Le parole dei giurati

Quello che mi dicono i Sassi

– di Massimiliano Palmese
Presidente Giuria Premio Energheia XII edizione_2006

Ti alzi al trillo della sveglia. Accendi il cellulare per controllare le chiamate perse, gli sms, gli mms, i messaggi vocali. Avvii il computer per le e-mail in entrata, contemporaneamente la radio per le news e la tv per un aggiornamento. Magari solo per il televideo. Ricontrolli se in valigia c’è il pc, se in tasca hai l’i-pod, se in mano hai il black-berry, e via in taxi fino all’aeroporto, dove approdi di corsa all’info-desk. Fai prima il ceck-in poi un salto alla toilette, quindi breakfast con orange juice e croissant. E poi via, verso Matera.
Non so se questa boutade postmoderna basti a raccontare lo sconvolgente divario tra la nostra frenesia hi-tech e lo choc visivo che producono i Sassi. Un divario che non è tra Nord e Sud, tra Io e l’Altro, tra Qui e l’Altrove. E non credo che la sola distanza tra volare in Boeing 747 e ritrovarsi davanti a un presepe metafisico basti a spiegare la vertigine dell’affaccio su quel canyon millenario. Un affaccio che non è un semplice salto nel tempo. Non è come rivivere il Medioevo davanti a una chiesa gotica, il Rinascimento davanti a un Michelangelo, il Barocco davanti a un Ribera, il Manierismo davanti a un Bronzino. In queste opere qualcosa ancora sembra che si muova, respiri, ti ispiri. Resta, a dispetto del tempo passato, un’impressione di vitalità, che è energica, piacevole.
Davanti ai Sassi, invece, si resta di ghiaccio. Come davanti alle rovine di Delo, come nelle necropoli etrusche, dentro le catacombe cristiane. Davanti ai Sassi ti si impone lo stesso mistero ansiogeno che provi tra le distruzioni di Cartagine, sull’acropoli di Cuma, al cospetto delle reliquie dei santi, tra le tombe dei poeti. Tutti luoghi che non è possibili visitare allegramente da turisti, in amichevole combriccola. Non si gira impunemente tra i Sassi, come in un qualsivoglia museo. Non ti danno quel senso di pace, quella tranquilla abulìa che ti infondono le chiese, i chiostri, i giardini. Qui tra i Sassi, quella pace, quella quiete, sono spaventevoli. A dir poco.

Più che un salto nel tempo è un salto in un’altra dimensione. E’ vero, sono le prime, primitive tracce dell’umano, e ne abbiamo viste a decine dietro le azzurre vetrate dei musei di storia naturale. Utensili esposti nelle bacheche, scheletri sbriciolati nelle urne. Ma qui, in questo denso abitato, si somma lo spavento naturale della Gravina alla fatica di chi immagini scorticarsi una grotta con le dita, per ricavarsi un posto letto nella pietra.
Non è nemmeno come a Napoli, dove decine di civiltà società popolazioni dominazioni si sono succedute scavalcandosi e calpestandosi, andando a costruire l’una sulle teste delle altre, l’una nelle case – e nei teatri, nei templi – delle altre. I Sassi sembrano aver subito pochi mutamenti o nessuno. Erano case grattate nella montagna e case grattate nella montagna sono rimaste. Normale che vi si girino i film ambientati in Palestina, questo è uno scenario perfetto per qualsiasi storia sacra, passione di Cristo compresa.
Ma, fondamentalmente, a me i Sassi sembrano un monito. Lo stesso monito delle mummie del Museo Egizio di Torino. Lo stesso monito dei calchi di gesso a Pompei. Lì quegli scheletri e quei cadaveri sono stati sorpresi dalla fine nell’attimo stesso in cui stavano per dire qualcosa. E dunque continueranno a parlare finché durerà il tempo. Quegli uomini morti – in fondo vivi per sempre – parlano la stessa lingua dei Sassi. E dicono senza parole la stessa cosa. Qualcosa che non è ameno, ma enigmatico. Qualcosa che è tutt’altro che interessante, è inquietante. Sussurrano qualcosa non sulla morte, ma sul sacro. Sul suo mistero. Sulla presenza o l’assenza di Dio. Sul perché della miseria e della paura. Sul come mai del dolore. E sulla vita.
E’ l’urlo di Giobbe moltiplicato per cento, per mille, per diecimila. Per quante sono queste grotte di pietra. E tutte insieme questa grida formulano la disperata domanda di un aldilà che purifichi risarcisca gratifichi la pochezza, davvero, della condizione umana.