I racconti del Premio letterario Energheia

Mediterraneo_Luca Bugnone, Torino

_Racconto finalista diciottesima edizione Premio Energheia 2012.

 

 

         Ma io conosco anche l’immensa completezza di questa mia solitudine, le orecchie attente, gli occhi sempre presenti, la concentrazione, le illuminazioni interiori quando non hai nessuno all’infuori di te da mettere al corrente di una scoperta, e allora, seduto su una pietra di una qualsiasi isola greca, chiedendoti perché quel sole debba essere così forte e quel mare così azzurro e la terra così nera, ti guardi dentro, e dentro puoi rivedere i soli, le mareggiate, le burrasche e gli approdi della tua vita. Fin quando avrò fiato in gola e forza nelle gambe, e le mie braccia riusciranno a trascinare un sacco, difenderò questo mio diritto di essere solo – uno come tanti – nella mia completezza.

 

Pier Vittorio Tondelli

 

E l’alba mi sveglierà mediterranea e sola.

 

Giuni Russo

 

Apro gli occhi sul mondo magico, rannicchiato sotto il cielo. Tinte forti, dense, materiche; campagne brulle, aspre, severe. Filiamo sull’autostrada lasciando indietro le Puglie e la chimera del mare, tra riccioli di selva e saliscendi per i poggi. Sull’autobus c’è chi dorme con la giacca sulle spalle, chi sbadiglia e si stropiccia, pettina capelli arruffati, beve caffè da termos scheggiati. Il sole appena sorto dilata la puzza dei corpi in viaggio, picchia la chioma paglierina della donna, leviga il cruccio del ragazzo, spulcia le pagine che leggo, o meglio, rileggo l’ennesima volta. Costituiscono il pretesto per questo viaggio, la giustifica addotta al reditu temuto e rinviato, ritenuto impossibile e ora, invece, concreto.

Nove anni avevo, che la cugina brunetta e ricciutella dei Salerno salì a trovare i parenti, lucani d’origine. L’amai con l’amore tagliente e limpido che è amore infantile, lei tornò, dimenticai il sussurro di questa terra esotica e schiva. Nutrii la convinzione che il mio nome tributasse l’ascendenza alla radice latina lux, luce, e non a lucanus, ossia lucano.

Ventenni o poco più, da Napoli dove studiavi, partimmo scivolando sul nastro nero che intreccia da est a ovest i tortuosi volteggi dello smeraldino Basento. Nei sei anni seguenti, ogni estate, da Nord a Sud, dal Vulture allo Ionio, in lungo e in largo ho conosciuto e fatto, di questo cuore lontano, la mia casa e il mio nome.

In settembre, di mattina, l’entroterra lucano è un orgasmo florido. Pube odoroso tra le cosce di Puglia e Calabria, terra di mamme grasse, paesaggi bradi e cieli alti, colline increspate d’arbusti e ginestre che appianano in una petrosa distesa ocra: Foggia, una colonia aliena, e le ciminiere di Manfredonia affacciate sul mare color turchese pastello. Manfredonia appare sterminata dopo i borghi lucani, è un cratere sovietico, panorama enfiato. Sono venuto alla luce non dal mare, non appartengo alla stirpe di mare; la salsedine sul colletto, la carezza della sabbia sono sensazioni che mai assocerò a lezioni bigiate, al dopolavoro. La mia infanzia è un caleidoscopio di stagni, frutteti e zanzare, fagocitato dalla città che ha prosciugato tutto, avida di spazi e silenzi. Donato è potentino, Sud appollaiato sui monti. Siamo le nostre città: Torino è dinamica, razionale, rigorosa; Potenza caotica, amena e orgogliosa. Torino è colta, partigiana; Potenza è silvana, Potenza è brigante.

Animale di strada, placido erbivoro che rispetta le precedenze, mette la freccia e attende civilmente il turno, Donato tiene gli occhi sul nastro d’asfalto anche quando siede al posto del passeggero, e io imbestialisco, vorrei osservasse quanto suggerisco e per primo additasse cosa guardare.

