I racconti del Premio letterario Energheia

Apocalisse_Maurizio Canosa, Matera

_Racconto finalista settima edizione Premio Energheia 2001.

 

“Mi ha ripieno di amarezza, mi ha inebriato di assenzio. Ed ha

spezzati a uno a uno tutti i miei denti, mi ha cibato di cenere. E’

bandita dall’anima mia la pace; non so più che sia bene”.

(Geremia, Lamentazioni, III, 15 – 17)

Un mattino bruciante dell’anno di grazia 1191, colmo di felicità insopportabile, andai a impiccarmi al ramo più alto di un secolare ai margini del feudo di Roccacannuccia.

Alla nascita m’imposero il nome di Crispino da Montalbano e fui sempre considerato un malriuscito. Singolarmente dotato di buone maniere e dell’egoismo tipico dei deboli, da giovanissimo usavo passare notti intere a imbastire frasi d’ingenua saggezza sui litorali sabbiosi dello Jonio. Speravo allora che cavalieri, viandanti e marinai potessero gustarne, in tempi di luce, il senso di verità indiscutibile e s’interrogassero sulla natura non comune del misterioso creatore.

Ma nessuno venne mai a bussare alla porta del mio cascinale, a cento metri dal mare, dove vivevo insieme a mio padre pescatore e ai miei quattro fratelli tutti più vecchi di me, forniti di maggior senso pratico e infinite possibilità di stare al mondo. Così il vento faceva presto a cancellare quei versi appassionati e a me pigliava una specie di rancore, quando il sole di mezzogiorno cominciava a battere alle finestre per venire a scuotermi dal sonno e rivelarmi una volta di più la spietata indifferenza delle cose.

Per fortuna il disagio non durava a lungo. Non sono mai stato dotato di un sincero temperamento poetico, nutrito di malinconia e sprofondato a tal punto in se stesso da forgiare quasi involontariamente un destino. Non c’era momento di nera tristezza che non mi scappasse via con l’aiuto di una corsa a dar la caccia ai topi o di una rissa tra fratelli. Mio padre raramente mi portava in barca con sé. Le poche volte che lo accompagnavo, mi prendeva un sonno invincibile, provocato più dalla noncuranza per le operazioni di pesca che dalla stanchezza per la notte trascorsa a scrivere sulla sabbia.

Quell’uomo scavato e solido, che forse ho amato senza saperlo, capì dal primo momento che il sangue non basta a dire l’appartenenza e che non sarei mai stato figlio suo se non in modo accidentale e trascurabile.

I giorni i mesi e gli anni si bruciarono in questa forma inconsapevole.

Crescendo, mi feci per reazione gran cercatore di donne e accanito parlatore di dialetto, facile al vizio e violento quanto bastava per farmi rispettare. Da briganti e cacciatori

conosciuti nelle taverne di mezza Italia imparai svelto l’uso delle armi e condussi vita dissoluta per un periodo indefinito.

Per qualche mese finii al soldo di certo Parise da Sorrento, cavaliere, mediocre e dissennato, di quelli che se ne andavano in giro per il regno come sciacalli per darsi al saccheggio e ai piaceri dello stupro, ma lo abbandonai una notte d’inverno, quando venni a sapere che si preparava ad arruolarsi tra le guarnigioni del conte Romano da Velletri per guerreggiare in Terrasanta. Parise da Sorrento, oratore d’eccezione, mi insegnò che la guerra è cosa bella e umanissima, una cosa troppo importante per sprecarla nelle piccole questioni quotidiane come fanno i mercanti nei loro alterchi da pollaio.

Per fare guerra, mi diceva, bisogna aspettare il momento propizio: la questione di grande valore! In realtà, per quanto divenuto per scelta cosciente uomo scostante, non potevo considerarmi un bellicoso, nemmeno per causa di nobili missioni.

La mia perizia nell’uso della spada l’avevo alimentata favoleggiando sulle straordinarie imprese dei cavalieri franchi che i canzonieri siciliani arricchivano in statura ed eccezionalità fino a farle divenire inverosimili. Ma un’immagine di tale potenza dovette parermi così vera che non mi fu difficile imparare lo scarto irriducibile tra la natura perfetta di un eroe e le modeste possibilità d’azione di un indolente plebeo di nascita quale io ero. Così quella notte decisi di lasciare Parise al suo destino. Vendetti le mie armi da brigante e cambiai vita, come si cambia un abito troppo vecchio.

Andai vagando per le pianure e le colline del meridione elemosinando lavori umilissimi per sopravvivere. A Lagopesole il Signore del luogo mi prese a castello sistemandomi a lavorare nelle cucine come lavatore. A Matera mi spacciai per artista e un bottegaio di salumi mi offrì dodici soldi perché gli fabbricassi un maiale di pietra per far bella figura con i clienti all’ingresso del negozio. Ad Amalfi un ricco mercante di spezie mi arruolò sulla sua flotta. Dovetti per mesi raffinare a mano interi carichi di pepe nero nella stiva buia della caravella.

In uno di questi viaggi incontrai un incantatore di serpenti.

Subito strinsi amicizia con lui. Alto più di dieci misure, sottile ed elegantissimo nei gesti, nerissimo, con una folle curiosità da femmina nello sguardo, mi insegnò l’arte di sedurre vipere e bisce al suono della cetra. Saggiai il mestiere nelle piazze al mio ritorno e per un poco gli spettacoli apparecchiati destarono un certo interesse. Poi, un giorno sciagurato, a Sibari, un aspide che avevo ammaestrato come un figlio non ne volle sapere di inchinarsi al potere delle note. Mi scappò dalla cesta con un guizzo malevolo andando ad avvelenare a morte un bambino che stava seguendo a qualche spanna la mia prova da giocoliere. In preda al terrore e con gli occhi saturi di lacrime dovetti fuggire dai paesani pronti al linciaggio, abbandonando cetra e serpenti a distruggersi nel furibondo calpestio degli indemoniati.

