I racconti del Premio letterario Energheia

Albino_Tiziana D’Oppido, Torchiara(SA)

_Racconto finalista diciassettesima edizione Premio Energheia 2011.

 

Albino lavorava come tornitore sei giorni su sette, per dieci ore al giorno, nella grande acciaieria alla periferia nord della città, dove passava tutto il suo tempo a forare, svasare, smussare e sfacciare, sepolto vivo nella polvere e nel frastuono dei macchinari.

Capitava spesso, durante l’anno, che Albino non vedesse per niente o quasi la luce del sole. Nei giorni feriali e prefestivi la sveglia suonava alle quattro e trenta e le tapparelle restavano abbassate per non svegliare, inutilmente, moglie e figlioletti col loro cigolìo. «Tanto fuori è ancora buio» si consolava e, del resto, per la sua famiglia il mondo esterno s’apriva tutti i giorni sul pozzo-luce del palazzo color grigio topo.

Con gli occhi ingrommati e i capelli ancora schiacciati dal cuscino, Albino s’infilava in macchina e dopo un’oretta di strada parcheggiava dirimpetto alla fermata della metropolitana, che a quell’ora era deserta. La percorreva tutta, da un capolinea all’altro, con la testa che ciondolava sul petto e si scuoteva a ogni curva e frenata; e si presentava puntuale nel suo reparto per il timbro del cartellino, mentre fuori cominciava ad albeggiare.

Quando staccava dal posto di lavoro, il sole era già tramontato da un pezzo. Arrivava in casa con le narici spruzzate di polvere d’acciaio, la tuta unta d’olio e gli scarponi puzzolenti, strofinandosi gli occhi gonfi con le mani incatramate. Dopo una cena frugale e un bacio in fronte ai piccoli, non vedeva l’ora di riposare le stanche membra nel letto, su cui si buttava a peso morto, addormentandosi con l’eco degli stridori del mandrino ancora nelle orecchie.

Nel sacrosanto giorno di riposo domenicale restava chiuso in casa per dedicarsi ai figlioli e alle incombenze domestiche. I rari permessi, chiesti al lavoro, gli bastavano a stento per correre dietro alle grane e alle scadenze della quotidiana esistenza, che, suo malgrado, parevano spuntare e aggrovigliarsi per conto loro. Un giorno era una bega condominiale o familiare, il giorno appresso era il gestore telefonico che gli chiudeva per sbaglio l’utenza, quello dopo la banca che l’avvertiva di cervellotiche variazioni del tasso di mutuo o l’agenzia assicurativa che tirava fuori insospettabili eccezioni da una polizza che lui ricordava essere omnicomprensiva. Tutto sembrava cospirare contro di lui e, inspiegabilmente, più cercava di districarsi da imprevisti e seccature, più ne restava avvinto.

Pertanto, durante le ore di non-lavoro il corpo e la mente non facevano in tempo a riemergere dal torpore e dalle tenebre a cui erano abituati. Le ore a disposizione erano troppo poche per permettergli di prendere coscienza dell’esistenza della luce del sole, dell’aria fresca, della natura e della libertà.

Albino aveva sempre compiuto il suo dovere lavorativo e sociale con onestà e sacrificio e questo pensiero lo metteva in pace col mondo. Con gli sforzi di ogni giorno sentiva di dare il suo contributo alla società e di fare un passo avanti nel miglioramento della condizione sua e dei suoi cari. A volte, però, gli si insinuava nel petto una sottilissima e inspiegabile inquietudine. Allora ripercorreva mentalmente le varie fasi della sua vita, per cercare di capire se c’era stato da qualche parte un intoppo che l’aveva portato a quella faticosa esistenza o se il destino poteva avergli messo davanti una possibilità di cambiare vita e lui, per sua stupidità e limitatezza mentale, non se n’era accorto. Ma, nonostante gli sforzi di concentrazione, non ne veniva a capo. Nelle risicate ore serali di disimpegno cercava di appagare il suo senso di frustrazione e di scontento con piccoli svaghi e distrazioni: scorpacciate di sport e programmi scacciapensieri alla tv, lotterie e scommesse calcistiche al bar, frequenti visite e acquisti nel grosso centro commerciale.