Le guide turistiche appellano Manfredonia “porta del Gargano”. Un’immagine bislacca, Manfredonia è una piana ai piedi delle alture, arrostisce sulla riva, la strada neppure ci passa.

È a destra, il Gargano avanti, somiglia più a un autostoppista.

Ed è mafiosa Manfredonia, ci hanno messi in guardia: «Non vi fermate, portatevi acqua e fate benzina a Potenza, perché fino a Foggia non c’è acqua, non c’è niente!» La geografia medievale della mamma di Donato, mamma mitologica, reale e meravigliosa, che vede Melfi come le colonne d’Ercole e conferma che Cristo si fermò a Eboli.

La Lucania è uno scrigno, un gorgo, una casa dai vetri smerigliati. Fuori non vedi dentro e viceversa… S’aggrumano e si disfano Melfi e Lagopesole sul vetro, cittadelle ove volavano falchi e si faceva poesia. Là salpavamo, qui approdo alla terra, macino terra, regioni e dialetti. Striscia il tempo, m’accompagna l’alba, osservo

il vicino, i mugugni nei suoi sogni che son dossi nella mia veglia. È assoluto silenzio, pace profonda, leggo e rifletto sul viaggio intrapreso, cosa lascio e cosa cerco. Vengo trascinato entro la mente a rendicontare il trascorso. Pensavo di ritrovare casa, di riscoprire la tenerezza che trasposi in quel racconto, invece è tutto terso, muto, altro da me: non ho visto a lungo, né vissuto affatto questo mondo. Ho con me Mediterraneo ed è pallida scheggia di memoria, quanto lo sei tu. Il racconto è una scatola vuota nella scatola di quest’altra narrazione.

… Rosicchio taralli consultando la cartina stesa sul cofano. La mia camicia svolazza in fragranze che chissà se ricorderò quest’autunno tra le foglie fradice e la nebbia di Po. Una stradicciola taglia il crinale, costeggiando uliveti e casolari sprangati. Cicale prillano invisibili. Paragonato al furente Mediterraneo livido del Salento, l’Adriatico è mite e celeste, come le rappresentazioni sacre che da queste parti abbondano. Le scogliere non crollano a strapiombo squarciandosi in gole ululanti, abbracciano ampie baie, sono bianche e paiono di gesso.

Altra esca per turisti, invalsa però in virtù del lirismo che racchiude, il soprannome della meta: farfalla bianca. Mattino, luce, le chiese di Maria Santissima della Luce e Santa Maria della Luce, Matinum, cantata da Orazio. Le case tirate a calce l’ascrivono alle molte città bianche del Sud, è però l’unica dal bel nome così chiaro, adagiata su un colle in una valle frammezzata d’ulivi. Mattinata aveva forma di farfalla.

Il fascino suscitato dai toponimi provoca in Donato un barlume d’interesse, sufficiente a far trapelare la sensibilità particolare che gli rende comprensibili le mie bizzarrie e schiude la mia realtà come il sole la corolla d’un fiore, consentendogli di penetrarla alla stregua di un’ape…

Procedono, lucanus e Lucania, da lucus, bosco scuro, ma pure radura irraggiata e santa sede di riti pagani. Precedono Mediterraneo cinque anni d’amore asfissiato dalla distanza, la medesima che separa la quotidianità dall’attuale destinazione: Potenza, e di lì, Matera. Insieme, due anni in apnea a Torino, infine, lo sconquasso della separazione, strale algente, procella orrida, furia grida e lacrime gettate su un passato ch’era pavida illusione di un futuro migliore. Oggi ignoro dove tu sia, con foga pari solo all’affanno, un tempo versato per scoprirlo.

Preferisco sia quiete tra i nostri mondi: uniti, in fondo, non lo sono mai stati. Si nascondevano uno nell’altro, come l’essenza inscritta dentro la tua paura. Su pagine e pagine ho spurgato il ricordo di un mondo che ho agognato fare mio e farne parte, arcaico, ancestrale oltre il tuo corpo esile, entro i tuoi occhi grandi e liquidi e languidi, così inermi al dolore e così avvezzi ad esso, come lo contenessero tutto il mondo magico della tua terra che, in sogno, ero io.