Trovai rifugio in un convento di monaci benedettini. Mi accolsero con umana pietà, commuovendomi per i loro modi sereni e decisi. Per qualche tempo feci perdere le mie tracce, ma quasi in preda alla disperazione fui sul punto di prendere i voti. Fra Diego, un monaco napoletano rubicondo e laborioso, che serviva messa tutti i venerdì e si diceva esperto nella coltivazione della cicoria, mi divenne particolarmente caro.

La sua parlata franca e gli atteggiamenti sbrigativi fecero forte presa su di me. Tutti lo sapevano buon servitore di Gesù Cristo ma a volte dava l’impressione che la vita serena del regime monastico non gli fosse sufficiente. Quando gli veniva voglia di felicità fisica, esagerava di nascosto con l’acquavite.

Lo si capiva dal modo in cui ti guardava e commentava le cose che gli capitavano attorno: cominciava a perdere il senso comune, sorrideva di continuo e diventava languido.

Non esplodeva mai la sua gioia in faccia a tutti. Era il massimo che voleva concedersi. Per qualche oscuro motivo una parte della sua coscienza rimaneva attenta a non farsi cogliere in stati di esaltazione che sarebbero parsi sconvenienti. Ma la sua saggezza era implacabile. Sovente era pronto a scuotermi dai miei stati di torpore. Mi sorprendeva poi la severa sensibilità con la quale riusciva a sollevarmi il morale. Un giorno arrivò a dirmi, riferendosi alle mie doti da poeta, che un diamante come me non sa di brillare ed ha bisogno costante di occhi che lo guardino. Rimasi in estasi tutta la giornata, poi a notte fonda volli convincermi che quella considerazione era solo un rimprovero alla mia vanità e finalmente riuscii a prendere sonno.

Ricordo benissimo che un pomeriggio di giugno fra Diego mi venne incontro che stavo lavorando all’orto.

– Presto – mi fece come una furia – svesti calzari e saio da lavoro. Andiamo in paese.

– Cos’è quest’aria da festa? Mi portate a un lupanare? – celiai.

Senza rispondere, mi prese per un braccio e mi trascinò via senza complimenti.

– Ti cambierai in cella… capace che non facciamo a tempo!

Sbrigammo il percorso a piedi. Al di fuori delle terre del convento era permesso utilizzare i muli solo la prima domenica del mese, quando si doveva raggiungere il mercato per andare a distribuire ai poveri il raccolto non necessario all’alimentazione dei monaci.

Fra Diego camminava avanti serio, serio ed io a stento riuscivo a tenergli il passo. Un paio di volte gli chiesi il motivo di quell’improvvisata, ma quello annaspava tutto sudato. Non pareva tenesse fiato per rispondermi a parole. Così si limitava ad atteggiare curiose smorfie con quel suo faccione paonazzo, come a farmi capire che se non mi muovevo avrei perso un’occasione sublime.

In un’ora giungemmo alle porte del paese.

Notai subito che ogni sorta di gente veniva dai quartieri a incolonnarsi per la via principale. Tutti sembravano seguire una destinazione unica e precisa. Le mamme tenevano i figli per mano nel tentativo di quietarli ma una strana, comune eccitazione di festa serpeggiava indomita per le strade: nelle voci tenute alte, nelle esibizioni dei cavadenti agli angoli delle vie, nella frenesia dei friggitori che offrivano ai passanti delizie a buon mercato. Dietro le finestre spalancate sorridevano le donne troppo vecchie alla gente che dai vicoli alla piazza si mescolava in allegria. I maniscalchi, i falegnami, i tappezzieri tenevano bottega chiusa come fosse Domenica.

Là in fondo un mulattiere frustava la sua bestia con la groppa carica di fieno e quella gli rispondeva a tono, lasciando sul terriccio chiazze molli di escrementi.

– E’ giorno di devozione – azzardai.

– Non proprio – ribatté fra Diego – ma oggi è il giorno che il Signore ci mostrerà il vero volto della sua misericordia.

Un lampo fuggì dal suo sguardo di frate. Non feci in tempo a sorprendermi che fui distratto da rumori di urla provenienti dal fondo della via. Un corteo di flagellanti, a schiena nuda e insanguinati, precedeva una lunga processione che terminava con un gruppo di frati domenicani stretti attorno ad un carro trainato da buoi. Sul carro, accerchiato da quattro armigeri, stava saldamente legato ad una sedia un uomo anziano e barbuto. Fissava dritto davanti a sé un punto impreciso dell’orizzonte, molto distrattamente. Si sarebbe detto che niente di ciò che accadeva lo riguardasse. Presto la folla si spartì in due ali. Nel vociare alterato degli spettatori il corteo procedeva lento e solenne. Ma quel che faceva da contorno s’ingarbugliò di colpo in un orgasmo di braccia frenetiche e teste levate al cielo per scrutare meglio. I più attivi per conquistarsi le prime file facevano quasi gazzarra. Fra Diego restò immobile, come preso da un incanto, mentre una fiumana di gente ci sopravanzava sgomitando. Io vedevo fra Diego che fissava l’uomo sul carro. Nient’altro pareva interessarlo.

Qualsiasi cosa svaniva intorno: la folla, i venditori, il corteo.

Aveva piantato gli occhi su quella figura disperata e non prestava attenzione che a lei.

– Mi avete portato a un’esecuzione? – domandai maldestro.

Quello restò calmissimo.

– Vedi? Quell’uomo è un frate, un eretico bestemmiatore.

Tra poco sarà benedetto dal fuoco sacro della pira e la sua anima di peccatore verrà salvata.

Sorrise. La sua voce aveva acquistato un suono diverso, denso di un’ebbrezza tiepida.

Poi finalmente si mosse.

– Vieni! – mi disse – dobbiamo seguire la processione.

