I racconti del Premio letterario Energheia

Domani è un altro giorno, Irene Pia Monaco_Messina

Finalista Premio letterario Energheia 2022 – Sezione giovani

Angelica Romano era una ragazza di Trieste, aveva ventinove anni e di mestiere
faceva la sarta. Ogni mattina si alzava alle sette in punto, percorreva Piazza della
Borsa, svoltava due angoli a sinistra e sollevava la saracinesca del piccolo locale.
La sartoria ‘La Trapuntosa’ era un bugigattolo accogliente che odorava di casa e
che era stato occupato da intere generazioni di tessitori. Dal 1915 la famiglia
Romano aveva arricchito il monolocale di stoffe e taffetà, tende in chiffon rosa,
uno sfarzoso lampadario color cipria e lunghe fila di gonne che sfilavano appese
alle pareti, anch’esse di un rosa intenso. Angelica aveva appena ricevuto il
diploma quando aveva cominciato a lavorare in bottega, circondandosi di ago e
filo ed imparando dalla madre come puntare gli spilli, usare la macchina da
cucito o come nascondere le cerniere all’interno della cucitura. Non si trattava di
una vera passione, ma la ventinovenne non si era mai soffermata a riflettere su
un altro possibile futuro: c’era sempre stata la sartoria e null’altro. Forbici,
metro e ago erano diventati gli strumenti del mestiere e lei li maneggiava
abilmente tra un lavoretto e l’altro, dedicandovisi anche a fino a tarda notte.
L’impegno era in parte ricompensato dalla paga, nonostante questa non potesse
rivelarsi soddisfacente come quella dei grandi atelier. I Romano facevano quel
che potevano, ma non gli era mai venuto a mancare quasi nulla. Conducevano
una vita normale e questo era più che sufficiente.
Si dice che la vita sia appesa ad un filo e che questo filo possa essere reciso in un
secondo. Johanna Schneider non ne era mai stata pienamente cosciente nel corso
dei suoi primi ventisei anni. Per la giovane italo-austriaca essere viva
rappresentava un’ovvietà: nulla di più, nulla di meno. Per ventisei anni aveva
parlato, gustato, toccato, suonato e, nella sua ingenuità, si era convinta che niente
di tutto ciò sarebbe cambiato di lì a breve. Ricordava ancora la prima volta che
aveva preso in mano un violino e come l’archetto stridesse contro le corde, frutto
di un primo tentativo mal riuscito. Ricordava anche la sua prima esibizione e
come la facesse sentire a suo agio scorrere le dita affusolate sullo strumento.
Non sarebbe mai riuscita a descrivere la sensazione del legno liscio contro la
pelle, come le corde rigide segnassero i polpastrelli che si muovevano agili lungo
il ponte o come l’orgoglio la inondasse a fine di ogni concerto, quando il pubblico
sugli spalti applaudiva al nuovo genio. Johanna non si era mai soffermata a
riflettere su un altro possibile futuro: c’era sempre stata la musica e null’altro.
I primi sintomi erano arrivati una domenica mattina. Palpitazioni, affaticamento,
svenimenti stavano diventando sempre più frequenti, ma la giovane Schneider li
etichettava come conseguenza di una serie di spettacoli organizzati nei più
prestigiosi teatri italiani. Si sentiva quasi infastidita dalle pressanti
preoccupazioni dei genitori, a suo dire eccessivi in ogni cosa. Il fastidio si era
tramutato in paura all’arrivo della diagnosi: cardiomiopatia dilatativa. Due parole
che spiegavano fin troppo bene ogni dolore, ogni fitta, ogni perdita di fiato, ma
che per Johanna rappresentavano solo delle lettere confuse, difficili da
comprendere. Il sogno del violino era sparito ed era stato sostituito da terapie,
controlli, farmaci e antibiotici. Le mani che un tempo suonavano concerti con
una maestria invidiabile, adesso risultavano più magre, ossute. Per la prima
volta dopo ventisei anni, Johanna si era davvero sentita appesa ad un filo, in
balia di una rabbia inspiegabile. Le sarebbe bastato così poco per tornare alla
vita di un tempo. Le sarebbe bastato solo un cuore.
Un elegante vestito rubino aveva dato del filo da torcere alla sarta di Piazza della