… Intuisco le forme della città traendone velo per velo. Palazzine poste su viuzze tracciate seguendo un disegno geometrico che prevede terrazze intersecate da trasversali rampanti riproducono prospettive sempre identiche. È giorno di mercato.

Capezzoli tedeschi sotto magliette umide e due pezzi occhieggiano i volti rugosi di vecchie matrone pugliesi nerovestite, mentre giovanotti bruniti dal sole smuovono casse e studiano. Pesce fresco, profumo di frutta e verdura intervallano il lezzo polveroso degli abiti cinesi. Un vivace affresco di Sud, fatta eccezione per il silenzio meridiano, quasi rituale, che l’avvolge.

Chiediamo a un tizio d’indicarci la via per l’ufficio turistico. Parla dialetto, fingo di capire e ringrazio, Donato traduce. Sul lato Nord, la razionalità del piano urbanistico si scompone in vicoli ciechi e parabole che ritornano su se stesse. Della farfalla bianca resta un labirinto inorganico di slarghi ingombri e botteghe piene di cianfrusaglie. Mattinata non fa aperitivo, non smercia false tipicità, né si denuda impudica su cartoline patinate. A Mattinata la gente è dedita alla raccolta delle olive più che alla pesca e dà l’aria d’essere impermeabile al turismo, o perlomeno di concepirlo solo come traballante carnevale, disgraziata parentesi nella vita contadina millenaria della città.

«A Mattinata si sta bene, vi raggiungono degli amici?» chiede l’ometto dell’APT che ci ha accolto come magi.

Io arraffo volantini, dico arriveranno un altro paio di persone, avete una cartina in più? Un po’a malincuore, il tizio allunga una seconda mappa, perché la mia intendo conservarla per ricordo e immagino Donato vorrà fare lo stesso.

«Hai la faccia come il culo, Lu», dice Donato, e io lo so, devo comprare un rullino da dodici…

Dentro te, oltre te immaginavo celarsi un giardino gemello di questo: mancava ahimè la chiave per schiuderlo, e se un mistero ammalia in principio, è pur vero che si finisce per amare quanto alla mente s’indova. Come comprenderti se ne facevi di ogni per evitare lo specchio? Accendesti innumerevoli luci pur di fuggire le ombre proiettate dai tuoi gesti, dalla tua voce, dalla tua fralezza. Fratello, era tempo d’offrirsi alla vita, a noi stessi, ormai uomini, al Vero Amore.

Le esperienze che hanno segnato la mia gioventù – le morti, le sfide, le umiliazioni, le lodi – mi han consegnato la barca con cui navigo il mio mondo magico, e così gli amici e la famiglia, sebbene centellini le epifanie del mio spirito, hanno colto qualche frammento di me. Quanto ti sei affannato tu, invece, per intasare il gorgo del tuo segreto? Non ero io, fratello, amore mio. Eri tu.

… Si chiama Funni, abbiamo visto la pubblicità su un cartellone stinto: un anatroccolo giallo e ridanciano.

«Funni Lido, funny lido. Che ne dici, Lu?»

A me Funni Lido fa venire in mente Funny Lady. Magari è anche friendly.

«Bah con ‘ste cose, Luca».

Varchiamo il cancello salutati da una vecchia stremata in prendisole e zoccoli blu. Invita a lasciare la macchina con un riguardo untuoso, rapace, estraneo all’accoglienza schietta e operosa del Nord. Il presunto figlio di lei in infradito e canotta, capelli lunghi e tatuaggio, con voce torbida ci mostra le piazzole libere. Banditi i tentennamenti, accettiamo. Il periodo apertosi col nostro riavvicinamento vogliamo sia all’insegna della rapidità e dell’azione. E per uscire la sera?

«Vieste. C’è niente, a Mattinata».

«È lontana?»,  chiede Donato.

«Quaranta chilometri. La strada è brutta, uno c’è morto l’altra settimana».

Sfiorati da un riverbero meridiano che indora i nostri gesti, montiamo la tenda, infiliamo il costume e raggiungiamo la spiaggia, percorrendo un sentiero cintato che ha sulla sinistra un parcheggio per camper e sulla destra un uliveto invaso da strutture fatiscenti, circondate da parchimetri.