Lasciammo che il carro ci sfilasse lateralmente e per un attimo riuscii a vedere bene la sagoma del condannato. Un boccaglio di ferro gli provocava copiose perdite di sangue dai denti. Robuste corde di canapa lo tenevano avvinto alla sedia mentre ai polsi, legati dietro la schiena, due manette a tenaglia lo stringevano implacabilmente fino a spaccargli i nervi. I piedi rimanevano scalzi, come si conveniva a un penitente, ed era tutto vestito di bianco, con un saio di lana grezza mezzo imbrattato di sangue.

Provai a guardarlo in faccia. Svegliato di soprassalto da un silenzioso sgomento, mi rimandò un’occhiata da impressionare.

Ebbi paura come se quegli occhi portassero l’anima del diavolo. D’istinto abbassai lo sguardo.

Avevo già sentito parlare di un’istituzione nuova sorta all’interno della Madre Chiesa, creata allo scopo di arginare il diffondersi delle sette eretiche e rafforzare la verità dei Santissimi Sacramenti, ma era certo la prima volta che da queste parti veniva preparato il Giudizio della Purificazione.

– Dunque è così -, dissi a mezza voce.

– Guarda Crispino, guarda che bellezza!

Tutti i notabili del territorio presenziavano orgogliosi l’eccezionale evento. Dietro i flagellanti, lo stendardo del Santo Uffizio veniva innalzato da don Francesco da Corbino e i nastri che scendevano dai due lati erano tenuti da due cavalieri valorosi: Gondrano di Scalea e Domenico da Rossano. Appresso, il corteo si snodava nella partecipazione di più di cento titolati, seguiti dai nobili della Compagnia della Vergine del Castagneto, vestiti di sacco nero, mantello di panno bianco e torce accese in mano. Poco distante seguivano i suonatori e le varie congregazioni; quindi il carro del condannato che precedeva il popolo. I più fortunati in avanguardia, che guidavano il resto della platea, potevano insultare a piacimento il prigioniero e tirargli addosso frattaglie di cani arrabbiati, di cui s’erano muniti in precedenza. Gli armigeri che scortavano il condannato spesso dovevano prendersi al suo posto quelle immondizie sulla faccia, perché la roba volava in ogni direzione e non era il caso di guardare troppo per il sottile. Da sopra il carro i soldati facevano roteare le alabarde; minacciavano punizioni esemplari, ma più che difendere l’uomo dal ludibrio della folla, essi dovevano difendere da quei lanci indiscriminati se stessi e l’abbigliamento da parata che certo indossavano con fierezza.

Io e fra Diego ci mettemmo in coda. Seguimmo la proces61 sione fino in piazza. Qui era stato costruito un anfiteatro in legno, composto da una gradinata di sei ordini, tre palchi sovrastanti, un palchetto per i musici e un altare. Poco lontano si faceva notare l’allestimento di una immensa tavolata, con tanto di cucinieri al servizio: doveva dar modo a notabili, dame e inquisitori di ristorarsi nel corso della lunga cerimonia. Velluti cremisi provenienti forse dalle lontane Venezie adornavano la scena. Lussuosi tappeti, cuscini arricchiti da ricami difficili, rami di mirto, vasi e candelieri d’argento erano stati disposti un po’ ovunque con sapiente architettura.

Fra Diego attirò la mia attenzione.

– Quello è il patibolo -, mi indicò tra la folla.

Mi voltai. Stava di fronte all’anfiteatro, semplicissimo e imponente, mano di Dio in attesa. Lo avevano costruito affiancando sei panche di legno tenute insieme da rozzi legami.

Al centro, un palo di quercia altissimo campeggiava tra ceppi e rami secchi lasciati ancora in disordine ai lati della struttura.

Sullo sfondo un largo drappo di velluto azzurro stava a significare, probabilmente, l’immane potenza dei cieli. Già sotto le panche si intravedevano topi tenaci inchiodati alle funi a rosicchiare e gatti velocissimi che li sorprendevano di prepotenza, pronti a sballottarli da una parte all’altra una volta addentati con precisione.

Intanto faceva sera. La piazza ormai ingrossata di gente che attendeva con impazienza l’inizio della cerimonia. Alcuni già avevano preso la via di casa, insoddisfatti e stanchi, perché all’imbrunire era tempo di sonno e l’indomani, al sorgere del sole, il lavoro nei campi sarebbe stato impietoso come al solito. Ma i più rimasero: l’evento proclamava la sua importanza, non vi si poteva rinunciare a cuor leggero.

L’eretico stava ancora sul carro, immobile, circondato dai quattro soldati che passavano il tempo a chiacchierare. In tutta tranquillità i notabili presero posto a sedere mentre il piccolo congresso degli inquisitori, vestiti di viola, parlamentava ai piedi del patibolo. All’improvviso otto fanciulle saltarono fuori dal mezzo della folla e andarono a illuminare le torce collocate tutt’intorno alla piazza.

Lo spettacolo poté cominciare. Nei bagliori dei fuochi delle torce sembrava magnifico. L’eretico, sempre seduto sulla sedia, fu legato al palo. Per quasi tutto il tempo, venne lasciato solo. Quattro volte padre Giovanni di Santorini, primo inquisitore, si avvicinò al frate per tentare di estorcergli un’abiura o una confessione, ma ogni volta che lo sbirro levava il boccaglio per farlo parlare quello cominciava a inveire contro i suoi accusatori e tutti i santi con una veemenza da far venire i brividi ai polsi. Ogni volta don Giovanni tornava pensieroso sul palco degli altri giudici a discutere sul da farsi. La folla esplodeva allora in urla esagitate: voleva ammirare subito la splendida morte dell’eretico.

– Niente – mi diceva fra Diego preoccupato – quell’uomo è ancora posseduto dal demonio.

Nell’attesa, tra un tentativo e l’altro, i musici suonavano per distrarre il popolo dalla furia che rischiava di montare. Le dame andavano a rinfrescarsi al tavolo delle buvettes. Io rimanevo stupito, ebbro di confusione e trascinato dalla forza dell’evento cui stavo per assistere. Un uomo preso dal diavolo, un peccatore impenitente, un violento, un bestemmiatore stava per essere reso perfetto, ricondotto una volta per tutte all’immobile unità di Dio.

