I racconti del Premio letterario Energheia

Passione_Enrica Zanin, Aosta

_Menzione Giuria quarta edizione Premio Energheia_1998.

Io. Io! Io?

Lo specchio non risponde. Ed io per sentire che comunque sono, qualcuno, qualcosa, mi schiaccio un brufolo sul mento. Sono fatta dunque di molle grigiore, di pus e sangue? Non credo. In ogni caso il problema

rimane. Come mi vesto oggi?

L’armadio è pieno di maschere che sonnecchiano scomposte un brumoso lunedì mattina. Il mio corpo si impone come prova di esistenza. Io. Chi? Assonnata, mi cerco un significato tra i vestiti.

Sono una donna sofisticata e ambiziosa, che colpisce con tacchi a spillo, calze nere, gonna rossa e trucco marcato.

Sono una ragazza spigliata, sorriso di luce e sguardo di cielo. Sono sbadata e sportiva in jeans e maglietta.

Sono bella, sensuale, proibita e invitante. Velata di rosso e di niente, capelli al vento, ciglia lucenti. Magari. Ma i seni affogano miseramente nel reggiseno nero.

Questo corpo mi pesa addosso, un opulento fardello di odori, sapori, cinque sensi e mille sentimenti.

Ti amo. Mi fai sentire densa e viva.

Ti odio. Non potrò mai scappare da quei capelli stopposi, quelle gambe corte, quella vita stretta. Tutti i miei pensieri si agglutinano in questa carne pallida che non potrò mai conoscere, né vedere di persona. Gli occhi guardano lontano, cercando in ogni volto di trovare il loro. Prigionieri di un padrone sconosciuto, scrutano ansiosi e pronti a carpire giudizi, riflessi di quell’essere incarnato in loro ma rivelato solo ad altri occhi sconosciuti. Gli altri sono lì, e ci guardano. Abbasso gli occhi. Mi vergogno di quello che non so. Forse questo essere che trasuda poderoso da tutti i miei pori è osceno, sguaiato, sgradevole, squallido. Io? Chiedo allo specchio. Ma io, me, mi, io stessa è già fuggito, non risponde al mio sguardo curioso.

Gli altri. Gli unici in grado di riconoscere ciò che sono. Tanti occhi inquieti che possono vedere e capire il senso che denso il mio corpo svela. Ma, io, ho paura. Solo misteriosi estranei possono conoscere, vedere. Io… Mi lascio in mani sconosciute, credo ai loro occhi, soffro i loro giudizi. Perché loro pensano, ritengono, sostengono, considerano. Alla dogana del mio essere, non so se dichiararmi o passare come carico conforme a tutte le normative e omologazioni.

Dichiarare cosa?

Io! Io?

Proverei a conoscermi nello sguardo, negli occhi degli altri, a riconoscermi nei loro comportamenti. Giudici e compagni di viaggio, trasciniamo, pallida, abbronzata, grassa, magra, una pe(n)sante valigia sigillata.

Ad uno ad uno, provo ad indossare tutti quegli sguardi, quei giudizi incerti e volubili. Io…

Romantica, robotica, apatica, simpatica, timida, stupida, frigida, anonima, aerobica, logica, politica, bulimica, mistica, ironica…

I vestiti si ammucchiano sulla sedia, ma io non trovo il coraggio di restare nuda, di fronte ai miei occhi ciechi, di fronte ai loro occhi giudici e misteriosi.

Io? Ultimo sguardo allo specchio annoiato. Io. Comunque, sono. E farò tardi a scuola, se non mi sbrigo.

Così esco di casa, vita stretta, gambe corte, capelli stopposi e occhi spalancati, pavidi e curiosi.

A scuola. Saluto altri quaranta occhi assonnati e mi siedo pensosa. Oggi non credo che nessuno abbia voglia di giudicarmi, né i professori né i miei compagni. Il lunedì mattina ognuno resta chino sul banco e rimpiange sonnacchioso le coperte e la colazione lasciata a metà. Partecipo del torpore generale, mi lascio cullare dalle molli abitudini di tredici anni di scuola. Ma ecco che i due cuoricini seduti dietro di me iniziano a tubare rumorosamente. Un giorno di lontananza ha distrutto le loro anime delicate e ora devono ripetersi tutto per la centesima volta. Ro, come stai? Bene Tià, mi sei mancata un sacco… È un mese ormai che continuano cosi, in sussurri e bacetti hanno dimenticato perfino i loro nomi e, quel che è peggio, tutto il resto. Annegati in un mare di miele, ci hanno cacciato dal loro piccolo mondo e rispondono appena, svogliati e aggressivi, alle mie timide domande. È questo l’amore? Una barricata eretta contro gli altri nell’esibire continuamente il proprio reciproco potere, la forza di possedere un’altra persona: “Finalmente, io sono amato” sembra ripetere affannosamente la giovane coppia. Credo, però, che Piero e Cinzia non convincano nessuno. O forse sì. Forse solo io non riesco ad accettare la realtà: Piero ha scelto Cinzia. E mi ha lasciato. Con poche parole ha troncato e definito ciò che io credevo infinito e assoluto. “È stato bello per tutti e due” ha detto. Poi si è alzato e mi ha lasciato muta tra le macerie di due anni della mia vita.