Tutto questo gli dava una certa soddisfazione. Gli restava però, dentro, un sordo senso di ingiustizia e un embrione di pensiero, come un vago ricordo e un sentore di qualcosa che gli sfuggiva e che non sarebbe stato in grado di spiegare. «L’importante è non restare fermi nello stesso punto. Io vado avanti…» si ripeteva tutte le sere, mentre si metteva a letto, nella stessa posizione, alla stessa ora, per settimane, mesi, anni.

Con quell’ultima frase che restava sospesa per aria, come una domanda, in un attimo crollava in un sonno di piombo. Col passare degli anni e l’accumularsi di fatiche e preoccupazioni, questo pensiero che lo assillava si fece sempre più debole, finché se ne dimenticò del tutto.

Ora accadde che un giorno Albino, arrivando in fabbrica all’ora consueta, trovò chiuso il cancello d’ingresso. Provò a suonare e a chiamare, ma nessuno rispose. Il cortile interno sembrava deserto, il silenzio regnava sovrano. Si sedette fuori ad aspettare. Sopraggiunsero altri operai e, disorientati da quella strana situazione, ammutolirono e si guardarono attorno nervosamente.

Di lì a poco l’altoparlante li invitò ad entrare, uno alla volta, chiamandoli per cognome. Entravano, ma solo una manciata di loro usciva, dopo parecchi minuti, con le mani in tasca e il berretto calcato sugli occhi; e se qualche compagno tentava d’avvicinarsi per porre qualche domanda, quelli affrettavano il passo, tirando dritto per la loro strada. La maggior parte degli operai entrati, però, era come evaporata, ingurgitata dalla fabbrica.

Arrivò il turno di Albino. Una volta entrato, fu indirizzato verso l’ufficio del Direttore. In tanti anni di lavoro in fabbrica, non aveva mai osato pensare che un giorno avrebbe potuto conoscerlo. Non sapeva neanche che faccia avesse. Il fatto che volesse incontrare proprio lui, lo emozionò.

Il grande ufficio era avvolto da una spessa nuvola di fumo di sigaro. Il Direttore gli andò incontro affabilmente.

«Prego, amico mio, entri pure, s’accomodi, s’accomodi».

Albino si fece avanti e si sedette, mansueto e intimidito, con le mani in grembo e le spalle curve.

«Allora, eccoci qua… era da molto tempo che desideravo conoscerLa. Vado subito al dunque. Durante il turno di notte, è successo che il macchinario per la tornitura s’è inceppato. Abbiamo effettuato delle verifiche ed è risultato che c’è da cambiare l’hardware, ordinare nuovi pezzi dall’estero. Insomma, una cosa lunga… come se non fosse già sufficiente la grana che abbiamo, da due giorni, con l’impianto di laminazione. Del resto sono cose che capitano, quando non si ha un addetto alla manutenzione all’altezza della situazione. Ma tant’è… Lei sa cosa significa questo?»

Albino non lo sapeva e guardava il Direttore negli occhi, sicuro che gliel’avrebbe detto lui. Questi tirò una profonda boccata di sigaro e abbassò lo sguardo, lasciando passare qualche secondo di silenzio. Poi fece un segno di penna su un foglio che aveva davanti e lo guardò dritto negli occhi: «Significa che per oggi si prenderà una bella giornata di vacanza e domani si vedrà».

Albino non credeva alle sue orecchie e s’appoggiò alla scrivania per non perdere l’equilibrio dalla sorpresa.

«Come? Oggi non si lavora?»

«No, oggi no. E per domani Le faremo sapere. Non s’appoggi, però, coi gomiti impolverati alla scrivania, La prego…»

«Ah! Scusi, scusi» balbettò Albino, tornando alla posizione dimessa dell’inizio.

Era confuso. Fino al giorno prima, il tempo passato in fabbrica veniva cronometrato finanche negli spogliatoi e nei cessi di reparto, ora invece… ma il Direttore seguiva il filo del suo ragionamento e con la sua voce profonda e impostata sciorinava dati statistici e finanziari, addossava responsabilità e colpe, citava normative e congiunture economiche sfavorevoli, menzionava assemblee degli azionisti e intese sindacali. Sordastro, Albino s’allungava verso di lui, come se, per sentirlo meglio, avesse bisogno di guardarlo più da vicino, in faccia. Era ammirato e quasi ipnotizzato dalla superiorità mentale, verbale e anche fisica del suo interlocutore: la pettinatura ordinata, con i folti capelli scuri, divisi in due parti da una scriminatura perfetta, la dentatura bianchissima e smagliante, la pelle rasata di fresco, la giacca scura di sartoria, i gemelli d’oro ai polsi, la camicia a righe bianche e azzurre con le iniziali cucite a mano, il fazzoletto in bella mostra nel taschino… Si ridestò. Il Direttore gli aveva posto una domanda.