Vinto da un’eccitazione incontrollabile, abbandonai fra Diego tra la folla. Mi diedi da fare per raggiungere il fronte del patibolo. In pochi minuti ci riuscii. Potevo di nuovo vedere gli occhi di quell’uomo, bene aperti, fulminanti, pronti a dannare l’umanità intera.

– Ti salverai! – gli urlai commosso, e gli tesi istintivamente una mano che non poteva arrivargli.

L’eretico inarcò le sopracciglia lanciandomi uno sguardo cattivo. Fu un attimo. Ad un segnale convenuto, proveniente dal palco dei giudici, quattro uomini balzarono sul patibolo.

Rapidamente cominciarono ad accatastare pagliericcio e pezzi di legna ai piedi del condannato. Io stesso, fui preso alla sprovvista.

Restai ad osservarli estatico. Quegli uomini avevano cominciato a lavorare con una precisione metodica, armoniosi e solleciti nei movimenti, bellissimi coi loro torsi nudi e sudati che a tratti luccicavano nei fuochi accesi della notte.

S’incrociavano senza mai sfiorarsi, ognuno sapendo perfettamente il proprio compito. Due di loro si occupavano di riunire i rami secchi e la paglia ai piedi del palo, gli altri badavano a tenere da conto i ceppi. La catasta andava costruendosi con amorevole trasporto, come un edificio sacro. Uno di loro smise all’improvviso di lavorare e venne a confabulare con uno dei prelati che osservava la scena affiancato al palco patibolare.

Si accorsero che l’eretico era voltato verso oriente. Con un cenno rapidissimo l’esecutore richiamò i compagni, così tutti assieme si diressero verso il prigioniero. Fu slegato e rilegato, stavolta affacciato in direzione di Roma. Poi ripresero ad ammucchiare legna e paglia coprendolo quasi fino al mento.

Bastarono pochi minuti. Quando ebbero finito si fecero portare delle torce e si misero ai quattro angoli del patibolo, in attesa.

Toccò quindi a don Giovanni di Santorini prendere definitivamente la parola. Impose il silenzio con un gesto delicato della mano. Armeggiò per qualche istante con delle pergamene sgualcite mettendosi ad elencare con voce stentorea le scelleratezze del condannato.

– La fortezza della mente di quest’uomo – recitava – fu espugnata dal demonio, che in essa fece irruzione e nella parte più interna del suo cuore; penetrò questo tremendo nemico nei recessi del suo animo, ne dissipò la fede, vi seminò largamente le proposizioni ereticali, blasfeme, temerarie; e l’uomo divenne apostata, idolatra, blasfemo, malefico, superstizioso, eretico, dogmatista e sentina pestilentissima di tutti i più orrendi delitti.

Continuò per qualche minuto a declamare le atrocità del reo. Poi elencò le giustificazioni della sentenza. Noi del popolo, disinteressati, aspettavamo altro. Infatti il segnale agognato arrivò: un secco battito di mani. Gli esecutori si guardarono. Con le torce roventi partirono a unisono verso il centro della forca, appiccando il fuoco da quattro lati. Nel giro di un attimo la sagoma dell’uomo avvampò, distribuendo una ventata di calore e di scintille che arrivò fino al cuore della piazza. La luce del rogo cominciò a splendere negli occhi di tutti, ma, ancora più intenso fu l’urlo di acclamazione che partì da un gruppo di giovanissimi sistemati nelle prime file per trasmettersi come un contagio al resto del popolo.

Commosso fino alle lacrime, cercai di restare concentrato sulla figura del condannato sul patibolo, ma i suoi contorni fecero presto ad annebbiarsi tra le nuvole di fumo sempre più imponenti che lo avvolgevano fino a soffocarlo. Nel clamore assordante non riuscii nemmeno a distinguere se l’uomo avesse elevato al cielo un ultimo grido di pentimento o di bestemmia prima di morire. Intravidi soltanto la sua testa reclinarsi da un lato e uno degli esecutori che con un bastone provò a smuoverla in direzione opposta come stesse spingendo una palla di stracci. Non ci fu reazione. Si doveva solo attendere che le fiamme completassero l’opera. Il volere di Dio, definitivamente, si portava a compimento.

Quando ogni cosa fu consumata dal fuoco gli inquisitori ordinarono lo spegnimento delle fiamme facendovi versare grandi quantità di acqua. Ma la cerimonia non era finita. I carnefici procedettero all’operazione di annientare il corpo carbonizzato. Si munirono di asce robuste. Il cadavere del condannato venne slegato e fatto a pezzi, le ossa furono spezzate.

Successivamente, insieme alle viscere, furono buttate di nuovo sulle ceneri fumanti. Quindi altri cumuli di paglia e legna secca vennero apparecchiati sui resti affinché, in un ultimo falò purificatore, l’anima dell’eretico potesse finalmente ascendere al cielo insieme alle fiamme.

I musici allora intonarono un Requiem. Il primo inquisitore, particolarmente ispirato, servì una messa plateale che commosse unanimemente il popolo, le dame i notabili intervenuti.

Era notte fonda quando io e fra’ Diego ci ritrovammo. Lui era tutto sudato, io sconvolto più di lui. Non ci fu verso di scambiarci una parola: il suono delle nostre voci, a quel punto, ci pareva indecoroso. La gente ci passava di fianco; faceva ritorno alle proprie case commentando l’evento con gli accenti più diversi. Prendendo lentamente la direzione del convento ognuno si perse senza ritorno nei propri pensieri.

Per un mese, attesi, paziente, il momento giusto. Lo cercai negli occhi imploranti di una donna accusata di contrarre patti carnali col demonio; provai a sentirlo nel suono delle caviglie slogate di un giovane assassino di preti; lo intravidi nel sudore sgorgante dalla faccia di un ladro di sacre reliquie, lacerato a sangue dal disegno del ferro inferto a fiamma viva sulla pelle. Quello che cercavo non somigliava più a un vano bagliore di gloria terrena. La violenza che mi portavo addosso e che scaricavo sugli uomini assumeva adesso il senso preciso, trasparente, di un gesto d’amore assoluto.