Non ho rinunciato tuttavia all’amore. Anzi, ricerco il Vero Amore. Anche oggi quando per la prima volta dono il sangue. Il muro è bianco, l’ago fa male, l’infermiera è gentile. Mi sento bene, finalmente utile e serena. -Torni tra una settimana, le daremo gratuitamente i risultati delle analisi-. Niente male. Perché non faccio il medico da grande? Perché non dono i miei organi quando sono morta? Forse l’odore di disinfettante mi stordisce: quando esco trionfante dall’ospedale mille progetti si affollano nella mia testa. Con gusto mangio colazione e sogno un futuro da missionaria benefica.

– Mi dispiace, ma non potrà donare il suo sangue.

– Perché?

– …

– Perché?

– È risultata positiva al test dell’AIDS

– PERCHÉ

PERCHÉ… (Perché il papa non è re!!)… NO, NON È PER QUELLO…

NO… e poi? Niente tutto decade e poi il nulla positiva oggi nulla domani non c’è speranza non sono malata lo sarò presto. PAURA. Non ho mai avuto paura del buio ho paura del freddo dei vermi ho paura della morte.

Non è successo niente. Io sono uguale a prima. Dovrò andare in ospedale un po’ più spesso, ma non mi pesa: a me piace l’aria dell’ospedale, vorrei fare il medico da grande, no? No… Non è il caso che lo dica ai miei. Lo faccio perché voglio loro del bene, non voglio che soffrano. Perché soffrire? Non è successo niente. Tutto è uguale a prima.

Alla fine, però, ho detto tutto. A scuola mi mimetizzavo con il banco, a casa sparivo in camera mia e restavo immobile per ore, tesa nello sforzo vano di non pensarci. Questa è la solitudine. Non riuscire a dare, né a ricevere amore. Non riuscire a parlare perché le parole sono troppo amare e ristagnano dolorose in gola. Non riuscire a dimenticare tutto il marcio, neanche chiudendo gli occhi sugli altri, sul mondo, su se stessi, e restare così, soli al buio. Volevo sembrare coraggiosa e magnanima, “risparmiare un dolore ai miei cari”, ma ero solo debole, ingenua e tanto vergognosa: non sapevo più quale maschera indossare. Mi sento in colpa? Forse, ma, di che? Volevo aiutare i miei e mi ritrovo, invece, affranta e confusa, a cercare il loro aiuto. Nella rabbia, nella disperazione, chiedo tepore e sicurezza.

Anche quel sabato mattina, spalmavo in silenzio la marmellata su una povera fetta biscottata integrale, perché bisogna sempre curare la dieta, e le fibre fanno bene, mentre la marmellata porta vitamine. Mia mamma sorseggiava il caffè, senza caffeina, e mio papà ascoltava l’onda verde.

– Ci sarà traffico, per strada, oggi, fai attenzione in motorino.

– … Hmm…

– Enrica, ascolta un po’ tuo padre! – Gianni, che cos’ha la bambina?

– Non è più una bambina Luisa, anzi, dovrebbe pensare all’università, invece di fissare il vuoto per ore in camera sua.

– E di schiacciarsi i brufoli… Enrica, la vuoi smettere? A diciannove anni dovresti essere un po’ più matura…Ti ho comprato il nuovo Clear multifunzione con oli arricchenti alle mandorle e noci, però almeno lavati i capelli un po’ più spesso, non vedi come ti stanno tutti dritti?

– Ssch! Cara, tuo figlio sta ancora dormendo, almeno lui puoi lasciarlo in pace. Dovresti cambiare posto a tavola, la smetteresti di elencare i difetti di Enrica: più che pensare al colore dei capelli, dovrebbe pensare al suo futuro…

– Mi volete lasciare tutti in pace! Tanto io non avrò nessun futuro!

– Gianni, cosa sta dicendo?