Borsa. La cliente era stata molto precisa al riguardo: l’abito doveva essere pronto
entro un paio di settimane e in condizioni a dir poco perfette. Angelica non era
solita concludere un incarico di quella portata in così breve tempo, ma non aveva
saputo dire di no ad una delle maggiori personalità triestine. Si era messa subito
a lavoro, creando il modello, cucendo e rifinendo i punti più delicati, sistemando
l’orlo delle maniche e applicando sul corpetto dei ricami in pizzo che
vivacizzavano la scollatura. Si era anche data la libertà di aggiungere dei piccoli
ritocchi ed il risultato finale le aveva lasciato un certo senso di compiacimento.
Terminati gli ultimi dettagli, non aveva perso tempo ad infilarsi nella sua Panda
turchese, appoggiando l’abito nei sedili posteriori. Quella sera pioveva, ma tanto
era orgogliosa del suo prodotto, che non aveva esitato un secondo a dirigersi
all’indirizzo di consegna. Aveva concluso il lavoro con due giorni d’anticipo ed
era sicura che la cliente sarebbe rimasta più che soddisfatta del risultato e delle
brevi tempistiche. Aveva premuto l’acceleratore con eccitazione, saettando tra le
viuzze del centro come un fulmine bluastro. La radio si bloccava ripetutamente,
ma all’interno del veicolo erano ancora riconoscibili le note di Jeff Buckley. Era
appena arrivata sulla tangenziale quando una moto le tagliò la strada. Le gomme
incespicarono sull’asfalto bagnato, le mani scivolarono inutilmente sul volante.
L’auto ruotò su se stessa, scontrandosi violentemente contro un altro veicolo in
arrivo. Un grido ovattato le graffiò la gola, un boato infuocato squarciò la sera.
Quando tornò la quiete, la pioggia continuava a cadere, come se niente fosse
accaduto.
La telefonata arrivò in piena notte. Johanna sussultò allo squillo del cellulare e si
alzò dal letto ancora assonnata. Si obbligò a percorrere la distanza che la
separava da quel rumoroso apparecchio. Avrebbe chiesto spiegazioni su una così
indesiderata chiamata e sarebbe tornata a dormire. Si era detta che sarebbe stata
questione di poco, ma una volta sentita la voce dall’altra parte della cornetta,
Johanna si era svegliata del tutto. Aveva indossato i primi vestiti trovati
nell’armadio e aveva aspettato che suo padre passasse a prenderla. Si sentiva la
mente annebbiata, come se si fosse appena destata da un brutto sogno. Anche
quando arrivò all’ospedale, la sensazione di torpore non era cessata. Aveva
chiuso gli occhi, le palpebre le ricadevano pesanti come piombo. Il viso di suo
padre fu l’ultima cosa che vide prima di entrare in sala operatoria.
Il concerto per violino in re maggiore di Beethoven era sempre stato uno dei suoi
preferiti. C’era una forza pulsante in ognuna di quelle note e Johanna non ne era
mai stata così cosciente come allora. Il teatro sembrava diverso e così il pubblico,
il violino, l’orchestra. Lei stessa si sentiva diversa, pur rimanendo la giovane
musicista che era sempre stata. Forse era tutto a causa del nuovo cuore che le
batteva nel petto. L’archetto si era appena fermato quando gli spettatori rivolsero
alla violinista i loro più sinceri applausi. Quello scrosciare di battiti che una volta
la riempivano di un arrogante orgoglio, adesso venivano accolti con una
semplicità a lei prima sconosciuta. Non era più ‘il genio Schneider’, ma una
ragazza di ventinove anni con un futuro davanti. Johanna aveva molti piani per
l’avvenire e aveva inaugurato il nuovo inizio della sua vita con una serie di
spettacoli di beneficienza. Sentiva il bisogno di ripagare un debito nei confronti
di quella vita che era stata recisa in favore della sua. Molti dicevano che dopo un
trapianto si accoglie una seconda anima e che i ricordi di un’altra vita facciano
breccia nel loro nuovo corpo. Forse era una follia, ma quando la ragazza si
inchinò al pubblico, stretta in un abito cremisi, sentì una lieve melodia provenire
da lontano. Le note di Jeff Buckley le suonavano nel cuore.