Per questo divenni esecutore di giustizia.

Dopo la notte del rogo ci avevo pensato a lungo. Chi erano quei quattro carnefici operanti sul patibolo come artisti, se non gli ultimi sacerdoti del passaggio supremo, l’incarnazione della mano potentissima di Dio che apriva le porte del regno infinito, fautori di un’espiazione che dona una salvezza senza cadute? Pensare che quei corpi brutali, quelle braccia assetate di violenza fossero il vero tramite dell’eternità divina mi dava le vertigini.

Avevo dunque lasciato il convento dei monaci e salutato fra’ Diego con una nuova missione nel cuore: trasformarmi nel braccio armato della giustizia misericordiosa di Dio. Lo scopo divenne quello di catturare l’istante in cui la vita intera di un colpevole si risolve in quella del suo carnefice: l’uomo che si fa’ carico delle vergogne e dei delitti di un’esistenza persa e la libera dalle impurità attraverso la forza sacra del dolore. Ogni volta cercavo quei momenti come una sorta di miracolo. Aspettavo il punto in cui lo strazio della vittima incontra l’estasi (dunque il pentimento e la salvazione); un punto che solo la pratica del supplizio poteva aiutare a raggiungere e che io inseguivo con zelo e passione, sinceri. Solo quel punto, che con il suppliziato avrei condiviso in mezzo alle lacrime, avrebbe potuto dirmi se Dio aveva proprio scelto me come strumento benedetto della sua grandezza.

Ma era difficile. Ciò che trovavo negli sguardi delle mie vittime era solo dolore, misero e inevitabile dolore, tristissimo, completo, penoso, perfettamente fisico; oppure una rabbia cieca nelle imprecazioni schiumanti dei più deboli a resistere; o ancora la muta indifferenza degli eremiti, che subivano la morte dominando la passione, ripiegando sovranamente e chiudendo ogni porta alle possibilità del tormento. Mi deludevano per questo, mi irritava quel dominio assoluto di sé che significava guerra sorda nei miei confronti e non mi consentiva di intravedere alcuna scintilla di condivisione divina.

Ecco perché, quasi per ripicca, spesso mi prendevo la libertà di accelerare la fine cruenta dei condannati, anche di quelli minori. Una volta feci scappare inavvertitamente una lama di coltello troppo in profondità nella gola di un giovane manicheo, e un’altra volta avvitai a dismisura la corona di ferro intorno al cranio di una venditrice di miracoli, provocandone la frantumazione. Ma giusto qualche rimprovero, ai miei superiori, pareva bastante a rimettermi in riga e svegliarmi dalle mie distrazioni, anche perché riconoscevano in me la stoffa dell’ottimo mestierante, motivato oltremodo e già versato nell’uso delle armi – il che non era cosa di poco conto, visto che sovente imputati e condannati opponevano una re66 sistenza fisica tale da costringerci ad adoperare coltelli, lacci e mazze ferrate per ridurli alla ragione.

Un giorno d’estate stavo a riposarmi all’ombra di una quercia, tra il chiasso cadenzato delle cicale e l’ardore dei rosolacci.

Il mio compagno, Ruggiero di Frassineto, pigliava il sole tutto nudo come un san giovannino, masticando spighe d’avena e suonandole al ritmo dei suoi piedi lordi, incrociati l’uno sull’altro e mossi alternativamente con pigre oscillazioni. La magrezza di quest’uomo era assoluta, nella luce accalorata dell’austro. Gli si indovinavano, già da lontano, confluenze azzurrastre di vene lungo i polpacci; le ossa a rilievo della gabbia toracica a momenti rischiavano di fuoriuscire lacerando il miserabile involucro della pelle. Una barba nerissima e disordinata gli seppelliva la faccia, frastagliata e triste come una terra di brughiera. Nell’insieme, una insopportabile aria da comando. All’inizio m’aveva stupito non poco il fatto che gli illustri inquisitori l’avessero arruolato, macilento e infido come pareva. Eppure all’occorrenza si dimostrò splendido.

Si trovava proprio al mio fianco, il giorno in cui ci presero in disparte e ci marchiarono il braccio con lo stemma del Santo Padre. Io dalla bocca sputai fuori il demonio; lui non fece un fiato, sebbene il dolore gli si impresse, irriducibile, sulla faccia e dalla pelle sotto il ferro salisse in aria un odore arcigno di carne bruciata.

Ora rimaneva lì, galleggiante sulla sua nube di sovrana indolenza, a godersi un sole pieno, per nulla messo in ansia dal compito delicato che ci aspettava.

– Forse è l’ora che ci dobbiamo muovere – mi disse a un tratto, ancora immerso nella sua realtà senza corpo.

– Credo anch’io, prima facciamo, meglio è – volli ribattere sicuro, quasi non attendessi altro momento che quello.

A fatica il mio compagno si scosse dal torpore. Sospirando rumorosamente elaborò con teatrale tranquillità tutti i movimenti necessari per rimettersi in piedi. Io lo seguivo con lo sguardo, pieno di deferenza, subordinato per istinto. Non capivo come facesse a restarsene in quello stato di totale, incorrotta glacialità, uno stato che lo rendeva indubbiamente superiore a me e ad ogni situazione circostante.

Una sua sbirciata d’intesa mi trovò subito in piedi. Ci avvicinammo alla donna. Stava riposando supina, con la testa appena riparata dall’ombra di un arbusto.

– Allora? – disse Ruggiero, agitandola con una pedata leggera.

La donna non aprì nemmeno gli occhi, come la si stesse scocciando a morte. Poteva avere diciotto o vent’anni, la pelle scura e forte delle genti contadine, ma, pure una specie di grossolana eleganza, nel corpo vestito di stracci, che la rendeva degna figlia di quelle estati torride del sud.