– Sto dicendo che ho l’AIDS, è chiaro?

Sono poi crollata in singhiozzi. Non avevo più forze, più speranze. Pensavo che loro potessero essere la mia forza, la mia speranza. Mamma, invece, è scoppiata a piangere con me o contro di me, isterica, e voleva sapere tutto, continuava a chiedere, perché, perché, come hai fatto? Ti sei bucata? Hai fatto qualcosa che non dovevi? È colpa mia? È colpa tua? Chi è stato? Chi l’ha detto? Come è possibile? Ma io non avevo risposte. Facevo fatica perfino a respirare. Non avevo niente da dire: cercavo risposte e trovavo nuove domande. Ero distrutta e smarrita. Guardavo papà, ma lui non rispondeva. In silenzio, fissava l’arancia che aveva cominciato a pelare e ne tagliuzzava in piccoli brandelli la buccia. Sembrava che avessi fatto loro un dispetto, che avessi preso tre in matematica o quattro in italiano. Ma guardatemi: sono io la vittima. Sono io la vittima? Per non pensare a niente, ancora una volta scappavo dal nero della realtà e mi rifugiavo nel grigiore dell’abitudine. Gli occhi chiusi, la voce muta, le gambe stanche e tremanti, correvo a scuola.

Solo adesso sono veramente disfatta. Ho rinunciato a pensare, mi lascio sopravvivere, per quanto è ancora possibile. Leggo sui giornali della nonna che quando uno sa che dovrà morire per qualche strana malattia, ma che può muoversi ed è ancora cosciente, allora inizia a progettare sogni, come un condannato che chiede l’ultimo desiderio: alcuni vogliono incontrare il Papa, altri visitare Venezia, entrare nel Guinness dei primati o semplicemente finire sui giornali. Io non ho la forza di creare niente, non chiedo più niente. Trascino le mie pantofole per casa e vago tra i divani del salotto, come quando da piccola avevo qualche linea di febbre, e giocavo a fare l’ammalata. La mamma, però, non ha più la forza di coccolarmi. E mio fratello, grazie al cielo, non sa niente. Mi guarda coi suoi occhi da Bambi e chiede -Ma Enrica è triste? Papà, cosa ha combinato?-. Mi sbircia affettuoso, in piedi sulla soglia della mia camera. Mi sorride dolce, dolce ma, improvvisamente timido, non si avvicina e non osa toccarmi. Sarà solo il primo.

Ognuno vive a modo suo la mia sofferenza. Papà cerca di allontanare il dolore inquadrandolo in un sistema razionale, vuole mantenersi lucido e freddo. Così ordina e organizza ogni cosa. Inebetita, apatica, lo lascio fare, è il suo modo di aiutarmi e forse gli dà un po’ di sollievo. – Innanzi tutto, l’intera famiglia deve sottoporsi al test, poi, Enrica, è necessario che tu abbandoni il basket: il medico consiglia attività meno stancanti. Infine, è necessario che la scuola venga informata affinché i tuoi compagni non corrano rischi e tu stessa possa venir seguita in modo più appropriato-. Tornare a scuola? Cosa diranno i miei compagni? Cosa potrò rispondere loro? Ora che la mamma ha rinunciato alle sue domande, che neanch’io voglio più ricordare il come e il perché, mi toccherà convivere con venti giudici curiosi. Sono stanca, papà decidi tu per me.

– Ragazzi, avete capito? Basterà fare attenzione caso mai Enrica si ferisse, e in bagno per le ragazze. Comunque, per prudenza Enrica andrà nel “bagno degli handicappati”, finché non ci saranno dei disabili, qua a scuola. Ah, dimenticavo per voi maschietti: se siete innamorati “cotti” ricordatevi il “preservativo”!

Da un angolo della classe, osservo divertita e un po’ nauseata la scena: la referente per il liceo scientifico della commissione alla salute signorina Annamaria Della Foce spiega con la sua innata simpatia la mia malattia alla classe: non è una menomazione, perdiana! Non proprio almeno: pensate che bello, avere un bagno pubblico tutto per sé! Poi sospirando fa appello al buon cuore dei miei compagni affinché non mi emarginino e non giudichino la mia condizione: che è tragica ma non senza speranze, dice. Chiede che non cambi niente nel loro rapporto con me ma che invece sì, cambi qualche cosa: che siano più disponibili, che cerchino di aiutarmi a superare questa fase, cioè tutto il resto della mia vita. Colpita dal suo sovrumano e patetico tentativo di conciliare la sua fede bigotta, il suo ruolo istituzionale di educatrice, di non offendermi e ferirmi ma al tempo stesso di colpire e stimolare l’amore egualitario della mia classe, mi alzo e vado a chiudermi nel mio bagno speciale. Tutti quei punti esclamativi e quelle virgolette mi hanno fatto sentire così protagonista e così esclusa dalla conversazione: mi si impone la parte della piccola fiammiferaia, mi obbligano ad essere misera, sospirante, debole, a mendicare la loro presunta magnanimità. Devo riconoscere la loro bontà e sottostare ai loro giudizi. Mi dispiace signorina A.D.F.R-per-la C.a.S.: rivoglio tutto il mio armadio di vecchie maschere, non potete imprigionarmi nella malattia: non comprerò mai le sue (buone) azioni.