«Beh, dicevo, è contento? Così avrà un po’ di tempo libero per dedicarsi alla sua famiglia e a se stesso. Cosa Le piace fare nel Suo tempo libero, Albino?»

Albino non ne aveva idea. Il Direttore scribacchiò sul suo foglio di carta.

«Oh, beninteso, questo comporterà una piccola decurtazione in busta-paga, ma niente di rilevante, stia tranquillo».

Albino si era sporto nuovamente in avanti sulla scrivania.

«Non s’appoggi, però, non s’appoggi…»

Albino alzò le braccia in segno di scusa.

Non una sillaba di commento era uscita dalla sua bocca.

Non riusciva più a seguire i ragionamenti del Direttore, che da solo formulava domande e risposte: «Lei potrebbe dirmi: “Dov’è l’inghippo?” Nessun inghippo, è tutto regolare. Qui nessuno vuol toglierLe niente o privarLa dei suoi diritti, Le stiamo solo offrendo un’alternativa. E Lei mi dirà: “Chi me lo garantisce?” Ma come, chi glielo garantisce? Ma scherza? E la Sua stimatissima azienda, per la quale lavora ormai da oltre trent’anni, allora? È tutto sotto controllo, mi creda. Non abbia dubbi, vah là». Il Direttore parlava dolcemente, con tono paterno, lisciandosi la cravatta di seta. «Sa perché sono qui? Io sono qui per aiutarLa, per assicurarmi di instradarLa nella direzione giusta. Capisce?»

Veramente, Albino non capiva. Mosse le labbra come per dire qualcosa, ma poi preferì tacere, facendo spallucce.

«Vedrà» proseguiva il Direttore, continuando a scrivere distrattamente sul foglio di carta, col fumo di sigaro che gli usciva dagli angoli della bocca… «tra qualche tempo mi darà ragione. Andrà tutto bene, amico mio. Magari sarà Lei stesso a chiedermi di concederLe qualche altro giorno di riposo. Un altro giorno, una settimana o anche più… torni da me. Anzi…» si sporse verso Albino, guardandosi attentamente intorno, nel timore che qualcun altro potesse ascoltarlo e abbassando il tono della voce… «resti tra me e Lei… se me li chiederà glieli accorderò, caro Albino. Lei è un uomo fortunato, lo sa? D’altronde, gli altri operai non capiscono certe cose, ma Lei è diverso, Lei capisce la situazione».

Aggiunse fiero e quasi commosso.

Albino si sentiva orgoglioso ed emotivamente coinvolto da quel discorso, sebbene nella sua ottusità non ne cogliesse né capo né coda. Tuttavia, non voleva dare l’impressione di essere come tutti gli altri e s’asteneva dal far domande, annuendo grato.

«Ah, Lei però s’appoggia…»

«Scusi, scusi…»

«Ci pensi… avere un po’ di tempo tutto per sé, in questo mondo faticoso e complicato, in cui siamo sempre di fretta. Non è quello che desideriamo tutti, in fondo? Io un po’ la invidio, sa? Sapesse la mia, che vitaccia, quante rinunce, quanto stress… sempre in quest’ufficio, mai uno svago, mai un momento di riposo! Sa che ho un dolorino alla schiena che m’affligge da anni, guardi, proprio qui…»

Albino era sinceramente rammaricato per lui e annuiva comprensivo.

«Io la capisco bene, Albino, sa… in fondo siamo tutti sulla stessa barca.Voi in fabbrica, noi negli uffici, che differenza fa? Siamo ingranaggi della stessa macchina! Siamo tutti uguali, amico mio».

Era un momento di avvicinamento di anime. Il Direttore sembrava cercare un’intimità con lui, una complicità. Albino abbassava le difese e s’allargava, timidamente, in un sorriso sdentato.