– Ve l’ho detto già. Aspetto un figlio. Sono incinta di quattro o cinque mesi – proferì calmissima.

– E di chi sarebbe questo bambino?

– Come di chi sarebbe. Di mio marito; stasera se non mi vede arrivare si preoccuperà e andrà a denunciare tutto al nostro signore. Vedrete: quello è uno che ci ha l’autorità.

– Siamo noi l’autorità – proclamai in sicurezza – tu bada intanto a non contarci frottole.

Ruggiero sospirò un paio di volte. Si vedeva bene che non credeva a una sola parola di ciò che la donna, andava dicendo.

Alcuni contadini l’avevano avvistata tra i campi di grano, a notte fonda, in compagnia di tre gatti neri a declamare al cielo strane litanie. Noi avevamo avuto il compito di condurre, se necessario mediante tortura, una prima verifica sul sospetto di stregoneria. Se i sospetti si fossero rivelati fondati, avremmo dovuto tradurla nelle prigioni inquisitoriali. In seguito l’inquisitore avrebbe istituito un processo pubblico al termine del quale si sarebbe data procedura alla sentenza. Ma ora si era presentata una difficoltà imprevista. La donna ci aveva annunciato non la sua appartenenza all’anima del diavolo, ma la sua condizione di futura puerpera. Noi dovevamo decidere se crederle, oppure continuare l’interrogatorio secondo la prassi abituale.

– Com’è che te ne vai per le campagne a mezzogiorno e non lavori? – incalzò Ruggiero, visibilmente annoiato.

La donna si mise seduta. Con un gesto grazioso della mano si riparò la fronte dai furori del sole.

– Mia madre vive nel villaggio e sta male con la gotta. Sto andando da mia madre.

Mi intromisi per saggiare le sue reazioni.

– Io dico che tuo figlio, ammesso che tu sia gravida, potrebbe essere il figlio del diavolo.

– Non è vero – protestò veemente, quasi alzandosi in piedi per lo sdegno – io sono devotissima alla vergine santissima e alla nostra santa patrona. Chiedetelo a tutti se volete.

Ruggiero la quietò con uno sguardo marrano.

– Lo faremo, stai sicura. Dicci ancora del fatto che ti hanno vista parlare con dei gatti neri in mezzo ai campi. Queste sono cose da streghe, lo sai?

– Ma non è vero, l’ho già detto che non è vero! Quelli che vanno dicendo queste cose io li conosco bene. Sono due animali che mi vengono dietro da mesi. Non sopportano che io rimango fedele a mio marito e faccio la vita della donna onesta, timorata di Dio.

– Hanno giurato sulla Bibbia.

– Anche io mi metto a giurare sulla Bibbia… e anche sul sacro cuore della Madonna… e sulla santa corona di spine che ha cinto il capo di Nostro Signore Gesù Cristo. Volete che mi metta in ginocchio?

– Vedo che non vuoi capire. Questa tua abitudine sconsiderata a chiamare in causa ogni volta tutti i santi a tua difesa ti fa ancora più sospetta.

La ragazza, bellissima nei suoi occhi neri coperti da serpentine di capelli crespi, si chiuse le gambe tra le mani e si mise un broncio risoluto sulla faccia.

– Quand’è così – disse – io non ho niente più da dire. Mi dovete lasciare andare da mia madre.

Lasciai il fianco del mio compagno inginocchiandomi di fronte a lei. La presi per i capelli, ma non brutalmente, quasi con delicatezza. In questo modo la costrinsi a rivolgermi lo sguardo. Respirava in affanno. Gli aliti brevi del suo respiro si insinuavano tra le mie narici trasmettendo un odore di frutto immaturo. Provai a fissarla fino in fondo alle pupille. Volevo scrutarle l’anima. Rimanemmo così per più di un minuto, senza parlare, io vicinissimo ai suoi occhi per imporle il mio potere e creare una situazione di imbarazzo, ma soprattutto per favorire l’occasione propizia di una rivelazione determinante, solenne, sublime. La donna invece tenne la disputa con altezzosa semplicità. I suoi occhi, come in uno specchio, non rimandarono che la deformata immagine di me stesso.

– Lo sai che adesso ti dobbiamo fare la prova dell’acqua? – dissi alla fine.

– Non potete – rispose decisa – ora sapete bene come sto.

– E’ la regola. Se l’imputato non ha confessato dopo le prime prove, si deve passare alla prova dell’acqua… non sono previste eccezioni.

Ruggiero interruppe bruscamente i miei tentativi.

– Non devi spiegarle niente. E’ dura come la pietra. A questo punto si tratta solo di procedere.

Ma non era così facile, almeno per me. La tortura dell’acqua consisteva nel versare nella bocca dell’imputato, coricato supino, una cospicua quantità d’acqua che poi si faceva espellere violentemente saltandogli sul ventre. Era una delle prove più diffuse e tra le meglio riuscite. In questo caso però, mettendola in atto, avremmo corso il rischio di travalicare il nostro compito. Se la donna diceva la verità l’applicazione della prova l’avrebbe fatta abortire di sicuro. Per quanto ne sapevo, ciò significava anche provocarne una prematura morte. D’altra parte, se il figlio che portava nella pancia fosse appartenuto davvero al demonio, la sua fine, e quella della strega sua madre, non avrebbe potuto suscitare sentimenti di esagerata riprovazione da parte dei superiori. Si sarebbero limitati ad un severo richiamo, come facevano sempre, ma niente di più.

Eppure non erano queste considerazioni a preoccuparmi.