Che senso ha ora arrabbiarsi? Non dirigo più io la scena e forse non l’ho mai diretta. Sono stanca e sconfitta. Non mi resta che guardare e tacere. E temere i loro occhi di giudici ipocriti.

 

AMANDA (la prima della classe)

Oggi a scuola ho saputo una cosa che proprio non mi sarei mai aspettata: Enrica, una mia compagna di classe, ha l’AIDS. Non che intenda giudicarla, ma sono veramente molto stupita. La conoscevo poco, è sempre così silenziosa, sta con i suoi amici, Pamela, Michele, Cinzia… non più. Ora è giusto che mi interessi di più a lei. Non deve essere facile per lei venire a scuola. Tutti tenderanno a escluderla, forse. Chissà cosa farei io al suo posto: certo non avrei il coraggio di dirlo a scuola, o forse sì… Che discorso inutile! È praticamente impossibile che mi ammali. Non frequento strane compagnie, non faccio l’amore con chiunque, anzi, per la verità sono ancora vergine. È vero, ho le mie idee e non me ne vergogno. In fondo non ho mai fatto del male a nessuno, anzi, mi sforzo sempre di cercare il bene della gente. È facile giudicarmi, etichettarmi, ma in realtà capisco che è solo per gelosia. Chi studia ha dei buoni risultati, chi non studia è facile che vada male a scuola, o che cerchi di riuscire con dei sotterfugi. Tra i miei tanti difetti, credo che nessuno possa mettere in dubbio la mia coerenza e la mia onestà. Non voglio pensare a come si possa prendere l’AIDS. Sicuramente, però, credo che sia difficile ammalarsi con un comportamento onesto e coerente. Farò comunque ciò che posso per aiutarla. Magari una buona volta tutti capiranno che lo studio non rende inumani e che anzi mi dà più possibilità per rendermi utile…

 

ELISA (Miss Simpatia)

Chissà come avrà fatto? L’avrà già fatto (l’amore, intendo)? Eppure sembra così bambina, ancora preda di sensi di colpa… Sono però sicura che non si buca. Il mio sesto senso femminile mi dice che è un ragazzo. Chi? Ma non stava con Piero? Già, ma poi lui giocava troppo al seduttore con Cinzia ed Enrica si è ritrovata con un paio di corna ed il cuore a pezzi. Chissà cosa ci trovano in quella sottospecie di scimmione con i denti storti! Be’, poverino, si sarà preso un bel colpo! Non vorrei essere al suo posto, o in quello di Cinzia! Non so se quei due l’hanno già fatto… Chiederò a Pamela, lei è ancora più pettegola di me ed era così amica di Cinzia…

 

VITTORIO (il rappresentante di classe)

Era prevedibile. Così tanta gente è già stata contagiata. Io mi ero documentato a proposito. Comunque, potremo cucire e regalare a scuola delle spille-nastrino rosso che significano: “sono a conoscenza dei problemi legati all’AIDS” e se non siamo informati possiamo chiedere a Enrica di tenere una conferenza sul tema: sicuramente lei conoscerà l’argomento, ora. Poi potremo muoverci: programmeremo i turni di chi le tiene compagnia, un compagno ogni giorno così non si sentirà sola, almeno per questo quadrimestre. Devo proporlo alla classe.

 

MICHELE (il mio compagno di banco)

Enrica… Ci conoscevamo da così tanto tempo. Abbiamo fatto le medie insieme, poi, per caso, ci siamo ritrovati insieme anche qui, al liceo. Non che siamo mai stati amici, veramente. Ci siamo abituati l’uno all’altro, ci siamo avvicinati in tanti piccoli gesti come “Passami la gomma”, “Mi ripeti cosa ha detto?”, Enrica è la tipica persona che si fa gli affari suoi. Io, invece, no. Almeno nel periodo in cui mi piaceva. Quando stava con Piero la spiavo invidioso, quando si sono lasciati pensavo fosse finalmente giunto il mio momento. Mi sbagliavo. Con un no orgoglioso ha troncato le mie speranze. Pensavo di essere indegno di lei, forse perché sono grasso e ho l’acne. In realtà ora capisco che è lei che non mi merita: gioca a fare la principessa con chi le promette amore e tenerezza ma poi si concede a chiunque si mostri misterioso e maledetto. E così si è presa l’AIDS. Non so proprio come ho potuto innamorarmi di lei. Ma ora basta con le illusioni.

