Le parole dei giurati

L’armonia di una città

_di Licia Giaquinto,
Giuria ventesima edizione Premio Energheia 2015.

View of Matera, Basilicata, Italy

La prima volta che sono stata a Matera avevo poco più di venti anni.

Protetta dalla corazza della mia gioventù pensavo alla bellezza come armonia.

Le rovine e le rughe, delle persone e delle cose, mi ricordavano la morte, e mi facevano orrore.

Così, girando fra i sassi che erano stati evacuati da poco per mettere fine alla vergogna – come affermarono alcuni importanti esponenti politici- non vedevo nessuna bellezza in quella montagna tarlata, dove per secoli avevano vissuto milioni di persone, in condizioni simili a quelle delle bestie.

C’era un gran silenzio in quei luoghi abbandonati, ma mi sembrava di udire le voci di coloro che li avevano abitati, e immaginavo bambini rachitici e catarrosi vestiti di stracci che piagnucolavano aggrappati alle gonne lacere delle madri, impotenti a sfamarli. E vecchi scarnificati come cristi da mille malattie, che se ne stavano immobili su giacigli di foglie nell’umido delle grotte, in attesa rassegnata della morte.

Lungo il percorso ho incontrato moltissime chiese alloggiate in quei sassi, come se gli abitanti avessero voluto moltiplicare i luoghi di culto per testimoniare a Dio, alla Madonna e ai santi, la propria devozione, nonostante tutto, e aumentare così la possibilità di una salvezza.

L’oppio dei popoli, chiamava Marx le religioni, e, allora, ero d’accordo con lui.

Più avanti negli anni, però, ho capito che per gente misera e altrimenti senza speranze, quell’oppio era un grande lenimento, ed era un bene che l’avessero.

 

Sono ritornata a Matera molto tempo dopo, in occasione della presentazione del mio ultimo romanzo, e per partecipare, in qualità di giurata, al premio Energheia del 2014.

Non avevo più vent’anni, l’albero della mia vita aveva già cominciato da tempo a piegare i suoi rami verso le radici per chiudere il cerchio, dove inizio e fine coincidono, e molte cose erano cambiate in me e fuori di me.

Subito, appena mi sono affacciata sui sassi, la prima cosa che mi è venuta in mente è stata una poesia che avevo scritto per mia madre, poco dopo la sua morte, avvenuta qualche anno fa, e che finiva con questi versi:

Eppure di una sola cosa io ero certa

Eri la tana, eri l’agguato.

In quell’istante ho capito che l’etimologia giusta per Matera era Mater.

Matera è la grande madre, che ti crea e nutre, ma che può intrappolarti nel labirinto della sua accoglienza, fatta di seni e antri.

Matera rassicura e fa paura, è la città dei vivi e dei morti. E’ l’agguato e la tana. Ti invita ad entrare, ti allatta, e ti stordisce con il canto di mille sirene, le cui promesse sono voci trattenute dai sassi.

Ho accolto con molta gioia la scelta di Matera come capitale europea della cultura.

Le scelte sembrano razionali, dettate da fatti contingenti, addirittura frutto di strategie politiche, ma a me piace pensare che, al di sotto di esse, ci siano movimenti profondi causati da un inconscio collettivo che spinge il magma verso una certa decisione piuttosto che verso un’altra.

Comunque siano andate le cose, ho pensato: E’ un buon segno. Forse stiamo andando verso l’era delle madri. Si comincia a scavare nel profondo, a esplorare le grotte, gli anfratti. A dare importanza a ciò che prima non l’aveva, o l’aveva in misura molto ridotta.

L’armonia che cercavo nei miei vent’anni, pensavo, era solo superficie. La verità sta nel fondo.

E’ nel ventre della grande madre.

E poiché, mentre camminavo per quei sassi, sentivo venire dalla terra una grande energia, che però, stranamente, invece di agitarmi mi acquietava, ho pensato che il nome dato al premio “Energhia” fosse molto appropriato per un concorso di letteratura che si svolgeva in quei luoghi.

Anni fa mi sono occupata dei processi alle streghe, e quando nel famoso “Malleus Maleficarum” ho letto che le streghe bisognava sollevarle con delle corde prima di interrogarle per impedire loro di assorbire l’energia dalla terra e di resistere così alle torture, ho pensato che  fossero superstizione di sadici torturatori.

Quel giorno, invece, girando fra i sassi ho compreso che avevano ragione. Che per annientare le donne bisognava sradicarle dalle viscere della terra.

 

 

 

 

 

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