Altre volte mi ero mostrato, sin troppo disinvolto, nella esecuzione delle pene. Ma chi di noi castigatori non lo era stato mai? Inoltre fino ad allora, si era trattato solo di mettere in pratica punizioni nei confronti di individui condannati perché macchiati di indubbia colpa, dunque bisognosi di una immediata espiazione. Che poi il mio esagerato zelo, o meglio la mia appassionata vocazione al nuovo ruolo di purificatore, m’avesse portato un paio di volte a determinarne una morte non prescritta, ciò non ne cancellava il marchio di sicuri colpevoli agli occhi di Dio. Invece nell’utilizzo dei metodi e degli strumenti di tortura, solo per indurre un semplice sospettato a confessare una eventuale malefatta, il mio scrupolo non arrivò mai a diventare causa di morte. Mi ripugnava che la mia mano non fosse guidata dal giudizio inappellabile di Dio; la possibilità di far morire uno che sarebbe anche potuto risultare innocente mi terrorizzava addirittura. Quasi mi sentivo felice quando, in ossequio alle regole del braccio secolare, potevo lasciare a piede libero un imputato qualora fosse riuscito a non cedere allo spasimo della tortura e a restare reticente.

Dunque, mi si presentava un dilemma di non facile soluzione. Non avevo dubbi sul fatto che Ruggiero non vedesse l’ora di chiudere sbrigativamente la questione a modo suo.

Faceva l’esecutore di giustizia con lo stesso disimpegno, con cui avrebbe affrontato una partita a dadi. Se la ragazza fosse crepata sotto tortura, tanto meglio: per lui era deciso che si trattava di una strega. Fino a qualche mese prima forse anch’io avrei messo da parte ogni remora e risolto il problema alla stessa maniera, altalenando tra noia e allegria. Ma per me il ruolo sacro che rivestivamo imponeva un rigore morale assoluto; soprattutto l’eventualità di trasformarci in gratuiti strumenti di persecuzione, spacciandoci per alfieri di Dio, tormentava la mia brulicante fantasia fino a farmi intravedere le fiamme dell’inferno a cui la mia azione assassina mi avrebbe certamente destinato.

Scaltro com’era, Ruggiero indovinò in tempo la mia titubanza.

– Tieni, vai tu al ruscello – mi disse offrendomi la brocca vuota – hai bisogno di distrarti la testa. E poi muoviamoci che oggi abbiamo altri due lavori da sbrigare, se non ti ricordi.

Senza protestare presi il recipiente e mi avviai verso il ruscello, pensieroso. Forse quella passeggiata m’avrebbe davvero aiutato a schiarirmi le idee. Per quel che mi riguardava, non avevo ancora deciso: di certo al mio ritorno avremmo ancora discusso sul da farsi.

Arrivai nei pressi del corso d’acqua in pochi minuti. Il letto del canale, quasi del tutto asciutto in alcuni punti, in altri si allargava in un reticolo di torrentelli… Ondeggianti al vento leggero, agli argini si intrecciavano piccole famiglie di cannucce di palude. Nuvole di mosche, zanzare grandiose e passeracei urlanti volteggiavano per aria in cerca di prede. Il sole grandeggiava su tutta la vallata e un frastornante gracidare di raganelle faceva da sottofondo. Io mi lasciai sorprendere da quello scenario pulsante di vita e per un attimo avvertii una strana felicità salirmi dal cuore alle tempie. Ne approfittai per togliermi di dosso quell’afa soffocante. Trovato un punto in cui l’acqua sembrava sufficientemente alta, mi ci tuffai dentro, tutto contento.

Sulla via del ritorno mi sentivo più rinfrescato, ma la bella sensazione di serenità assaporata nelle acque dolciastre del ruscello andava già svanendo. Il dubbio riprendeva a esibirsi come un tarlo cocciuto nel cervello; di nuovo mi faceva sudare. In lontananza cominciavo a vedere le due figure immobili così come le avevo lasciate: Ruggiero stravaccato tra i campi e la ragazza poco distante rilassata all’ombra del cespuglio.

Quando giunsi a destinazione, notai macchie di sangue insieme a brandelli di panni sparsi a caso sul terreno; il mio compagno giocherellava con una pietra scheggiata.

– …Una strega dannata – esclamò convinto, osservandomi di sbieco e cominciandosi a grattare la rogna sulla testa.

Dunque la ragazza era morta. Eppure gran parte della mia coscienza non si mostrò sorpresa. Per qualche istante rimasi a fissare il corpo della giovane donna, inerme e oltraggiato a sangue, senza che il minimo sentimento di rabbia o di compianto riuscisse a scuotermi da quella condizione di apatia.

Probabilmente Ruggiero dovette spiegarmi, nella sua maniera alquanto spiccia, che la malafemmina con un frasario volgare e movenze accattivanti da posseduta aveva provocato il suo impeto di maschio fiero. Così lui l’aveva punita, dapprima soddisfacendo brutalmente le sue smanie sessuali, poi scannandola senza pentimento. Io però riuscivo a capire poco di quanto diceva. Guardavo con espressione idiota la sagoma quasi sfigurata davanti a me, sentendo crescere dentro un’implacabile percezione di benessere, segnale di una risoluzione cruenta della faccenda che però mi salvava la faccia davanti ai superiori e davanti a Dio.

Restavo innocente, senza dubbio, dovevo sentirmi soddisfatto.

Eppure un fastidio sottile, costante, insinuato nei meandri della coscienza, mi teneva in una situazione di immobilità, come sempre accade a chi sente incrociarsi nella mente voci modulate alla stessa frequenza, ma tra di loro in aperta contraddizione. Troppo facile a capirsi: il mio era il ristagno generato dalla viltà!

– Non sappiamo nemmeno il suo nome – mi uscì detto senza controllo.

Ruggiero si girò e si mise a squadrarmi tutto intero. Se un minimo di cautela aveva mantenuto, fino ad allora, quell’affermazione totalmente goffa gli fomentò coraggio vivo nelle vene. Prese di nuovo padronanza della situazione.

– Dobbiamo liberarci del corpo – dichiarò – Seppellirlo neanche a parlarne… una strega… bisogna bruciarlo subito e disperdere al vento le sue ceneri maledette. Aiutami

Crispino…

Si avvicinò al cadavere. Lo prese per un braccio e fece per trascinarlo verso uno spiazzo libero da erba secca, ma dalla bocca di quel che credevamo un ammasso di carne morta uscì un lamento flebilissimo, appena avvertibile, che mi scosse nei precordi.