 

LEO (l’ultimo della classe)

…? …

 

Forse sono questi i pensieri dei miei compagni. Anch’io, come loro, a volte ascolto, a volte giudico, a volte taccio. Ora, però, chiedo. E prendo ciò che posso. Così, tra tutti gli sguardi cerco quello di Piero.

-Mi dispiace… Come è successo? Sono stato io? – Mi chiede, timido, imbarazzato, ansioso. Cinzia ci guarda da lontano, apprensiva. Raccolgo tutte le mie deboli forze e con fierezza rispondo: – No.

No, non sei tu l’unico ragazzo della mia vita, capito? Non ho bisogno di te, sono tanti che mi cercano, sono DESIDERABILE. Non credere che, solo perché sei stato il primo, sei stato tu, il solo. Per un attimo sento rinascere una scintilla di orgoglio.

Ora si spegne. Vorrei riuscire ancora a piangere. A lavare tutte queste mie ferite. Inutile. Mi è costato troppo un gesto avventato, e non bastano le paure di Piero e Cinzia per pagare tutto il mio dolore. Quella sera, quando lui se ne è andato, non sono rimasta sola. Dentro di me la rabbia, l’orgoglio ferito e un giovane dolore fatto di debolezza e solitudine mi hanno dato una forza superba e sfrontata. Ho ballato, ho riso, ho sorriso anche troppo. Volevo sentirmi ancora donna e bella. Il tempo di un lento. A occhi chiusi, nel buio soffuso e brumoso, mi sono lasciata penetrare dalla violenza provocante del mistero. Due sconosciuti, abbiamo sfogato le nostre paure in un singhiozzo segreto, un pianto secreto e malato che ha segnato due vite. Un attimo dopo, il risveglio. Il ventre e gli occhi umidi, le gambe ancora tremanti, una nuova canzone.

Mamma, ora hai la risposta alle tue domande. A cosa ti serve? Non mi fa sentire meglio, non ti consola.

–         Hai fatto l’amore con uno sconosciuto?

Mamma, è inutile, non provo più nessun senso di colpa. Non credo in un dio che giudica e condanna.

– Scusami, io ti voglio bene. Ma… Non ti posso vedere così… sei mia figlia: ti ricordi? Il grembiulino bianco che ti avevo fatto io… il primo giorno di scuola; ti ricordi? A carnevale io friggevo e tu con lo zucchero a velo sulle frittelle… ora sei un’altra, non capisci, non ricordi nulla! Cosa posso fare? Cosa posso dire a tuo fratello? Hai dimenticato tutto ciò che ti avevo insegnato, non sei più mia figlia! Non ricordi più Dio, ma lui si ricorda e io ho paura, paura che ti abbia punito. Lui sa, è dentro di te… ma tu non ascolti! Tu hai dimenticato. Io non so più chi sei! Non so cosa dirti, come guardarti… Ma tu mi ascolti e ancora non capisci. Io per vent’anni ho parlato… A chi! A chi? Sento il cuore che si spezza e tu che mi lasci… Ascolta la tua coscienza… Io non so come perdonare.

Mamma… perché mi fai male? Cosa me ne frega del tuo perdono? Perché mi vuoi vestire di ipocrisia? Cosa me ne frega di un dio che passa il tempo a giudicare e che poi, eventualmente, perdona! Come se non bastassero cinque miliardi di uomini… Non me ne importa niente, capisci? Mi importa di te! Ti voglio mia, come quando ero piccola e mi portavi in braccio, voglio che piangi con me, che mi abbracci, che mi culli, che mi dici ti voglio bene, ti voglio bene, ti voglio bene, ti voglio bene, ti voglio bene, fino a che non mi convinci che mi vuoi bene, comunque.