M’imbarazza camminare fianco a fianco. Ammutoliamo incrociando gente, o quantomeno smorziamo i toni, smarrendo la concentrazione. Tendo a scrutarmi da fuori e scorgo un duo omogeneo per abbigliamento e fisicità che potrebbe dirsi imparentato. Confido in tale fraintendimento, persuaso come sono che gli amici non girino in coppia, non abbiano costumi simili, non portino l’ombrellone in spiaggia. Ostento sicurezza in risposta alla sua prudenza: l’idea che qualcuno possa intuire la connessione più profonda, il sentimento tra noi e latri una parola di troppo, mi terrorizza.

Sbarchiamo in America. Una freccia di roccia lunare corre da levante a ponente, niveo binario tra il turchese dell’acqua e il verde degli eucalipti. Il mare è imbevuto di luce. Rido, è bellissimo. Getto l’asciugamano e mi lancio, ansioso di tergere il sudore e la stanchezza accumulati. Donato si bagna centimetro per centimetro…

L’infanzia in trasparenza e negli occhi le sue case di cristallo. Dicevo: i miei d’autunno, di smeraldo il tuo sguardo. Crebbi col miraggio della montagna, o meglio, d’innumerabili monti immobili, le Alpi, fondamenta del mondo. Aspra pietra nera circonfusa di nubi, che aizza alla sfida. Da un certo punto innanzi, quando non saprei dire, presi a scalare e scalai la china più insidiosa: me stesso. Arrampicandomi dentro di me ho raggiunto una buona visuale. Giammai la cima, lassù giungerò l’istante prima di lasciare, per un’altra, questa mia montagna.

Ora seguo a ritroso il sentiero tracciato, i passi perduti, sino al mondo che racchiude rappresenta e rispecchia quanto alberga dentro di te. Non c’è sublime da contemplare quaggiù.

Non alti picchi, alcuna onda che sia altro dai poggi. Ti regalai il necessario, mai scalammo insieme. Poco affine il passo, il ritmo dei cuori. Franavamo in basso.

… Brulica sulla pelle, cristallina, dunque sale, tenace rotondità che t’illudi di poter domare mentre s’avvinghia e s’acciglia, scivola e scalza il fondo, scodinzola sulla cima e tu sei sotto, tieni la testa bassa, gli occhi serrati, mulini le braccia e le gambe, un metro, due, poi lo scudiscio ti scaraventa, la schiera di schiavi, i kuroi allacciati, schiena mediterranea, ruggisce, raggruma, avvolge, stinge, svolge e schiaccia, strattona e tutto si sbroglia, ricade, ribalta, sconvolge, dirompe tra schiaffi e tonfi e schiuma ed ecco: Enea sulle rive, Venere rediviva, (Lu!) sgattaiola nell’abisso e lancia una eco la forza che non ti appartiene, scivola via, sciaborda, lascia il tuo corpo lì, sul confine del mare.

«Luca, stai tutto il giorno lì dentro?»

Il confine del mare è Mattinata.

Fradicio, aggiusto il costume e gli trotterello appresso. Ancorché venticinquenne mi diverte “fare il coccodrillo”, dicevo da piccino: pancia in giù sulla rena a lasciar le onde rapirmi.

Il sole cala su un paio di anziani che girano in Westfalia e un mazzolino di ragazzi rumeni. La spiaggia è rimasta semivuota tutto il pomeriggio.

L’idea è trascorrere qui un’altra giornata, visitare Monte Sant’Angelo dopodomani, quindi raggiungere Annamaria a Lecce. Anna è la paccia che lavora al negozio dei genitori di Donato. “Paccia al volante” sta scritto su una minuscola t-shirt affissa al lunotto della sua auto, con una gruccia e una ventosa. Fierissima dell’ascendenza pugliese, va in spiaggia con dieci centimetri di tacco e una settimana fa, in ammollo a Policoro, tendeva i muscoli del collo per timore che la tinta si squagliasse. Ceniamo in intimità, chiacchierando e ridendo. Indossate camicia e braghe lunghe scendiamo in spiaggia con una bottiglia di aglianico e un fragrante pacchetto di Pall Mall. C’è luna piena, altissima. L’acqua è fuoco di barbagli.          Sediamo su un pedalò sciancato, sul quale ho preso un paio di scatti.

