Stringe! Stringe con un’energia inconsistente, ma che avverto bene, inaspettata, tremante, in un lungo brivido che mi attraversa la schiena.

– Mamma! Non affaticarti. Dimmi solo di cosa hai bisogno.

Tace. Resta per un minuto o due in questa posizione.

Sembra riprendere forza e fiato.

Poi, un tentativo estremo, ed eccola cercare di avvicinarsi tutta intera stringendomi più forte, tirandomi a sé perché possa aiutarla. L’arto scheletrico tra le mie dita freme; sembra il gesto definitivo.

Mia madre unisce le labbra secche al mio braccio e mi sfiora un bacio tenerissimo.

Mi guarda in faccia, cosciente del dolore; due occhi imploranti. Vorrebbe parlarmi.

Le appoggio la testa sul palmo della mia mano. Vorrei capire…

– Devi stare calma. Cerca di respirare, prima!

Chiude gli occhi, forse per pensare; un velo di pudore. Mi parla per l’ultima volta con una voce dimessa.

– Sei tu mio figlio! Non negarmi questo atto di pietà. Io vorrei… vorrei fare l’amore con te. Ti scongiuro. Non negarti… Io sto morendo!

Si addormenta sulla mano, mentre le asciugo una lacrima che mi dilania il cuore.