Basta con la retorica. La verità è che non voglio essere aiutata. Credo di poter fare tutto da sola. Tutto cosa? Ha senso andare all’università? Ha senso studiare ogni giorno? Ha senso alzarsi dal letto? Meglio non chiederselo. Meglio lasciarsi morire lentamente. Ma non sono sola. Mio fratello ha dieci anni. Mio fratello forse diventerà uomo. Mio fratello resterà anche per me. Mio fratello non sa niente, conosce solo ciò che vede: una sorella muta e chiusa in sé stessa che aspetta l’ultimo treno.

Così ho accettato, con sospetto, di uscire una sera con Piero e Cinzia.

– Vieni Enrica, ti ricordi, eravamo un bel gruppo una volta: Cinzia, Pamela, tu ed io…

– Sì, ma Pamela ci ha scaricati per quell’oca di Elisa, non capisco proprio più quella classe! Fortuna che l’anno prossimo tutto è finito…

– Sali, Enrica, abbiamo pensato di ritornare al Blue Moon, come quando facevamo seconda e uscivamo solo di sabato.

– Ti ricordi quella volta che abbiamo giocato a nascondino sotto i tavoli?

– Sì, che poi io sono rimasta chiusa nel bagno degli uomini, che figura!

– Ma cosa dici, c’ero solo io come maschio in tutto il bagno! Non ti ha visto nessuno!

Titubanti abbiamo iniziato a parlare, cauti, per evitare i vecchi rancori, poi, a poco a poco, abbiamo dimenticato tutto, ci siamo lasciati trascinare da quel gusto di birra, da quel profumo di gelato, dal ritmo invariato delle onde che, a pochi passi dal pub, lasciavano sulla spiaggia la schiuma dei nostri ricordi. Sorrido, scherzo, parlo, guardo stupita il loro amore che non si ostenta, che mi ha aperto le braccia, senza ferirmi.

Mi lascio cullare da questa quiete, da queste parole che non dicono niente ma che parlano d’amore, da questo mare infinito che ripeterà per sempre la sua melodia. Perché fanno tutto questo? Forse per senso di colpa nei miei confronti, perché cercano giustificazioni. Che importa? Il mio calice è colmo di malinconia e tenerezza.

–         Ciao Enrica, ci vediamo domani. Volevo solo chiederti scusa, perdonami per Piero.

Ancora una volta mi parlano di perdono. Perché?

–         Posso darti del tu, vero Enrica?

La mia dottoressa, Loredana Ravigo. Pulita, curata, luminosa nel suo camice bianco, sorridente, un po’ troppo televisiva, forse. Annuisco.

– Ci vedremo spesso, ora, solo per alcuni controlli, comunque: ti avranno detto che non sei malata per il momento. Sei solo sieropositiva, cioè il virus dell’HIV è presente nel tuo organismo in forma non attiva. Nel tuo sangue sono stati trovati gli anticorpi specifici che si producono dopo che si è stati infettati.

– Ma io sapevo che l’AIDS distruggeva gli anticorpi.

– L’HIV attacca i linfociti T4 che dirigono tutte le difese dell’organismo: un malato di AIDS infatti è esposto a tutti i tipi di infezione e ad alcune forme di tumore.

– …

– La tua famiglia è risultata sana, tuttavia si possono incontrare alcuni rischi nella vita di tutti i giorni: il virus si trasmette attraverso il sangue ma, all’esterno del corpo, muore ad una temperatura di 60° o con un comune disinfettante. Comunque evitate di scambiarvi gli spazzolini da denti, lame, forbici, eccetera. Per il resto, certo, il preservativo è una buona barriera nei rapporti sessuali, ma non sempre è sufficiente. Mi dispiace essere così schietta, ma la malattia limita la tua libertà e prima lo capisci, meglio è. Ci sono ancora tante cose che puoi fare senza problemi, andare a scuola, al mare…

– E se mi ammalo?

– Per ora sappiamo che solo il 50% dei sieropositivi si ammala. Questo, però, non deve farti sottovalutare il problema: appena avverti un sintomo, corri in ospedale. La malattia non è la fine, è una strada lunga di cui non vedi con chiarezza la fine, che può ancora essere vissuta intensamente e“normalmente”. – I SINTOMI?- Ghiandole ingrossate, perdita improvvisa di peso, febbre inspiegabile e persistente, sudorazioni notturne per più settimane, tosse secca insistente, diarrea, pustolette rosse su bocca naso o palpebre o ancora chiazze scure, come lividi, che non scompaiono e sono più duri della pelle intorno.