Stappo. L’aglianico contiene i sapori di una terra e di un trascorso, contiene Donato, asperità e dolcezze amalgamate ad abbracciare bocca e lingua in un bacio d’artista. Dominiamo la notte, siamo principi del mare, riesco a guardarmi dall’esterno e non è male. Cantiamo, beviamo, ridiamo bellissimi, a Mattinata. Torneremo fra vent’anni e che ne sarà stato di Gianfranco, il nostro tappeto volante?

Nel preciso istante in cui la vivo, so che questa è la vetta. Passato e futuro sono indietro, minuscoli, dimenticati…

Ricordo un bacio strappatomi nei sei mesi d’abbandono occorsi a far rifluire la linfa nel nostro rapporto essiccato, intervallo che anticipa Mediterraneo. Bacio ubriaco, conteneva intatta la disperazione del tuo affilatissimo primo amore. Lo contrappongo all’ultimo che ci restituimmo: cavo, freddo, appena velato di desiderio. Pretendeva d’introdurre il sesso, cui entrambi ci sottraemmo perché “quando un amore finisce, finisce sul serio, e non ci sono pezze o nostalgie che lo possano togliere dal sepolcro”.

Ambivo la cima, scorrere le dita nel cielo e un compagno con me. Amavo combattendo, ascrivevo la lotta all’amore.

Cercavo confronto, trovavo assenso. Soverchiavo di loquele, di rado, ero contraddetto. Spremevo un succo immaginario.

Soffocavo nella durezza e nei rimproveri la frustrazione del fallimento, ostinandomi a far aggallare un io che era già lì, tu eri lì, soltanto a me non bastavi.   Non eri tu, fratello, amore mio. Ero io.

Passioni piccine, pallidi affetti, amore povero che per te era tutto, per me era nulla. Fioco, umilissimo, ritenevi inadeguati tuoi piccoli sogni. Inseguivi, senza capirle, le mie chimere ciclopiche, accettando i rimbrotti, le defezioni, le critiche mosse al tuo indirizzo e l’ira tonante nei riguardi di quanto si ritrae e mi lega alla terra. Ti detestavo quanto più ti sforzavi di comprendermi. Eravamo alieni ai nostri mondi, sebbene solo in apparenza. L’assurdità del sodalizio muoveva infatti da due irremovibili debolezze, semplicemente declinate in maniera opposta.

Anni a trascinarci nel deserto per scoprire infine recare, la maturità, una seconda innocenza e lo smarrimento della stessa.

Macchie bianche hanno minato il rosso acceso della mia barba.

Dissi addio all’Eden baciandoti la fronte.

… Il cancello che rende possibile l’accesso al viale pedonale per il campeggio è chiuso, così tentiamo lo sterrato che attraversa il parcheggio dei camper.

Il custode, nel venirci incontro in sandali e camicia aperta sul pancione, pare l’attore di un western da quattro soldi.

«Giovani, di qua non potete passare, è riservato».

Ha della birra?

Finiamo seduti attorno a un tavolo a fumare, bere e chiacchierare.

«Se c’era mio figlio, conosce tutti! A Manfredonia sta’, col motorino. Passa per la statale che l’altra settimana c’è morto un ragazzo».

Il fratello di questi, scapolo un po’ laido, ha passeggiato fino alla discoteca sul molo e parla di ragazze: «Se volete delle ragazze, se cercate delle ragazze, là ci sono un sacco di ragazze che bevono, ragazze belle, belle ragazze».

«A Mattinata dovevano costruirci il lungomare e non c’è niente. Vai a Vieste, qui ad agosto c’è movimento, ma a settembre? Una volta era meglio, c’era il camping coi parchimetri, poi i figli han venduto tutto e si son fatti le ville».

Al Funni si sta bene.