«E, resti tra me e Lei… non dovrei farlo, ma insomma… mi sento di metterLa in guardia su una faccenda. C’è gente lì fuori che vuole creare un clima d’odio e di tensione, avanza pretese, progetta disegni criminosi… sì Albino, Lei si stupisce, lo so, ma ci sono persone fatte così per loro natura. Vedrà, non mancheranno le polemiche e i tentativi di mettere zizzania, ma si ritorceranno contro chi li ha inventati, glielo dico serenamente. Noi siamo per un clima disteso di dialogo e di armonia. La verità e il bene trionferanno. Mi dia retta, non si fidi di quella gentaglia, stia dalla parte dei vincitori, dalla nostra parte; noi sì che La conosciamo bene, vah là. Troveremo un compromesso amichevole, nevvero? Del resto, chi vuol capire capisca. A buon intenditor…» ammoniva il Direttore, puntando l’indice in alto, senza spiegare nulla.

Albino seguì con gli occhi la direzione indicata dal dito, sperando di trovare risposte. Stava ancora cercando di capire la connessione tra congiuntura e mandrino rotto, ma alla sua testa dura doveva essere sfuggito qualche passaggio importante. Tuttavia, istintivamente si fidava di quell’uomo che parlava bene, come quelli della tv e di cui riusciva, ormai a malapena, a distinguere il volto, avviluppato in una nuvola di fumo nero. La penna si muoveva veloce sul foglio.

«Ora mi dia retta, firmi qui e qui. Sì, dai, vah là. Bravo, bravo, si lasci condurre, amico mio…»

Albino firmò, in nome di questa primordiale e misteriosa amicizia.

«Bene, bene, oh… ora però s’è fatto tardi, La devo salutare». Disse il Direttore, chiudendo con un rumore secco l’incartamento «Dato che esce, mi andrebbe a prendere cortesemente un caffè? Senza zucchero e con il latte a parte… Eh? Ben gentile…»

«Subito, signor Direttore».

Pochi minuti dopo, Albino, con la gavetta ancora piena del pranzo sotto l’ascella, fu rimesso alla luce.

«Non dal cancello d’ingresso» gli aveva suggerito il Direttore «…per evitare di essere infastidito o traviato dai colleghi. Sarà meglio uscire da quello posto sul retro, a cui si accede attraversando l’area per lo smaltimento sfridi e scorie, ha presente?»

Mentre superava il cancello con passo incerto, lo sentì richiudersi dietro di sé con uno scatto e provò uno strano brivido lungo la schiena. Dovette stringere forte gli occhi, poiché erano troppo sensibili al riverbero del sole. Gli sembrava d’essere cieco per la troppa luce. Passò la prima ora di ritrovata libertà a gironzolare intorno alla fabbrica, svuotato e riluttante, come un cane separato dal suo padrone che gli resta affezionato e fedele e prova per lui una struggente nostalgia.

Poi s’incamminò, svogliatamente, verso la grande città.

Passeggiò a lungo, guardando acriticamente la gente attorno a lui, sentendola ridere, mangiare, correre, litigare e sentendosi alienato dal mondo. Dietro la vetrina colorata di un negozio di animali, vide un criceto in gabbia, che grattava annoiato il cartellino affisso, col suo prezzo di vendita. Privato di ogni stimolo, il criceto saltò sulla ruota e prese a correre all’infinito.

Albino distolse lo sguardo. I riflessi del sole sulla vetrina lo abbagliavano e gli davano fastidio, poiché gli occhi non si erano ancora riabituati a quell’inondazione di luce.

Cercò riparo in un parco. Si sedette su una panchina all’ombra e ascoltò il cinguettìo degli uccelli, lo scrosciare dell’acqua delle fontane, il frinire delle cicale, il fruscio dei cespugli e dei fiori che oscillavano, smossi da un leggero vento. Dalle chiome degli alberi filtravano i raggi del sole; spicchi di luce penetravano tra le fronde e disegnavano fasci lunghi e sottili, nei quali galleggiavano impalpabili granelli di polvere. Albino guardava come inebetito e non provava niente. Si sforzò ancora una volta di capire, di afferrare quel che gli sfuggiva, concentrandosi al massimo delle sue capacità, ma non ne venne fuori nulla. Restò sulla panchina per ore, impigrito e inerte, senza pensare a niente. Al calar del sole, sbadigliando, s’alzò e s’avvio sulla strada di casa, prendendo a calci un sasso.