La dottoressa è cristallina, di una precisione scientifica, finalmente non moralista, a prima vista sincera e schietta. Io sono colpita, perché so che ciò che mi ha detto è la Verità, che il mio mondo vago di paure sarà imprigionato per sempre nel quadro della necessità, legato alla catena dei sintomi, delle terapie, che non posso più sfuggire alla logica della malattia. Devo ringraziare la dottoressa? Mi aiuta sapere la verità o è meglio che non sappia niente, che creda al caso, che tutto semplicemente accada, inspiegabilmente, fatalmente? Non lo so. Mi sento impotente, e non so più chi sono. Le mie vecchie maschere sono state cancellate dal giudizio, dal nuovo atteggiamento degli altri. Questo corpo mi è estraneo e mi trascina con sé nella sua rovina. Sono un cumulo di macerie e ancora respiro. Per quanto?

Fuori dal laboratorio della dottoressa. In sala d’attesa, tra dieci seggioline bianche, tutte uguali. Sull’ultima verso la porta. Io neanche lo vedo. Lui alza gli occhi. Sono pieni di lacrime, come i miei. Perché nascondere il proprio dolore dove abita la sofferenza?

 

– Aspetti la dottoressa?

– Sì.

– S S S S S S S

–  = = = = = …

– Cosa fai, ti senti male?

– No, prego Dio.

– Tanto non ti risponde…

– Neanche a suo figlio rispondeva. Poi lo prese con sé in cielo.

– Parli come un prete.

– Sono un prete.

– ?

– Vivo nella comunità “Il Seme”, all’imbocco dell’autostrada.

– Cosa ci fai qua, solo?

– Mario, uno dei nostri ragazzi, è morto lunedì scorso. Sono stato imprudente. Volevo solo aiutarlo ma non ne ero in grado. E così, ora lo rimpiazzo in ospedale.

– …

– = = = = = …

– Mi chiamo Enrica, anch’io aspetto.

– Aspetta insieme a me.

Così ho conosciuto don Giacomo. È stato contagiato per sbaglio, ma dice che invece è Dio che l’ha voluto. Un Dio che porta dolore e morte, pare, ma lui nega e risponde che Dio lo ama e lo chiama. Dice che, se la strada è ripida e faticosa, è solo perché possa giungere prima in vetta. Perché, perché, perché, mi ostino a ribattere; ma lui è testardo e non cede. È giovane, esile, fragile. Arde di fede, soffre, a volte sospira di fronte alle mie mille provocazioni e tace. Allora mi fermo anch’io. Sbircio i suoi grandi occhi lucidi e capisco per un attimo l’enorme sforzo che fa a continuare, a non lasciarsi vincere dal silenzio, dalle mille contraddizioni che bloccano ogni suo respiro, ogni sua parola. Alza gli occhi e ripete con fermezza:

– Io ho scelto. Io credo che Lui vegli su di noi e ci ami.

A volte mi sembra ingenuo e mi fa tenerezza. Al di là delle sue idee, delle mie idee, lo sento vicino, amico nel combattere una battaglia già perduta. Io stanca, pigra, rassegnata e sardonica, lui integro, ostinato, fiero e idealista. Io mi batto per me stessa, per salvare le mie stanche ossa dal giudizio, dalla crudele ipocrisia degli altri; lui si batte per gli altri, perché vedano in lui un esempio, per salvare la sua fede dalla contraddizione e dal dubbio. È un eroe? È un illuso, un debole, non sa accettare la scarna realtà che, invece, non ha motivi, non lascia speranze, non si cura dei fini, del bene, del male?

Gli altri! Gli altri? Gli altri… Dubbi, certezze, presenze. Che mi fanno ancora paura. Che potere hanno su di me? Legittimano la mia esistenza. Che potere ho su di loro? Pensano dunque (essi) sono. Sono io che invento i loro giudizi, che immagino i loro pensieri. In realtà loro dimorano lontani, a formulare altre assurde congetture.

IO SONO SOLA. Nessuno può dire ciò che sono. Nessuno mi può AIUTARE. Chi cammina con me, mi sfiora e riprende la sua strada. Rette vaganti nello spazio infinito, uomini ciechi e muti, non potremo mai capire o intuire i motivi delle nostre azioni, la formula della nostra traiettoria. I miei genitori mi vedono figlia e non mi capiscono donna. Gli altri mi vedono amica, amante… nessuno può vedermi Enrica. Io stessa mi perdo tra gli ingranaggi che determinano i miei comportamenti. SONO SOLA. Vivo in un universo cieco. Esisto? Ha un senso la mia vita? E la mia morte?