– Aspetta! Misericordia! Non vedi che è ancora viva?

Ruggiero si bloccò; fu la volta in cui troppo a lungo ci trovammo con gli sguardi incrociati per non farci cadere nel sospetto che ormai tra noi scorresse soltanto odio.

E forse alcuni di voi ancora pensano che un giorno l’apocalisse dovrà venire per tutti in uno scoppio di terre mangiate, di animali messi contro animali per ridursi a brani, di pioggia di fiamme e temporali di cenere, di preghiere cariche d’amore, di uomini espugnati a forza da case crollanti, di bestemmie gridate al firmamento e clamorosi pentimenti, di madri pietose che corrono coi figli verso ripari senza speranza, di amanti sodomiti che sfogano i loro ultimi amplessi, di tumulti di popoli straziati, di un massacro subitaneo e comune per tutti perpetrato per mano del primo e ultimo assassino: Dio!

Io invece vidi… non so che vidi. Per un tempo tutto mio che giudicai inesauribile, o desideravo lo fosse, un bianco lattiginoso mi accecò quasi da farmi piangere. Sotto pelle una continuazione di brividi in contrasto, di volta in volta, vennero a generare alienazioni, terrori e pandemoni d’estasi. Fumi rapidissimi attraversarono le deboli narici a profusione; fumi compatti ma privi di odore, all’inizio, esistenti solo a provocare nausee da derelitto, poi nettissimo un aroma di biancospini, che mi fece fantasticare sulle mie corse pazze di vent’anni prima sulla sabbia. E poi suoni senza melodie, che si abbatterono su un intelletto in smania d’ignoranza e facevano immaginare colori nuovi e paesaggi assurdi: fiamme di vegetali che avvolgevano animaletti da corallo in un cielo diventato di mare; ondulanti distese di grano trasformate in immensità di capelli, su cui maiali in volo planavano dolcissimi e ridenti; io stesso scaraventato in un grandioso flusso di alterazione, dove divenni prima capra e poi pastore. Il corpo me lo sentii come un immenso sacrario che nel mezzo bruciava incenso, o forse pezzi di carne umana, in un tormento di battiti, di polsi affaticati, di mani che si aprivano faccia al sole. E alla fine, inspiegabile, qualche frangente di alba tiepida, densa di silenzi paurosi, di mondo all’inizio del mondo.

Furono gli occhi quasi spenti di una ragazza in agonia a raccontarmi la mia personale rivelazione. E mi dissero dei fasti di una bella morte che, sola, riscatta milioni di giorni trascinati a caso nell’informe equilibrio delle cose. Ma finalmente la presenza di un amore diffuso in tutte le direzioni, pericoloso, potente, assente di paura e di speranza, l’amore più immenso, che chiama, al suo interno, superfici e profondità di abissi e presuppone la possibilità di un abbandono senza scomporsi, un amore che ama il sole e la tempesta, e sempre una guerra devastante dopo una troppo lunga pace, mi addolcì di colpo l’anima provocandomi a stringere tra le mani la testa della donna, ad ammirare commosso il taglio della sua gola.

– Come non vederti ora e pensarti diventare tutto l’universo? – le dissi inebriato – Io prendo su di me la tua morte e vado a purificarmi.

Ma quella mi spirò serena tra le braccia e la testa rovesciandosi sulle spalle allargò il solco sanguinante. Un rigoglio di denso liquido rossastro sboccò all’esterno a firmare l’ultimo dei giorni di una presunta strega in odore di santità. Io capii in quegli attimi incendiati di sole e di regni celesti che di vite puoi averne quante ne vuoi, ma solo la tua morte è unica: la sola cosa che davvero t’appartiene. L’amore verso la propria morte: ineffabile amore pronto a salvarti sempre, quando si vorrà scegliere la propria morte con tutto l’amore che esiste.

– Adesso la seppelliremo qui, – annunciai con voce imperante

– sotto questa terra; sopra metteremo una croce di Cristo e pregheremo per l’anima sua… oppure t’ammazzo!

Ruggiero fece un’espressione mai vista, forse per la prima volta si mise paura. Obbedì d’istinto, come d’istinto fino a quel momento io gli avevo obbedito. Vide di sicuro i miei movimenti toccati da una grazia nuova, un imprevedibile sorriso di superiorità, ma anche le mie braccia tese allo spasimo in attesa di deflagrare e due occhi di brace valutare ostinati, ogni possibile reazione.

– Saremo dannati per sempre – borbottò, cominciando a scavare.

– Tu lo sarai, che sei nato canaglia e per natura lo resti… l’uomo nobile invece, il rinnovato, combatte sempre le circostanze che gli sono a favore.

Probabile che a queste parole il mio compagno mi prese per pazzo, però rimase zitto. Questo per me valeva come ulteriore riconoscimento di potere.

Quella notte vegliai sotto un cielo per la prima volta pulito, a due passi dalla tomba della giovane contadina che mi aveva donato con la sua morte una benedizione da predestinato.

Ruggiero dormì con un occhio solo, malfidente come una serpe, certo con il cuore terrorizzato dal mio calmo delirio, ansioso di rincorrere i primi sprazzi d’alba per trovare una scusa non da vile e abbandonarmi, del tutto solitario, alla follia.

Anch’io attesi il sole del giorno dopo, lo attesi fino a che più breve divenne la mia ombra sotto i suoi raggi vertiginosi.

Mi sentii aumentare nella dimensione, artefice di me, autore di una sorte rifatta a nuovo, nudo come non mai, esploso di risate, bello di una bellezza uguale a quella di un animale da preda.

Quando le prime gocce di sudore si fecero perla sulla fronte, mi alzai di scatto cominciando a correre forte lungo la vallata, per non pensare più, perché durasse ancora un poco la frenesia nella mente.

Mi fermai stanco, fortificato, poco dopo mezzogiorno.

Avevo un tratto di corda in mano, finalmente capace di un definitivo inizio.