«Sì, ma il ragazzo beve. Che vuoi farci, non è più come una volta».

Andiamo a fare un giro.

«Magari incontrate delle ragazze».

Per discoteca intendeva la pista da ballo di un villaggio vacanze, una pianola e quattro tardone che scimmiottano un tango. Un ragazzino coi dred chiede dov’è un tabaccaio. Dico lo cerchiamo anche noi e gli offro una delle ultime tre sigarette.

Lui l’accetta e ringrazia, sbronzo, avrà sì e no diciannove anni.

Potremmo fare amicizia con loro che suonano la chitarra in riva al mare e sembrano gli unici ragazzi di Mattinata, ma stiamo per conto nostro. Mattinata non è la Rimini di Tondelli, c’è niente per davvero.

Fumiamo le ultime due sigarette dando un’occhiata al porticciolo.

Quasi dieci anni alle spalle, nuove strade tentate, gioie inattese. Ho voluto sapere poco di te, non ricordo perché. Certo, il dolore, la conferma virulenta della mia vana ricerca, del tempo sprecato. Mai mi sarà reso. Il dubbio lancinante d’aver spartito la giovinezza con un mediocre, lasciarlo insoluto, è mio intendimento.

Poco incline al perdono, come tua madre, conosco solo memoria.

Estremo pudore e debolezza la negazione della parola.

Nascosto per anni, barricato dietro la volontà di risparmiar loro una pena, infliggesti a te stesso la prigionia, e a me la menzogna.

Pervenuti per caso – mai avresti confessato – a quel che io e te eravamo, i tuoi hanno negato il saluto e si sono rintanati fra queste dannate colline. Mi arrendo, umiliato, alla stomachevole inerzia, a tanta viltà. Una lunga eclisse ha cancellato i vostri nomi, i volti, i ricordi. Ha cancellato però,anche la tua colpa. Troppo tardi comprendo la sofferenza e le azioni. La putrefazione di una storia produce un veleno che impiega anni a dissolversi. Potrò sì dimenticare, ma esserti amico? Altra la vita, innumerevoli le esperienze. Ci sono io, poi ci sei tu, due mondi definitivamente estranei. Il nostro Eden è un giardino derelitto, monte romito, mito dimenticato. Pensiero amaro alla mia mente, magari per te dolcissimo. Non conosco il tuo presente, né gradirei farne parte: il mio è il mare.

“È come un indugiarsi ancora per alcuni istanti sulla soglia, innanzi all’ultima dipartita.” Ti auguro l’amore e ti ringrazio per la benedizione del nostro addio. Ti auguro di scovare la porta per penetrare il tuo mondo; soprattutto ti auguro, nell’immiserimento e volgarità di questo mondo, di non smarrirla. Talvolta percepisco il peso di tutto quel tempo infetto, vorrei accogliere tra le braccia i due ragazzi smarriti che anni addietro s’incontravano in sogno, suggerirei loro di osservarci e lasciarsi andare, con fiducia, alla tersa solitudine.

Non ho rimorsi, né desiderio di rivalsa oggi, che sei ombra e nulla più. Sono qui, sto bene, sale la marea, fluisce, circonda il mio corpo, la mia anima, il mio cuore, la mia mente.

Oggi, è mare calmo.

… È un tramonto malinconico. Tento qualche fotografia con la Minolta a pellicola di papà: un ombrellone chiuso, per sfondo il mare grigiastro al crepuscolo, le scogliere lontane, un pallone da mare bucato, Gianfranco il pedalò. Sul diario abbozzo il fotogramma vissuto la sera prima e glielo mostro.

Sorride, non se l’aspettava.

Mandiamo Vieste al diavolo e decidiamo di trascorrere la serata in paese.

I tavoli della locanda prescelta sono per strada, apparecchiati con tovaglie a scacchi rossi e bianchi. Dalla cucina si affaccia la cuoca, donnone in grembiule che risponde al nostro saluto, battendo le mani: «Ué, nun t’aggia canusciut’!» Non afferro, ma Donato risponde con cortesia che in realtà non siamo di qui, l’ha preso per qualcun altro. Lei si scusa, ride, scompare dentro.