Eppure mi dà conforto respirare con gli altri. Sono fatta di carne. Così, insieme a Piero e Cinzia, vado ogni tanto in comunità con don Giacomo. Mi fa sentire pulita, evito di pensare. Apparecchio e sparecchio tavola, sorrido, parlo del più e del meno con gli altri. Non ho niente da insegnare loro. Sanno già tutto. Il suono delle nostre voci mi dà sollievo, occupa un po’ di vuoto. Paradossalmente, ho bisogno di sentirmi utile. Non mi vergogno più di credere all’ipocrisia. Che male c’è? Mi illudo per un attimo dell’autenticità dell’amore, di un dono, del sorriso… mi coccolo di rosa, mi cullo di romantico. Finalmente dormo, la notte.

Se diamo un aiuto, effimero, se riceviamo un aiuto, effimero, se conosciamo solo le nostre illusioni, se soffriamo il nulla della nostra vita, allora abbiamo bisogno di Te.

Questo sei per me… l’aiuto invisibile che restituisce senso alle mie azioni. L’unico occhio che mi conosce, mi riconosce come sua e per questo non sarà mai deluso di me. Ricordi la mia storia, legittimi il mio presente, mi riveli il futuro istante per istante. Mi prometti ciò che perdo: la vita, il sorriso. Mi chiedi ciò che voglio: credere e amare. Mi rendi la speranza che non oso.

Esisti veramente? Non lo so, non lo posso sapere. Ho bisogno di crederlo per andare avanti. Sei diventato una necessità. Senza di Te è solitudine e disperazione.

Con Te, dimentico il mio cinismo, i miei mille perché corrosivi e riscopro le cose per quello che sono. Una carezza è solo una carezza, uno sputo è solo un misero sputo, il silenzio sei Tu. Se poi non ci sei, che importa? Non avrò tempo per biasimare le mie illusioni. Ora ho fiducia nel tuo aiuto virtuale, e vivo.

Finalmente ho capito chi sono gli altri. Siamo noi, siete voi che leggete queste mie ultime pagine. Ve le dedico tutte.

Da un mese sono malata: un duro livido scuro mi si è scavato sul collo. È dunque giusto finire questa storia.

Quello che resta è il mio presente: vivo, respiro in ogni cosa che faccio, mi permetto pochi pensieri.

Mi lascio andare, mi affido a Chi già conosce la mia storia e mi aspetta. Cerco solo di lasciare un piccolo segno di me, una nota nell’infinita melodia del mare. Come?

Non mi è dato un amore, un ragazzo, un figlio. Mi è concesso solo poco tempo. Lavoro, cerco gli altri. Un passo verso di loro in cambio di una scintilla di me nel loro ricordo.

Ho capito che ciò che conta sono le azioni, i fatti, non le intenzioni: forse la referente alla salute della scuola agiva per senso del dovere, o Loredana, il medico, per etica professionale, o Piero e Cinzia per senso di colpa, o ancora don Giacomo per ideologia: che importa? Non ero anch’io mossa dalla presunzione quando andai a donare il sangue? Le cause restano molteplici, oscure, egoiste.

Quel che conta è il risultato. Se porta verso gli altri, si chiama amore.

Io mi rendo utile per sentirmi viva. In famiglia cerco di consolare i miei genitori e loro cercano di consolare me. Proviamo a vivere come prima, anche se non è più possibile. Cerco solo di riuscire a dire a mia mamma e a mio papà tutto il bene che voglio loro.

La scuola tra un mese è finita. Tutti hanno mille progetti e, a volte, mi vedono malinconica e si sentono un po’ in colpa. Allora cercano di farmi sentire speciale, mi chiamano profeta, Cassandra, mi chiedono consigli. Il gioco mi diverte, così costruisco in dono per loro un futuro fatato, prometto di lasciare per testamento ad Amanda la docenza universitaria, a Vittorio la carriera politica, a Pamela il giornalismo, a Elisa la medicina, a Piero e Cinzia un futuro comune fatto d’amore, a Michele, infine, una fulminante carriera nell’industria tessile. E a me cosa resta?

Non posso più sognare un futuro glorioso, come quando donavo per la prima ed unica volta il sangue. Il mio futuro è nella memoria degli altri e gli altri occupano il mio presente. Non ho tempo per studiare medicina: mi sono iscritta ad un corso per infermiera professionale. Devo imparare ciò che serve finché posso.

Nascondo tuttavia un grande progetto: mio fratello. Voglio lasciarlo saggio, ricco di affetto, erede di tutte le mie speranze. Un giorno rivivrò nei suoi sogni.

Infine, a tutti voi, che ho dimenticato nel mio testamento, lascio questo mio breve scritto, affinché non temiate, ma amiate gli altri. Perché la mia vita e la mia morte abbiano un senso.