Le linguine alle cozze sono squisite, e ancor più le orecchiette scampi e rucola di Donato. Eleggiamo a sacrario la pasticceria Ciangularie, termine dialettale che significa golosità, delizia, dolcezza – con esso Donato mi apostroferà nei mesi seguenti. Consumiamo dolci di pasta frolla con granella di nocciola e miele, paste reali alla mandorla ricoperte di zucchero a velo e torcetti. In tenda, ci auguriamo di non essere braccati dalle zanzare come la notte precedente, spegniamo la luce e facciamo l’amore mentre fuori qualcuno parla.

Sussurro al suo orecchio il nostro segreto, e lui lo stesso al mio.

Spero di destarmi all’alba per vedere il sole levarsi sul mare, domani, a Mattinata…

Un sobbalzo desta la mia amica dal sonno. Sventaglia le palpebre sui grandi occhi verdi, le scosto una ciocca di capelli dalla fronte, le bacio una guancia.

«Ciao», dice con voce rauca, da bimba la mattina di Natale.

Fisso quei globi da gatta lunare – simili ai tuoi, così simili le anime con cui intrecciamo la vita in ricamo – e rifletto su quanto sia il potenziale esperito di te: sa difendersi, lottare, sa conoscersi, ama esplorare, vincere, tentare.

«Siamo arrivati?»

Fuori saettano le torri grigie di Potenza, il ponte Musumeci, il Serpentone. Oltre quel leviatano cinereo sono Dragonara, il Poggio d’Oro e altri nomi degni di Tolkien.

Annuisco.

«Lo stavi rileggendo di nuovo».

Indica le pagine di Mediterraneo, stiracchiandosi. Bello sapere che nulla, salvo rovinose infrazioni, potrà recidere un amore simile, diceva C. S. Lewis, a quello degli angeli. Un amore immune a paura, possesso, malizia; amore molteplice, ascrivibile agli innumerevoli affacciati sul cielo vasto e chiaro della vita, come vette acute e belle irrorate di sole, vicine al punto che le puoi toccare e lontane, dissolte quasi nel riverbero, che sono gli antichi amori, l’infanzia, i sogni.

«Sembra un’isola».

«Scendiamo alla stazione Inferiore, si chiama Centrale adesso».

«Luke… com’è rivederla?»

Sordomuto ricordo, frusciar di foglie di qua da un vetro.

«È bella, Candide. È sempre bellissima».

Smontiamo assieme a una ventina di passeggeri scarmigliati.

Trasciniamo i bagagli sino alla banchina dove parte il bus per la bianca città dei Sassi.

«Pesa? T’aiuto a metterla su».

Candide rovescia lo sguardo, occhi al cielo: «Non ha ancora nemmeno aperto, Luke! Easy: caffè e siga».

Le do un buffetto sul braccio.

«Easy?»

Mediterraneo, compagno del prezioso istante di levità di cui scrissi, oggi nutrita florida fiducia nelle possibilità aperte, atrocemente temute un tempo. Mediterraneo, accettazione di sconfitte, debolezze, delle prove, della morte.     Mediterraneo, resurrezione quotidiana nella luce delle cime, in acqua e aria scintillanti, silenzi abbaglianti.

Ride, Candide.

         Easy.

… Nella tenda un velo d’umidità, l’aurora profuma di salsedine.

Ulivi che tintinnano, fruscii, sospiri d’eucalipti. Diluirei questo tepore mediterraneo per goderne una pallida eco ogni giorno e non dimenticare chi sogna accanto al mio corpo.

Sul quadro vivido del presente, lasceremo Mattinata dopo colazione, saremo altrove, altri altrove fileranno via, torneremo a Torino. Svilupperò le fotografie, avrò perso molti volti.

Descriverò mattine e colori in sere grigie, inseguirò aromi tra densi afrori.          Domanderò a me stesso se la vita insieme è fragile come farfalla o se invece resiste immortale in qualche limbo celeste. Tornerò a Mattinata per raccontare Mattinata, e ascolterò cantare di albe che risvegliano, mediterranee, per condurre altrove, purché sia lontano.